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C'era una volta Internet
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Le utopiche promesse dei primi anni di Internet si sono deteriorate. Ma Filmtv, che in quegli anni già c'era, svetta ancora oggi come un'alternativa da preservare. Al posto del profitto ha messo al centro la passione e, invece di stimolare la competizione, ha favorito la condivisione, anche della scrittura di una newsletter. Celebriamo, tutti insieme, questi valori. 

 

Tom Cruise, Miles Teller

Top Gun: Maverick (2021): Tom Cruise, Miles Teller

 

In Italia, prima del 1995, non era previsto un uso commerciale di Internet. Erano connesse solo alcune università dal 1986. Quando, nel 1995, partì la liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni, non c'era ancora il protocollo V.92 e il modem analogico più diffuso era quello a 33.6 kbps. Di lì a poco sarebbero arrivati il modem a 56 kbps e, dal 2000, le prime ADSL. Affinché l’accesso a Internet diventasse un fenomeno di massa grazie all’espansione della banda larga e al relativo abbattimento dei costi, sarebbe stato necessario attendere la seconda decade del XXI secolo. La diffusione degli smartphone avrebbe completato l’opera mentre, oggi, sempre più connessioni FTTC (Fiber To The Cabinet) e FTTH (Fiber To The Home) raggiungono le case degli italiani.

Navigare in Internet non è stato sempre uguale e non è banale ricordarlo per chi guarda ai social come l’unica forma di interazione virtuale possibile.

È esistita una fase della storia del world wide web in cui coloro che si immergevano nel mare digitale erano una sorta di pionieri.

Vorrei partire da questa riflessione:

La mia è stata una generazione cerniera tra l’analogico e il digitale. Ed è come se quelli tra noi che si sono buttati per primi online fossero diventati gli adulti della Rete di oggi. […] Chi oggi confonde Facebook con Internet spesso si dimostra anche privo delle competenze per usare la Rete in modo sensato ed educato. Molto spesso si tratta delle stesse persone che non capivano cosa facessi quindici anni fa quando passavo le ore connessa dal pc di casa. [...] Per me, ad esempio, Internet ha significato la fine della solitudine perché ho iniziato a navigare, nel 1998, spinta dal bisogno disperato di parlare con qualcuno della mia passione per i fumetti: essendo cresciuta in un paesino di 2500 abitanti, non avevo quasi nessuno con cui farlo. Per tanti, nella mia generazione, la Rete è stata anche un luogo di formazione emotiva, per non parlare del fatto che ha influenzato le scelte professionali future di tanti di noi. Eleonora C. Caruso, giornalista e scrittrice, podcast Retrowired 2019-2020

Com'era la Rete di un tempo? Sicuramente meno affollata, più costosa, più ardua da valicare per chi non masticasse informatica. Ma era uno spazio, forse, più autentico in cui chi vi accedeva era davvero interessato a parlare di passioni comuni e meno a 'esibirsi'? O quest'ultima è, in realtà, una visione romanticamente distorta della 'giungla senza regole' quale, forse, era il web anni fa? Come stavano davvero le cose? Cosa significava navigare 20-25 anni fa? In cosa era simile a oggi e in cosa era diverso?

Blog, portali tematici, forum, newsletter (ivi compresa questa che leggete), un tempo prioritari nel web, oggi sono inevitabilmente andati in secondo piano, sovrastati dallo strapotere dei social che hanno contribuito alla creazione di una vera e propria industria delle relazioni

Capire le differenze tra l'odierno web social-centrico e il web di un tempo (come riferimento temporale, può andar bene il 1995-2008) può, forse, aiutarci a capire chi siamo diventati, come sia cambiato negli anni il nostro approccio al mondo virtuale e cosa rappresenti oggi Internet nelle nostre vite.

Nel 1995-2008 le regole auree che governavano l’attività dell’utente medio erano fondamentalmente due: anonimato e netiquette. Il primo era garantito da avatar e nickname, la seconda era l’equivalente delle tavole della legge il cui mancato rispetto comportava l’espulsione da una community.

