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L’avrete visto tutti perché sarà sicuramente passato anche in tv nell’ambito dei soliti 30 secondi che i Tg nazionali dedicano ai festival di cinema e anche perché quel tipo di contenuto funziona benissimo nei formati brevi che scorrono su Instagram o su TikTok, che sono da tempo le nuove frontiere sulle quali si combatte per conquistare l’attenzione degli spettatori.

Parlo di Brad Pitt e George Clooney che si muovono a passo di danza facendo finta di evitarsi a vicenda con mosse da pseudo spie e di Clooney che si siede tra i fotografi che stavano come sempre urlando il suo nome pur di ottenere un brandello di attenzione in camera, perché basta un secondo di uno sguardo diretto per avere una foto un po’ diversa da quelle degli altri fotografi: un sorriso dedicato, meglio certo, ma anche una smorfia va benissimo. Qualsiasi cosa pur di uscire dall’anonimato. Dopodiché un paio di battute frettolose all’intervistatore, proprio lì sul red carpet (che non è che sia proprio sia lo spazio ideale per buttare in campo questioni esistenziali, domande di gran peso giornalistico), "Chi è il più veneziano dei due?" "Lui passa più tempo all’Harris Bar", e ciao, dobbiamo scappare. Giustamente: è un red carpet mica l’anticamera del Grande Fratello, per le interviste c’è tempo.

Invece no, per le interviste nel festival c’è sempre meno tempo e meno disponibilità. Ed è un problema sollevato da alcuni giornalisti freelance che frequentano i festival da anni animati da Marco Consoli che ha testimoniato il trend discendente con una accorata lettera collettiva (ripresa da diversi media italiani e stranieri) il cui succo è in sostanza questo: il cast dei film presentati ai festival è sempre meno disponibile a concedere interviste che esulino dagli spazi dedicati e standard come le conferenze stampa. Spazi che sono caratterizzati da tempi molto compressi e da domande per forza di cose un po’ preconfezionate. Il risultato è un generale svilimento della professione giornalistica festivaliera e un conseguente appiattimento di contenuti, se andiamo avanti così partecipare ai festival rischia di diventare uno sfizio troppo costoso che pochi giornalisti potranno permettersi.

Ovviamente le direzioni dei festival non hanno alcun potere di imporre alle produzioni dei film presentati in concorso finestre soddisfacenti da dedicare alla stampa e quindi il tentativo di coinvolgere la direzione di un festival aspettandosi che possa esercitare una qualche forma coercitiva è difficile che funzioni: non si può condizionare la presenza di un film a richieste di questo tipo, se una grande produzione non dimostra interesse per questo genere di attività non la si può obbligare.

Qualcuno ha notato che questa mancanza di disponibilità si può tradurre in opportunità per le produzioni più piccole che invece possono beneficiare di maggiori spazi a disposizione ma tutti sappiamo che i media sono costretti dal loro mercato di riferimento, cioè noi e voi, a cercare sempre un equilibrio tra il già noto e lo sconosciuto e che è difficile ottenere attenzione e visibilità solo giocando le carte della qualità a prescindere dalla notorietà. Questo meccanismo si è amplificato con l’avvento dei new media che, in teoria, possono garantire maggiore facilità di contatto con nicchie e audience speciali ma che di fatto premiano sempre di più i grandi numeri amplificando la forbice ed espandendo le dimensioni del marginale e del marginalizzato.

Il tutto si inserisce perfettamente nel quadro di una certa svalutazione della parola scritta, della parola tout court, anzi, a favore del video, del reel, dell’immagine che, se va “bene”, diventa meme.

Anche perché, e questa cosa la vediamo costantemente nei media soprattutto italiani, spesso l’eventuale intervista rischia di venire ridotta anch’essa, in partenza, a titolo ad effetto che ha l’ambizione massima di far leggere il sommario: i due elementi ai quali viene affidato il compito di solleticare, sviluppare, il germe del nostro interesse. Elementi che comunque poi vengono triturati e passati al setaccio dai motori di ricerca e devono quindi rientrare nella stringente logica delle keyword di ricerca.

Da un lato ottenere lo spazio per un’intervista con una star sta diventando sempre più complicato e costoso, dall’altro il contenuto di tale sospirata intervista, per essere rintracciabile nel macro mondo del web, deve rientrare all’interno dei rigidissimi codici con cui Google analizza i testi e li restituisce ai navigatori, perché analizzare i testi costa risorse e la standardizzazione è un piano inclinato. Infine c’è il significativo rischio che comunque Google offra già la sintesi di quel che Almodóvar ha detto sull’eutanasia a Venezia direttamente nella pagina dove abbiamo fatto la nostra ricerca, rendendo definitivamente piuttosto antieconomico tutto il processo, sia per il giornalista (soprattutto per il freelance che frequenta il festival a sue spese e che quindi deve lottare sul campo per produrre contenuti originali) che per l’editore, qualora ce ne sia uno.

La questione non mi lascia indifferente (facendo questo mestiere, intendo) ma al tempo stesso mi spinge anche a chiedermi, e a chiedervi, quale sia il reale potere seduttivo di una intervista profonda, personale e ben strutturata a George Clooney o a Brad Pitt quando si tratta di indurre gli spettatori ad andare a vedere il loro nuovo film Wolfs, che peraltro finirà direttamente sulla piattaforma AppleTv + senza neanche passare per la sala.

Non è per svalutare il potere seduttivo delle parole degli attori al di là delle scenette sul red carpet o delle partecipazioni ai talk show, ma è per capire se il mondo della comunicazione si sta semplicemente muovendo verso la destinazione più logica ed efficiente a prescindere dalle resistenze che possiamo mettere in atto.

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