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Assonanze. Il mare all'improvviso.
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Che spettacolo meraviglioso è il mare. Quando ero piccolo il mare voleva significare quella decina di giorni in cui mio padre staccava finalmente dal lavoro e ci portava a fare i bagni. Anche se nel periodo estivo passavo con lui molto tempo sul luogo di lavoro di via Posillipo e praticamente ci stavo “dentro” al mare, tra la vista panoramica, la calata per Marechiaro e quella che porta da Giuseppone a mare (dove ho imparato a nuotare e dove c’è la residenza napoletana del Presidente della Repubblica), per me tutto il suo fascino risiedeva nell’attesa spasmodica di arrivare sul litorale domizio  e dare corso effettivo alle agognate vacanze estive. Ricordo che si partiva tutto punto come una famiglia media in perfetto stile “sordiano”, si facevano strade interne (la cosiddetta “via degli americani”, non c’erano ancora i comodi assi viari di adesso) col rischio, se si sgarrava con l’ora, di rimanere ore ed ore imbottigliati nel traffico e nel sole. Quando lo vedevo sbucare all’orizzonte l’inconsapevole gioia bambina già mi sussurrava che lui, il mare, è la via più breve verso la fuga dei sensi e l’incontro con l’assoluto. Non mi ha più lasciato questa piacevole sensazione di scoperta, come di una cosa che, anche se sai di avere sempre a portata di mano, ti sorprende ogni volta con uno scenario sempre nuovo. Si, perché il mare che ancora preferisco è quello che appare all’improvviso, quello che puoi scorgere tra le fessure delle case di Napoli e che alberga nei pensieri “mitici” della gente di provincia (per “la paura che ci fa quel mare scuro che si muove anche di notte e non sta fermo mai” canta Paolo Conte in “Genova per noi”), quello che sai che c’è sempre oltre i muri che ti sbarrano la vista, come una presenza amica, pronto, anche solo per un attimo, a regalare riposo agli occhi e sottrarre lo sguardo dalle insidie della terraferma. “Adieu, plancher des vaches” ha sentenziato Otar Iosseliani. E’ impossibile catturare la sua solenne maestosità, sarà per questo che mi piace il mare del cinema, perché non potendone che dare una rappresentazione parziale consente di immaginarne tutte le sensazioni che ci suggerisce. C’è un cinema che va verso il mare, come quello di Kitano (“Il silenzio sul mare” , ”Sonatine”, ”Hana-bi”) e di Kaurismaki (“Calamari union” , ”Tatjana” , ”Ariel”) ad esempio, come per depositarvi gli ultimi dolori, o giocarsi l’ultima goccia di speranza in un altro tentativo di fuga. C’è n’è un altro, invece, che sembra derivare da esso tutta la sua sostanza narrativa, come il mare “argentato” della bellissima sequenza iniziale di  “Come in uno specchio” di Ingmar Bergman, il mare calmo che sorprende Harry Moseby (Gene Hackman) nel tragico finale di  “Bersaglio di notte” di Arthur Penn, o quello in tempesta che accoglie Daniele Dominici (Alain Delon) nella fredda Rimini di “La prima notte di quiete” di Valerio Zurlini, film accomunati da una dolente drammaticità emotiva che pare sbucare direttamente dalle profondità marine. Ma sono tanti, è inutile continuare. Ecco, ci sono diversi mari, tanti quanti possono essere gli squarci da cui se ne può scorgere anche solo un lembo. Dietro una curva improvvisamente il mare.

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