Nel 2008 Facebook esplode anche in Italia e l’utente medio inizia a fare qualcosa di impensabile in precedenza: rivelare i propri nomi e cognomi reali, condividere foto proprie e dei propri cari, senza che ciò disincentivasse la libera condivisione di ogni pensiero, fosse anche il più deteriore e censurabile. Improvvisamente la privacy che nickname e avatar garantivano svanisce nel nulla e inizia l’era del business dei dati, del profiling a fini commerciali, del marketing. Internet cambia volto, i social si moltiplicano e spopolano in tutte le fasce d’età, anche tra coloro che non avevano vissuto l’età d’oro dei forum e che non avevano mai sentito nominare la parola “netiquette”.

La rivoluzione, da digitale, si fa socio-antropologica: nascono nuove professioni (content creators di vario tipo, influencers, etc.), cambia l’apparato relazionale per come eravamo stati abituati a viverlo negli ultimi due decenni del Novecento, dilaga l’opinionismo di massa che si rivela capace di incidere sul risultato di elezioni politiche, referendum e campagne vaccinali. E, visto che siamo su un sito che tratta di cinema e serie tv, cambia anche il nostro rapporto con le immagini.

Se, fino alla fine della prima decade degli anni 2000, gli audiovisivi a cui l’utente medio poteva accedere erano filtrati pressoché tutti da una linea editoriale professionale, fosse essa cinematografica, televisiva o videoludica, l’arrivo dei social trasforma ogni singolo individuo dotato di smartphone in un creatore di immagini, fisse o in movimento.

Se, un tempo, per avere un pubblico, servivano percorsi molto lenti “mediati” da qualcuno o da qualcosa - che poteva semplicemente essere il denaro necessario per affittare un teatro per una sera -  oggi chiunque può far leva sulla cosiddetta “viralità”. Se, un tempo, a scegliere per noi spettatori era un intermediario – il ginepraio delle produzioni e distribuzioni cinematografiche, gli interessi talvolta di bottega del giornalismo televisivo, le logiche del mercato letterario – che aveva il potere di scegliere, di provare, di sperimentare, di investire in costosi battage pubblicitari ma anche di boicottare prodotti culturali senza essere visto, oggi tutto questo non avviene più. O, meglio, non avviene più con la stessa forza a livello di penetrazione nell’immaginario collettivo.

Un luogo comune contemporaneo vuole che la cultura sia morta, che non esistano più grandi film e che non vengano più pubblicati né grandi libri né grandi dischi.

Il problema è fondamentalmente percettivo: esistono ancora oggi grande cinema, grande narrativa e grande musica ma non hanno la rilevanza mediatica che meritano. E non hanno la rilevanza mediatica che meritano perché l’indebolimento dell’intermediazione professionale ha comportato la liquefazione di un sentire comune e condiviso.

L’immaginario collettivo è il motivo per cui tutti sanno di cosa tratti Titanic anche se non hanno visto il film di James Cameron, tutti associano la traversata del Rex a Fellini anche se non hanno mai visto Amarcord per intero, tutti conoscono As Time Goes By grazie a Casablanca.

Oggi, come si fa a dare visibilità ad un tipo di cinema o di musica o di narrativa che esulano dalle solite sonorità o dai soliti percorsi drammaturgici a cui ormai il pubblico di massa è abituato? Al netto di eccezioni che confermano la regola come Parasite, Perfect Days, Past Lives, La zona d’interesse - in quanto tali, andrebbero tutte studiate singolarmente – film come Il gusto delle cose, Anselm, Il male non esiste, La chimera, Anatomia di una caduta, Palazzina LAF, Adagio, The Old Oak intercettano solo una nicchia, più o meno grande a seconda dei casi.

Se è vero che la pubblicità è il motore del commercio, in che modo oggi si può catturare l’estremamente fragile attenzione di uno spettatore comune e convogliarla verso qualcosa di diverso rispetto alle sue solite frequentazioni mediali?

