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Il centro del mondo
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In un mondo ideale il nuovo film di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti potrebbe essere proiettato alla sala Energia del Cinema Arcadia di Melzo. Non perché la debba riempire, non per questioni di spazio, ma perché la cura con cui è stato realizzato potrebbe esplodere in tutte le direzioni irradiando correttamente la potenza che vi si annida.

In un mondo ideale però Bestiari, Erbari, Lapidari forse non avrebbe neanche ragion d'essere perché il mondo di cui parla è questo, il nostro, per nulla ideale, quello che l'uomo sfrutta, del quale raschia senza sosta la superficie, di cui saccheggia le risorse e depreda i fondali marini, che cerca costantemente di piegare al suo volere, mettendo sempre al centro le proprie esigenze e trattando i mondi animale, vegetale e minerale come se fossero semplici estensioni, come se fossero arti di un corpo da controllare, da domare, da dominare. E da ingabbiare in una successione di quadri che, per comodità, chiamiamo cinema.

Se sembra tanto, troppo, è perché Bestiari, Erbari, Lapidari è tanto, a volte troppo, per essere pienamente compreso. Non ci troviamo, infatti, di fronte ad un documentario d'inchiesta o di denuncia che mette alla berlina un tema specifico, non stiamo parlando di Food for Profit né di un prodotto tipo quelli di Michael Moore. Bestiari, Erbari, Lapidari non è un film semplicemente ambientalista, non alza la voce, non punta il dito, non accusa nessuno. Al massimo ci fa sembrare tutti un po' ridicoli, con le nostre pretese di controllo quando è ovvio che i mondi animale, vegetale e minerale ci sopravviveranno alla grande.

Il primo segmento (Bestiari) mostra cosa facciamo (e come guardiamo) agli animali. Ci mostra come studiamo i loro comportamenti, come li utilizziamo per le nostre industrie ma anche come li curiamo, come cerchiamo di salvarli quando sono malati, come li sottoponiamo a operazioni chirurgiche che sfidano il buon senso. Come, in sostanza, non possiamo fare a meno di mettere in atto, e in quadro, la nostra prospettiva, irrimediabilmente umana.

Senza mai puntare veramente l'indice, senza che alcun giudizio sia mai espresso, guardiamo quel che il nostro sguardo ha guardato e registrato e, ad un certo punto, inizia a insediarsi nello spettatore un disturbante senso di inutilità, una mancanza di senso, una latente vacuità in quello che facciamo.

Quando si cambia segmento e ci viene introdotto Erbari, da qualche parte proviamo un certo sollievo: si affaccia un pensiero non pienamente verbalizzato che con le piante andrà meglio. E invece, inaspettatamente, Erbari ci rifila la mazzata più sottile e definitiva. Inaspettatamente perché la maggior parte delle riprese è stata realizzata a Padova, nel più antico orto botanico al mondo tra quelli che hanno resistito nella loro collocazione originaria. Più di due ettari situati nel centro storico della città, un vero e proprio santuario della botanica mondiale, fondato nel 1545.

È in questo segmento che D'Anolfi e Parenti compiono la magia di far riflettere gli spettatori sulla molesta centralità dell'uomo osservando semplici semi che diventano piantine, piantine che diventano grandi e vengono interrate. Osservando colture di insetti la cui esistenza è funzionale solo ed esclusivamente al mantenimento degli habitat naturali di alcune piante che non si sognerebbero mai di nascere e resistere alla latitudine di Padova. Che sono lì, in quel luogo, per esplicito volere umano, perché l'uomo le studi, le osservi, certo, costringendole, però, a stare dentro a spazi predeterminati. E, quindi, per fare in modo che una Palma di Goethe, ad esempio, sopravviva a Padova, bisogna farla crescere all'interno di una struttura ottagonale che ne replica la forma lasciando intercapedini per l'aria ma proteggendola dal troppo freddo o da piogge eccessive.

Ad un certo punto succede, inevitabilmente, che tutto quel che vediamo diventa gabbia, sovrastruttura. Che parla, anzi emana, perché le parole sono sempre meno, un vago senso di inutilità, una quieta ma costante messa in scena della forzatura che innerva i nostri sforzi affinché tutto debba rientrare nel disegno umano. Lentamente questa sensazione prende la strada della consapevolezza che arriva, a seconda delle sensibilità degli spettatori, in un momento o in un altro. A me è apparsa chiara come una filigrana che non si può più ignorare, nella sequenza in cui un paio di impiegati procedono alla pulizia dei vialetti dell'orto botanico con dei piccoli lanciafiamme bruciando tutti i fili d'erba che crescono negli interstizi delle pietre di cui sono lastricati.

Immagine che non mi abbandona fino al terzo segmento che, opportunamente, si intitola Lapidari, con cui si affronta il mondo minerale portando a termine l'ultimo attacco a tenaglia. Lapidari si dipana su tre fronti e con un aggiramento filosofico che lascia senza fiato. Su un fronte vediamo la trasformazione industriale del cemento, su un altro fronte immagini (straordinarie) di dissidenti politici, anarchici e comunisti, schedati dall'Archivio di Stato intervallate da immagini di bombardamenti che riducono interi quartieri in polvere.

Infine, con un'ellissi kubrickiana, vediamo un uomo riempire delle formine con del cemento allo stato liquido, poi battere forte con un martello e un bulino su una placca di ottone, incidendo nomi, date di nascita, date di morte. Sono dissidenti o perseguitati e quello è il modo con cui si producono le pietre d'inciampo, fossili con cui l'uomo immagina di far sopravvivere la memoria del suo incontrollabile bisogno di sottomettere. Fossili che il segmento Lapidari cattura perché il cinema provi a fissare, se non il ricordo delle persecuzioni dell'uomo sull'uomo, almeno l'essenza, sottraendola al logorio del tempo.

L'utilizzazione dei fenomenali materiali d'archivio e del nuovo materiale girato con rigore da filmato industriale, però, è tutto fuorché giudicante e ha il respiro, invece, per rappresentare una specie di punto omega dal quale il cinema può farsi interprete di una nuova etica.

Avete presente quando stiamo leggendo un libro che produce molto movimento nella nostra mente e sentiamo il bisogno di posarlo aperto sulla pancia per non perdere il segno e fermarci a pensare un attimo per metabolizzare bene quello che abbiamo appena letto? Ecco: Bestiari, Erbari, Lapidari fa questa cosa con le immagini anche senza provocare un reale bisogno di fermarsi perché il suo ritmo meditativo lascia sempre lo spazio giusto per permettere a quel che vediamo di sedimentarsi e liberare tutto il suo potenziale, offrendo al materiale video nuove partenze e nuove strade sulle quali innestare libere interpretazioni.

Chi può lo vada a vedere al cinema, per ora è proiettato nell'ambito di un tour con i registi organizzato dall'Istituto Luce, poi chissà. E no, una proiezione alla sala Energia del cinema Arcadia, al momento, non è prevista…  Ma chi siamo noi per porre limiti a quel che gli uomini, e il cinema, possono fare?

Da guardare: la nuova puntata di F for Film Tv che Maurizio Bauduino e Leman gli hanno dedicato.
Da leggere: la recensione di Mck su L'infinita fabbrica del Duomo

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