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Appena finita di vedere la nuova serie, il nuovo film, la nuova cosa, di Fabio e  Damiano D’Innocenzo, la prima sensazione che si prova, ricongiungendosi al mondo esterno, è un certo sollievo. Sollievo perché l’orizzonte, per quanto oscuro e poco roseo, almeno non ha le stesse tinte plumbee di Dostoevskij. Perché i suoni che lo accompagnano non sono quelli, tarkovskijani, composti dal musicista Michael Wall. Perché l’uomo, il mondo, la vita fanno probabilmente un po' schifo ma hanno il grande vantaggio di essere ingeriti a piccole dosi, come se fossero un veleno diluito in minimi, superflui, in/utili, gesti quotidiani. È quella cosa che chiamiamo sopravvivenza, se non proprio vita.

La cosa, la serie, il film, dei fratelli D’Innocenzo, presentato all’ultima edizione del Festival di Berlino, è un oggetto molto radicale, molto libero, nel senso più ampio del termine, ma libero, principalmente, dal condizionamento di piacere (al pubblico). E libero, anche, dalle furbizie che, per piacere al pubblico, si mettono, spesso inconsciamente, in atto. Dostoevskij è un prodotto audiovisivo al quale nessuno potrà applicare a cuor leggero il verbo piacere senza provare un minimo di turbamento. Ma questo non significa nulla, il piacere è sopravvalutato.

Se i fratelli D’Innocenzo leggessero l’inizio di questo testo - considerando che hanno diretto il prossimo numero del settimanale Film Tv insieme a Giulio Sangiorgio proprio perché è parso il modo più completo ed editorialmente consapevole di rendere giustizia alla complessità del loro film - potrebbero anche dire "Ehi amico, ma che ce stai a perculà?" Invece no, sono abbastanza sicuro che sarebbero d’accordo, perché in un’opera così quello che conta è che è praticamente impossibile distogliere gli occhi dallo schermo. Impossibile. Anche quando lo sguardo è saturato dal sangue, dalle ferite, dal dolore sordo. Anche quando le orecchie sono piene di grida umane, latrati di cani e di suoni che sembrano provenire dal centro di una terra in perenne ebollizione, sempre sul punto di esplodere, implodere, finire. Lo sguardo è sempre lì, sempre più appuntito, sempre più curioso, assetato, famelico. Non impegnato in un puro esercizio di voyeurismo ma profondamente coinvolto, catturato, invischiato, nel percorso del detective interpretato da Filippo Timi, protagonista di una discesa che sarebbe fin troppo facile definire verticale.

Facile ma inesatto. Perché a scendere in Dostoevskij non c’è solo il protagonista. Dostoevskij è come una di quelle sfere di vetro con la neve, lanciata in uno spazio dove la forza di gravità non esiste. Dostoevskij non scende, non sale, Dostoevskij non è soggetto alle regole della fisica perché si svolge in una dimensione parallela, che è al tempo stesso disumana e troppo umana. L’unica legge alla quale mi sembra assoggettato e alla quale assoggetta anche gli spettatori è una strana forma di magnetismo respingente. Una specie di forza costante e potente che coinvolge lo spettatore su diversi livelli: lo sguardo è attratto anche se la pancia vorrebbe darsela a gambe. Come se avessimo ingerito un magnete, dilaniato da due poli troppo simili.


Nei prossimi giorni inizieranno a circolare alcuni spezzoni di una conversazione tra Mauro Gervasini e i fratelli D’Innocenzo che è stata poi condensata nell’intervista che troverete nel numero in edicola da martedì prossimo. In uno di questi spezzoni, che potete ascoltare qui sopra, Damiano D’Innocenzo parla delle scelte legate alle location che è, per chi scrive, uno degli aspetti più conturbanti e fondamentali di Dostoevskij. Perché, anche se sulla carta la scelta è legata a doppio filo alle tradizionali scelte dei fratelli D’Innocenzo - le periferie laziali di Favolacce, America Latina e La terra dell’abbastanza - Dostoevskij è pervaso da una cappa, da uno spesso involucro, che ha il duplice effetto di attutire il peso e di amplificare la portata simbolica degli eventi che vi accadono. Gli esterni spogli e lunari dialogano costantemente con gli interni incredibilmente dettagliati, pieni di oggetti, memorie, resti, disperatamente umani. Un’umanità, che per un motivo o per l’altro, è arrivata alla fine della corsa, un’umanità che non può sanare alcun trauma e in cui nessuna relazione può realmente evolversi. Eppure nulla, nel microcosmo sotto vetro di Dostoevskij, sembra veramente in grado di fermarsi del tutto. E men che meno di finire davvero. E Dostoevskij, infatti, non finisce: muta.

Dostoevskij arriva, diviso in due spezzoni, sugli schermi cinematografici a partire dalla settimana prossima e muterà, appunto, in una serie tv che sarà programmata sui canali Sky, ma è nel buio della sala che merita di essere visto, perché, come dicono i D'Innocenzo nell'intervista allo scrittore Antonio Moresco (che fa parte del pacchetto di articoli di Film Tv coordinati dai due fratelli), "La luce rende le vite di tutti veramente diverse. E ingiuste. Nel buio invece siamo tutti uguali. Un fiato è un fiato, le altezze medesime, non puoi contare i soldi, non puoi contare sull’età, e, come tutti gli animali quando si spaventano, si inizia a scavare."

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