Torno al discorso social. La quantità di content creators, influencers, divulgatori, opinionisti è ormai talmente grande da essere, a spanne, quasi in rapporto 1:1 rispetto al pubblico potenziale (da cui si deduce che ci sono creators che hanno tragicomicamente solo se stessi come pubblico: ad alcuni magari sta pure bene, l’importante è esserne consapevoli, d’altronde la masturbazione è fare sesso con qualcuno che amiamo). Poiché il funzionamento di ogni social si basa sulla riproposizione di contenuti simili a quelli che l’utente dimostra solitamente di apprezzare, è evidente che solo un grande evento mediatico possa incrinare la bolla che ognuno di noi si costruisce. Se, fino ad un paio di decenni fa, il famoso intermediario di cui sopra era in grado di costruire eventi di questo tipo più volte l’anno, lanciando di volta in volta il tale scrittore o il certo regista o quell’altro cantautore, magari scegliendone alternativamente uno allineato ai consumi e agli umori culturali della propria epoca e uno, al contrario, sperimentatore ed eretico (Umberto Eco ha già detto su questo tema tutto quello che avevamo bisogno di sapere), oggi tutto questo è reso estremamente difficoltoso e frammentato dai social.

Ancora oggi è l’industria a dettare legge, se non altro per un discorso di strapotere economico, ma le maglie attraverso cui opera sono ancora più strette. In altre parole, oggi è più difficile consacrare al successo qualcosa di diverso rispetto a quello che va per la maggiore. Chi esce dal seminato in campo artistico, a fronte di una maggiore possibilità espressiva garantita da numerosi mezzi e palcoscenici, paradossalmente oggi più di ieri rischia di essere condannato all’irrilevanza, anche nella rosea e non banale ipotesi che goda di supporto industriale con relativo battage pubblicitario (Flaminia, esordio alla regia di Michela Giraud, pur avendo goduto di risorse che molti indipendenti sognano anche in termini di ufficio stampa, non è arrivato a 200.000 euro di incasso; ma è solo l’ultimo caso di una tendenza sconfortante).

Ciò detto, la colpa – questo termine è stupido e ricattatorio ma non me vengono altri più adeguati – non è dell’industria. Troppo facile prendersela con chi ha come lavoro quello di massimizzare, o almeno creare, profitti.

Il mercato lo facciamo noi, la massa. Se le nostre pretese culturali tendono al basso, non possiamo prendercela con un sistema che continua a diffondere e a riproporre materiale che di artistico non ha veramente nulla ma che noi premiamo coi nostri ascolti e le nostre visioni, ignorando completamente un differente panorama musicale e cinematografico magari più fecondo ma lontano dai nostri occhi che sono sempre meno capaci di posarsi su qualcosa di nuovo (anche questa è nostalgia, canaglia).

Bene, cosa c’entra Internet in tutto questo? Sarà controcorrente dirlo ma Internet è uno strumento straordinario, è un bellissimo posto per il quale credo valga ancora la pena lottare. Come? Recuperando la mentalità, la freschezza, la disponibilità alla scoperta che ha caratterizzato l’online di più di un ventennio fa e che anche questo sito, stoicamente resistente dal 2002, incarna.

Al netto dell’evidenza che, anche un ventennio fa, in Rete circolassero i precursori degli attuali troll e complottisti, il web prima dei social era una terra selvaggia tutta da scoprire. Navigare 20-25 anni fa era un atto disimpegnato e libero, ancorché oneroso. E il minimo comune denominatore era la passione per qualcosa: calcio, cinema, automobili, orologi, videogiochi, letteratura, fotografia etc. Era un luogo in cui si poteva essere se stessi e dire quello che si pensava per il puro piacere di farlo, senza l'ossessione della popolarità (che poi è diventata sinonimo di monetizzazione) e senza il bisogno di aderire a modelli imposti dai vari influencers.

Si dava importanza ai contenuti e l’autorevolezza di un utente – anonimo – era fondata su quello che sapeva dare ad una comunità di pari, non di seguaci.

Oggi che siamo diventati tutti content creators, il “contenuto” è ancora l’oggetto principale della nostra attività online? E la persona dietro quel contenuto è ancora percepita come un appassionato, come “uno di noi”, che interagisce con noi dalla stessa latitudine? O è solo l’ennesimo speculatore pronto a monetizzare le nostre interazioni cavalcando fenomeni mediatici?

