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Ci hanno illuso?
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Sull'ultimo numero di Film Tv in edicola e in digitale c'è, in ultima pagina, un intervento di Roy Menarini su un argomento di cui spesso abbiamo discusso anche in questi spazi: come stanno cambiando le logiche industriali delle piattaforme streaming e come questi cambiamenti impattano sulla nostra vita da abbonati. Ve lo proponiamo integralmente perché pensiamo possa dare voce a quello che riteniamo essere un comune sentire di molti spettatori.

A che cosa ci abboniamo quando ci abboniamo a un servizio di streaming? La domanda non deve apparire tautologica perché nel giro di un anno o poco più ciò cui pensavamo di aver diritto sta rapidamente scomparendo.

Spieghiamoci (e facciamolo in maniera empirica, non ho in mano dati frutto di ricerche e mi limito a osservare ciò che è palmare). Un tempo, pagare un abbonamento streaming significava portarsi a casa sia i prodotti nuovi via via distribuiti sia un numero enorme di titoli del catalogo. Certo, eravamo tutti ostaggio della durata ballerina dei diritti di library, nonché sottoposti spesso a versioni digitali dei vecchi film di qualità infima. Ma almeno si poteva contare sulla sensazione museale di un ricco giacimento da sfruttare.

Ora, però, varie piattaforme (Prime Video su tutte, ma anche Sky/Now, AppleTv+, per esempio) hanno recentemente trasferito a pagamento un enorme numero di titoli. Il che significa che non basta pagare già una certa cifra (e in rialzo ovunque) per accedere ai contenuti, ma serve aggiungere un costo di noleggio. Vale per film cult, per inediti, per porzioni non indifferenti della storia del cinema, per grandi successi anche recenti.

Se si aggiunge la frammentazione dei diritti di cui sopra, per cui le filmografie che ci interessano sono sparpagliate tra tanti marchi e servirebbe abbonarsi a sette/otto servizi per poterne coprire anche solo una parte, è facile capire come l’assenza di una Spotify dell’audiovisivo stia colpendo tanto il nostro portafoglio quanto una più sana circolazione - sia pur dominata dalle logiche di mercato - delle opere.

Il tutto è avvenuto perché la bolla dello streaming si è bucata, come qualcuno aveva già pronosticato quando (durante la pandemia) si pensava invece che il futuro sarebbero stati il divano e la smart tv. Adesso che i giganti licenziano, si fondono, alzano i prezzi, ritirano la merce, riducono le produzioni, avvelenano i pozzi dell’industria, non c’è nemmeno il gusto di fregarsi le mani per la soddisfazione. Sono dolori, purtroppo.
...............
Per quanto empirica, troviamo che la riflessione di Roy Menarini tocchi un nervo sempre più scoperto del nostro rapporto con lo streaming ed è ormai evidente che lo Spotify dell'audiovisivo, nel quadro industriale attuale, sia semplicemente irrealizzabile. Le piattaforme ci hanno illuso e sedotto con quell'idea ma ora ci tengono agganciati con il trucco più stagionato della Tv: gli episodi rilasciati settimanalmente.

Da un lato non è male riscoprire un po' di sana lentezza nel consumo, dall'altro lo schema rende sempre più difficile la decisione di sottrarsi agli abbonamenti.

Eppure una soluzione c'è. Qualcuno la troverà, statene certi.

E sì, ogni scusa è buona pur di dedicare una copertina a Slow Horses, la nuova stagione della serie di Apple Tv+ ci lascia lì con la bocca spalancata da una settimana all'altra. Ma anche perché il titolo italiano del romanzo di Mick Herron da cui la serie è tratta è... Un covo di bastardi.


Tuti gli articoli di Film Tv (inclusi quelli che fanno parte della rubrica Visioni dal fondo di Roy Menarini) sono disponibili con l'abbonamento Sezioni Digital su filmtv.press.

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