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Queste sono state le precise parole con cui sono stato gentilmente, e giustamente, invitato a partecipare ad una riunione genitori/maestri il cui tema, insidiosissimo, era "Partecipazione di volenterosi genitori ad alcune lezioni sull'imprenditoria". Con il senno di poi avrei dovuto darmi malato, o forse addirittura autosabotarmi in qualche modo rocambolesco, pur di non partecipare. E invece.

Invece, colto da un atipico spunto agonistico, non solo ho partecipato alla riunione genitori/maestri, ma ho persino alzato la mano quando la domanda "Qualcuno di voi vuole tenere una lezione su Brand e immagine corporativa?" è rimasta sospesa nel vuoto per molti, infiniti, secondi. Un silenzio spettrale che la "Prof" della classe di mia figlia ha saputo sostenere senza minimamente farsi incrinare dagli sguardi sperduti dei genitori che si posavano sull'orologio, sulla piega dei pantaloni, sulle scritte a pennarello dei piccoli banchi da scolari, sulla formula matematica scritta col gessetto bianco che riassumeva come svolgere le equazioni di primo grado che ancora svettava sulla lavagna, reliquia dell'ultima lezione della giornata.

Nessuno alzava la mano, non una parola. Finché la prof deve aver visto in me, "quello straniero piuttosto malvestito", una specie di incrinatura e quindi mi ha chiaramente interrogato con lo sguardo, cosa che è bastata per farmi assurdamente alzare la mano con impavida sicurezza e dire, forse con un tono anche un po' troppo alto rispetto alla situazione, "YO!". Una delle poche parole che posso affermare di pronunciare davvero bene (due lettere) in una lingua che chiaramente, allora, non dominavo per nulla e che, detto con estrema onestà, neanche adesso, dopo vent'anni in Spagna, parlo correttamente senza che le persone mi guardino con un sorriso maliziosetto all'angolo della bocca che significa più o meno: "Italiano, eh?".

"Muy bien" dice invece, soddisfatta, la prof mentre tutti i genitori si voltano verso di me. Temo di essermi persino alzato in piedi, senza che la cosa fosse minimamente richiesta o necessaria.

La sera a cena, quando inizio a raccontare l'episodio, vedo che gradualmente mia figlia inizia a manifestare chiari segni di preoccupazione e ansia. Che culminano infine con un pianto dirotto e con un grido di dolore ("No, papi, ti prego no!") quando, come un colpo d'ascia ben assestato, cade sulla tavola la drammatica consapevolezza che a condurre quella maledetta lezione sul "Brand e l'immagine corporativa" - di fronte ai 29 suoi compagni di classe tutti perfettamente maiorchini e spettacolarmente integrati - sarei stato proprio io. "Quello" straniero, quello che si veste casualmente male e che ritiene già un successo pronunciare in spagnolo una parola di una sola sillaba senza sbagliare la pronuncia.

Questo lo dico oggi. Dopo aver parlato con mia figlia un sacco di volte, dopo aver capito che il suo punto di vista sulla faccenda aveva a che fare con il suo legittimo bisogno di sentirsi "uguale". O almeno non tragicamente "diversa" ed esposta. Lo dico oggi che il fattaccio è diventato un aneddoto quasi divertente ma, al momento, quella reazione di mia figlia adolescente, costellata da "TU NON CAPISCI", mi lasciò semplicemente interdetto, se non sbalordito.

Alle sue recriminazioni di persona che cercava la strada più conveniente per gestire la trasformazione dall'infanzia all'adolescenza in territorio straniero, io opponevo modeste rassicurazioni basate sull'assunto che, comunque, al massimo, i suoi compagni di classe si sarebbero fatti un paio di risate di fronte ai miei strafalcioni, che anche se non parlo bene lo spagnolo me la sarei cavata perché "riesco comunque a comunicare" e tutta una serie di questi blah-blah-blah radicati nell'insostenibile balla tutta adulta (e vagamente ipocrita) che la diversità non deve spaventare e, anzi, è un grande patrimonio.

La facevo semplice, insomma.
Perché chiaramente non avevo ancora visto The Animal Kingdom.
Stacco.

Nella foresta che circonda il Centro in cui vengono isolate le strane creature di The Animal Kingdom, - esseri umani che si stanno misteriosamente trasformando in animali - c'è una di queste creature che è sfuggita, insieme ad altre, alle maglie del controllo degli uomini. Vive appollaiato su un albero secolare dove si è costruito una specie di nido grazie al quale riesce a mimetizzarsi (e a sfuggire alla cattura) e dal quale quotidianamente sperimenta l'arte del volo.

Le enormi ali che gli sono cresciute a tradimento sulla schiena non gli garantiscono ancora di potersi liberare della sua ingombrante eredità umana e di poter davvero spiccare il volo completando almeno un segmento di quella trasformazione. Ci prova e ci riprova, ma i tentativi terminano quasi sempre in rovinose cadute. In questa fase delicata della sua (non voluta ma urgente) transizione, lo assiste Émile, il giovane protagonista del film di Thomas Cailley magnificamente interpretato da Paul Kircher (Winter Boy). Ad un certo punto, mentre cura una delle numerose ferite che la creatura metà rapace e metà uomo si autoinfligge nei suoi tentativi di volo, Émile gli toglie dal volto una specie di maschera tipo Il fantasma del palcoscenico rivelando una serie di cuciture e di sbreghi. Si tratta di interventi chirurgici guidati da una furia normalizzatrice pienamente umana, con cui, chi si è preso cura della creatura, ha cercato di rintuzzare il percorso di una natura che stava chiaramente trasformando un naso in un becco. Un osceno abuso di bisturi e punti di sutura che incornicia uno sguardo spaventato eppure, in qualche modo, fiero e consapevole.

Non è una favola The Animal Kingdom. O almeno non solo. È un film che parla almeno quattro differenti linguaggi. C'è una natura che è chiaramente incazzata perché "Adesso basta", c'è il percorso di un padre che deve accettare la trasformazione di un matrimonio e poi quella del figlio e ci sono uomini che imbracciano fucili troppo allegramente. Ci sono adolescenti che parlano la stessa lingua ma non sanno più chi sono ed altri che si riconoscono anche senza dire una parola. C'è una foresta che si allarga, una fotografia che tinge il mondo di verde, una musica (Andrea Laszlo De Simone) che riempie la testa e ci sono silenzi che lasciano spazio ai pensieri.

The Animal Kingdom (2023): Trailer ufficiale italiano



The Animal Kingdom è molte cose e chiunque ci può trovare la sua. Se volete vederlo sappiate che è a al cinema (in molte sale) ed è giusto perché è al Cinema che andrebbe visto.

Comunque la lezione sul "brand e l'immagine corporativa" è andata bene.
Però alle riunioni maestri/genitori non ci sono più andato.

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