Non amo la cronaca, ma a volte è utile: pochi mesi fa, quando è emerso che Greta Gerwig e Margot Robbie non erano state candidate agli Oscar 2024 come miglior regista e miglior attrice protagonista per Barbie, molti influencer dell'attivismo femminista hanno gridato allo scandalo denunciando un boicottaggio dalle tinte patriarcali da parte dell’Academy. Si tratta di persone che, non parlando abitualmente di cinema, ignoravano che sia Gerwig che Robbie fossero in realtà candidate entrambe come migliori produttrici, dal momento che Barbie ha avuto la nomination a miglior film. Persone che, non parlando abitualmente di cinema, ignoravano quanti riconoscimenti fossero giunti negli ultimissimi anni a donne: Oscar miglior regia nel 2021 a Chloe Zhao e nel 2022 a Jane Campion, Oscar miglior sceneggiatura non originale nel 2022 a Sian Heder, Leone d’Oro a Audrey Diwan nel 2021, Palma d’Oro nel 2021 a Julia Ducournau e nel 2023 a Justine Triet, quest’ultima vincitrice nel 2024 anche dell’Oscar sceneggiatura originale etc.

In altre parole, una sacrosanta battaglia come il femminismo è stata piegata da tanti creators a misero mezzo per ottenere beceri tornaconti mediatici, maggiore visibilità, maggiori interazioni, quindi più soldi. Questo si rivela, spesso, il web social-centrico di oggi. Da frontiera tutta da esplorare, si è trasformato nel tabellone di un Risiko composto da walled garden (Google, Meta, Apple, Amazon con l’aggiunta della mina vagante Tik Tok) in cui dominano tendenze, sensazionalismo e banalizzazione del pensiero. Tutto ciò spesso travalica i social ed infetta il mondo del giornalismo (che certo non è mai stato puro ed incontaminato): un pensiero a Lilli Gruber che ha di recente pubblicato un saggio sul mondo della pornografia in cui è totalmente assente la bibliografia.

Tali problemi affliggevano spesso anche le community di un tempo (si pensi ai cosiddetti “poser”, finti appassionati interessati esclusivamente ad ostentare cultura per vincere discussioni virtuali), ma la differenza sta nel fatto che quegli spazi, oltre a non avere la stessa forza “virale” dei social attuali, fossero animati da appassionati che non desideravano altro che leggere ed essere letti. In assenza di forti motivazioni di carattere economico, il fine principale dell’utente medio era quello di valorizzare una passione o un interesse che altrimenti sarebbero rimasti solitari. Non è un caso che i forum abbiano permesso la nascita di tante amicizie – amicizie vere, trasposte anche nella vita reale. Anche questo sito lo può testimoniare, peraltro in tutte le fasce d’età. Ma quanto di questa esperienza sopravvive nel web monetizzato di oggi?

Lì dove c’è sana passione ed autentico desiderio di conoscenza e confronto, invece, il luogo comune secondo il quale la grande arte sia ormai confinata nel passato muore e, improvvisamente, ci si rende conto che viene prodotto ancora Grande Cinema e che anche la musica è più viva che mai. Solo che tutta quest'arte viva, vegeta, pulsante non ci viene più raccontata come un tempo. Non perché esistano presunti “poteri forti” che vogliano tenerci all’oscuro (anzi, sarebbero i primi a godere di un più florido e profittevole panorama culturale: anche l’arte è industria) ma perché il perimetro di azione dei media tradizionali è cambiato, il nuovo contesto ha bisogno di un ritorno alle origini e sta a noi rispolverare il giusto spirito. Perché limitarsi ad essere asetticamente gli uni followers degli altri quando il web offre l’opportunità di intessere amicizie che, oltre a valorizzare una passione comune, possono diventare arricchimento per la vita a 360°, come questo glorioso sito ha permesso di fare a tanti di noi in tante fasce d’età?

Se è vero che Internet è stato un luogo dove potevi essere te stesso. Gradualmente è diventato il posto dove tutti siamo come tutti gli altri (Patricia Lockwood, saggista e poetessa, The Communal Mind, 21 febbraio 2019), allora è giusto rispondere citando Tom Cruise in Top Gun: Maverick, un grande film contemporaneo:

Maybe so, sir. But not today.

Forse è così, signore. Ma non oggi.

 

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