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Non ho bisogno di Succession
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Nel panorama sempre più affollato delle serie televisive di successo, esistono fenomeni culturali che, nonostante il plauso unanime e il fascino irresistibile per molti, non riescono a toccare corde universali. Succession, la serie ideata da Jesse Armstrong, è un esempio cristallino di un prodotto che si staglia con potenza nel mondo dell'intrattenimento, eppure, per alcuni spettatori – tra cui me stesso – scivola via senza lasciare traccia.

A prima vista, il fascino di "Succession" appare innegabile: una famiglia disfunzionale al centro di intrighi, potere e la corrosione delle relazioni affettive in nome dell'ambizione. Gli elementi ci sono tutti. Logan Roy, interpretato dall'ineffabile Brian Cox, è l'epitome del patriarca implacabile, un magnate che domina la scena con la stessa ferocia con cui controlla il suo impero mediatico, la Waystar Royco. Dietro di lui, la schiera dei figli, combattivi, frammentati e, in molti casi, disperatamente alla ricerca di un riconoscimento paterno che non arriverà mai. La sceneggiatura di "Succession" è indubbiamente raffinata e la narrazione ha un'intensità quasi shakespeariana, tanto che la serie è riuscita a definire una cifra stilistica tutta sua nel ritrarre il mondo spietato dell'industria. Ma nonostante questa perfezione formale, non è riuscita a catturare il mio interesse. Dopo il primo episodio, la mia curiosità è evaporata, sostituita da una sensazione di distacco. Perché? Potrebbe essere proprio l'estrema precisione di questa rappresentazione a diventare, paradossalmente, il suo limite. La freddezza emotiva che permea ogni relazione tra i Roy rispecchia un microcosmo familiare dove i legami affettivi sono deteriorati da dinamiche di potere e denaro. Non c'è spazio per empatia e questo, pur essendo un tratto caratteristico e forse necessario, non sempre risuona con ciò che cerco in una narrazione. In altre parole, non è il tipo di dramma di cui avevo bisogno.

In "Succession", il vuoto affettivo è quasi tangibile. Ogni interazione tra i personaggi sembra intrisa di un calcolo, di un'opportunistica freddezza, rendendo il tessuto emotivo della serie rigido e inaccessibile. Il conflitto centrale (la lotta per il trono dell'impero) è un gioco di potere implacabile e distruttivo, dove non c’è mai una vera catarsi. Quello che rimane è un'esperienza frammentata, un'osservazione quasi clinica di un mondo che non permette aperture emotive. 

Molti elogiano l'umorismo nero della serie, una qualità che la salva da un eccessivo gravitas, ma anche questo elemento, per quanto brillante e sottile, ha fallito nel coinvolgermi. Forse è un limite personale, ma mi sono trovato a desiderare un maggiore investimento nei personaggi e nelle loro fragilità, qualcosa che andasse oltre la rappresentazione del potere come unica moneta di scambio nelle loro vite. Ciò non toglie che "Succession" sia una delle serie più rilevanti degli ultimi anni, capace di offrire una dissezione acuta del capitalismo contemporaneo e delle sue conseguenze su relazioni umane già precarie. Tuttavia, nel mio caso, non ha stimolato quel bisogno emotivo o intellettuale che mi spinge a continuare una visione. In altre parole, "Succession" è un'opera maestosa, ma non è riuscita a tessere quel filo sottile di complicità tra me e i suoi personaggi, lasciando un posto vacante nel mio (personale) immaginario televisivo.

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