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No non posso completare la frase, ossia il titolo del libro fittizio del romanziere fittizio personaggio centrale del film L'ultima settimana di settembre interpretato dal verissimo Diego Abatantuono. Perché è proprio da lui che bisogna partire per raccontare qualcosa di significativo su questo film apparentemente innocuo che però riesce, grazie ad alcune scelte narrative astute e ben modulate, a toccare qualche corda giusta di questo periodo.

Capiamoci, L'ultima settimana di settembre lo è, semplice, ma la costruzione del personaggio centrale è talmente precisa ed efficace che riesce a spostare l'asticella del film da innocuo a interessante e a farsi persino interprete di un invito a rallentare i ritmi incalzanti delle nostre comunicazioni e più in generale anche delle nostre vite a beneficio di elaborazioni più posate e meditate sui fatti che ci accadono.

Facciamo i bravi e non saltiamo alle conseguenze. Prima di tutto la trama. Il film si apre sulla preparazione metodica di un suicidio, quello del romanziere Pietro Rinaldi che, roso da innumerevoli sensi di colpa e odiatore professionista dell'umanità, è fermamente convinto di non avere più nulla da scrivere, da dire e da fare in una vita che è troppo piena di umani schifosi, lui incluso ovviamente.

Una volta portata a termine la procedura (ingozzarsi di pillole e alcolici) viene però richiamato all'ordine da una tragedia di portata ben più ampia della sua ipotetica dipartita: la figlia e suo marito sono morti in un incidente automobilistico e il loro figlio adolescente, e quindi nipote del romanziere, è ancora all'oscuro di tutto, fatto che richiede a Pietro Rinaldi una dose straordinaria di partecipazione e soprattutto di empatia che ha tra le conseguenze anche quella di dover rimandare il gesto estremo a momenti più propizi.

Il misantropo professionista, molto disturbato dall'essere stato costretto a mettere da parte le proprie aspirazioni autodistruttive, dopo aver comunicato il lutto al giovane nipote, senza intaccare la sua chiara incapacità di utilizzare eufemismi, comunica anche di non avere il profilo adatto per farsi carico di lui e, infatti, come una manna dal cielo arriva la possibilità di affibbiare il nipote e il suo bellissimo border collie allo zio, un fratello del padre che fino a quel momento era rimasto decisamente ai margini delle relazioni di famiglia e che ritiene sia giunto il momento di rimediare alla propria lontananza. Per portare a termine questo scaricamento di responsabilità resta solo da intraprendere l'ultima menata: un viaggio da Lecce a Roma in macchina. E che macchina.

Dopo un inizio decisamente giocato sul registro drammatico - a parte alcune rare battute di Abatantuono che sono un distillato di puro cinismo milanese e, col senno di poi, perfettamente adatte a costruire le premesse del racconto - il film prende una piega completamente diversa. Non c'è niente di meglio che mettere un misantropo disilluso, un adolescente un po' chiuso e un cane adorabile su una Citroen Ds Pallas degli anni '60 e di farli scivolare a 30 all'ora sulle strade provinciali e vicinali che separano Lecce da Roma, per ottenere l'effetto di lasciare spazio vitale al registro della commedia e allo stesso tempo sincronizzare l'umanità su un più coerente processo di elaborazione dei lutti.

L'esasperante lentezza con cui la Pallas procede tra le campagne pugliesi diventa l'escamotage grazie al quale, come sempre accade quando si evitano i percorsi standardizzati e necessari alla modernità per funzionare con efficienza, succedono le cose che cambiano completamente il segno di quel che facciamo. Ed anche il risultato, ossia quello che diventiamo.

Dai finestrini della macchina, rigorosamente aperti, entra un mondo che sembra(va) non esistere più: aria e polvere, vecchie case, famiglie contadine, una notte di pesca, autostoppisti a piedi, una maestra di scuola e di vita. E piano piano, procedendo per scarti, battute, soste e retromarce, si scopre che quell'umanità - quella che il misantropo professionista ha descritto nei suoi libri (tra i quali spicca il titolo Andate tutti affanculo ma anche L'uomo inutile) e raccolto nel suo inseparabile libretto nero sulle categorie insopportabili (praticamente l'intero spettro umano che sta tra i camionisti e le gattare) - non fa poi così schifo.

La disillusione acida del misantropo, l'incerto procedere dell'adolescente, la saggezza di Sid (no, non quel Syd) ossia l'unico personaggio che sa sempre cosa fare anche senza parlare, sono costretti, dalla decelerazione e dalla ridefinizione dell'unità di tempo, a lasciar sedimentare quello che dicono e quello su cui tacciono. E la condivisione forzata dello spazio - perfettamente amalgamato al mondo esterno al quale si può accedere senza dover prendere decisioni troppo traumatiche (è incredibile quanto è facile passare da 30 km all'ora a 0) - li costringe a rimodulare certe convinzioni, a rivedere certi automatismi psicologici, a mettere da parte tutte le scorciatoie mentali. Con queste premesse è ovvio che le cose, anche se il punto di partenza e quello di arrivo sono uguali, non possono andare a finire come previsto.

Perché quando non siamo rinchiusi e lanciati ad alta velocità nelle nostre monadi apparentemente dorate ed efficienti, dobbiamo abbandonare i nostri binari da criceti, aprire le finestre e calarci come nomadi, invece, tra le cose della vita.

L'ultima settimana di settembre - esordio nel lungo di Gianni De Blasi sceneggiato insieme a Pippo Mezzapesa e Antonella Gaeta e tratto dall'omonimo romanzo del genovese Lorenzo Licalzi - è uscito qualche settimana fa ma è ancora disponibile per una visione tardiva in una cinquantina di schermi.

Se l'avete visto votatelo, se non l'avete visto dategli una possibilità, o mettetelo nella vostra watchlist per future visioni in streaming. Andate tutti, in pace.

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