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Sono reduce dalla visione di due film italiani, cosa che non mi succede spesso. Un po' perché vivo all'estero e i film italiani che valicano i confini nazionali sono pochissimi, anche in streaming, un po' perché la disabitudine ha creato uno schema per evadere dal quale servono dedizione e impegno. E ho deciso di metterceli.

Il primo si intitola Patagonia, regia di Simone Bozzelli. È uscito in sala, in Italia, a settembre 2023, e parla di due ragazzi che cercano di evadere dalla marginalità spingendosi ancora più ai margini, decisamente fuori dal sistema. È una tipica storia in cui c'è uno, più sgamato e cinico, che trascina l'altro, acerbo, pacato, affamato d'amore. Sullo sfondo c'è l'Abruzzo, in un punto lontano del futuro, invece, c'è il miraggio di una fuga definitiva, la Patagonia che dà il titolo al film.

Il secondo si intitola El paraiso ed esce in sala la settimana prossima. Il Paraiso del titolo è ancora un altrove lontano, esotico, mistico, nel quale i due personaggi principali, madre e figlio - stritolati da una relazione ossessiva e relegati ai margini della società codificata - vedono il paradiso perduto, la prima, e un'eventuale nuova esistenza, il secondo.

I due film - sebbene molto diversi nella luce, nel colore, nei toni usati - hanno diverse cose in comune. Entrambi raccontano che cosa siamo disposti a sopportare pur di sentirci amati. In entrambi la musica e la danza permettono ai personaggi di uscire dai propri corpi, di evadere dai propri limiti, di praticare l'astrazione. Entrambi, infine, sono due ottimi esempi del cosiddetto cinema indipendente italiano, che è stato al centro di un piccolo dibattito nelle ultime settimane.

Al Festival del cinema indipendente (appunto) che si è svolto due settimane fa a Bellaria - appuntamento molto amato e frequentato da un pubblico giovane e dagli addetti ai lavori (studiosi, critici, appassionati di cinema non irregimentato) - si è tenuto un incontro, nell'ambito del programma Industry, al quale ha partecipato l'Amministratore Delegato di Rai Cinema Paolo Del Brocco. Un signore "dai capelli bianchi" (parole sue) di grande esperienza nell'industria cinematografica italiana che ha "prodotto o co-prodotto 850 titoli" da quando fa questo lavoro.

Davanti alla platea di Bellaria, Paolo Del Brocco ha tenuto un lungo discorso in cui ha ritenuto "utile offrire un punto di vista a giovani interessati a capire le dinamiche della nostra industria del cinema”. L'intervento, negli spazi giornalistici che gli sono stati riservati, è stato variamente stigmatizzato soprattutto in un paio di passaggi in cui l'Amministratore Delegato avrebbe affermato che "Le velleità autoriali sono sicuramente una cosa molto bella per fare palestra, ma se si parte con l’idea di fare questo tipo di cinema per sempre, purtroppo, non si può. Anche grandi autori come Bellocchio, Amelio, Sorrentino e Garrone l’hanno capito. Stanno facendo dei film che vanno molto più incontro al pubblico, bisogna pensare a storie che vadano incontro al pubblico”. E ancora: “Un regista non deve per forza scrivere le sue drammatiche storie di periferia, può prendere una sceneggiatura e interpretarla. Si può fare cinema, cinema di intrattenimento, di racconto, di narrazione, di sentimento, senza dover per forza sentirsi Kaurismäki”.

I corsivi sono tratti dall'articolo apparso su Hollywood Reporter (che trovate qui), in cui appaiono esattamente come corsivi e quindi, dobbiamo dedurre, dovrebbero essere citazioni letterali del discorso di Paolo Del Brocco, che però, successivamente, sempre su Hollywood Reporter (qui), ha un po' stemperato la durezza dell'intervento esprimendosi con maggiore pacatezza.

I toni usati a Bellaria, però, hanno sollevato diverse reazioni nel pubblico tra cui era presente proprio Simone Bozzelli, il regista di Patagonia, che si deve essere sentito chiamato direttamente in causa sulle "drammatiche storie di periferia" e, prendendo la parola, ha detto che era abbastanza spiacevole sentir consigliare ai giovani di non fare gli autori dal momento che è difficile convivere per la lunga produzione di un film con una storia che non gli appartiene e non lo racconta.

Se da un lato l'Amministratore della società di produzione Rai ha sicuramente le carte in regola per elargire consigli a chi vuole intraprendere la strada del cinema, dall'altra, forse, il festival del cinema indipendente di Bellaria non era esattamente il luogo giusto per invitare i giovani registi a raccontare storie meno periferiche, più in linea con la contemporaneità, preoccupandosi di raccontare storie meno drammatiche che vadano incontro al pubblico.

Perché la parola chiave, qui dentro, è esattamente indipendente. E indipendente significa, anche, libero dai condizionamenti del mercato. Il discorso dell'Amministratore Delegato di Rai Cinema - che è società pubblica, detenuta dal Ministero dell'Economia e delle Finanze, elemento che non andrebbe dimenticato - sarebbe stato, forse, adeguato, in un'altra sede.

E ribadisco forse perché viviamo in un'epoca in cui la produzione di immagini è gìá governata per la maggior parte da quel che il pubblico vuole, basta pensare a quanti prodotti tutti uguali, esattamente tarati su quel che il pubblico dimostra di volere (avevo scritto "bisogni del pubblico" ma in effetti non e una soluzione dialettica molto elegante), vengono sfornati a getto continuo dalle major e dalle varie piattaforme.

Quel posto di cui parla Paolo Del Brocco, - il cinema che incontra le esigenze del pubblico - prodotto secondo standard rigidissimi e aderendo alle logiche di mercato, è già qui, è il nostro presente. E a me sembra che, invece, per rieducarci al cinema e per curarci dall'assuefazione, ci sarebbe bisogno di dieci, cento, mille sguardi nuovi. La sorpresa dovrebbe essere la norma non l'eccezione. E chi cerca di mettere in quadro visioni innovative e personali dovrebbe essere incentivato, non tarpato sul nascere in nome del dio mercato. Soprattutto da chi gestisce una società statale.

Se no di quale indipendenza stiamo parlando?

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