I DIMENTICATI
Nicholas ray l'ultimo romantico
C’è un regista che ho inseguito per più di trent’anni della mia vita e, quando mi concedevo delle pause in questa ricerca, era invariabilmente lui a cercarmi. Cercarmi? Beh, capitemi, non veniva materialmente alla mia porta, ma bussava, a volte discretamente, a volte con una certa insistenza. Non c’era bisogno di aprire la porta. Sapevo che era lui, Nick, con una benda nera sull’occhio, come Raoul Walsh.
Ho cominciato a cercarlo che ero molto giovane, poco più di un ragazzino e da allora non ho più smesso di cercarlo. Cercarlo? Sì, perché volevo capire chi era, alla fine quest’uomo, che a metà degli anni ’80, si era imposto come uno dei maggiori registi e che poi, gradualmente era andato lentamente in declino, fino a scomparire negli anni ’70, per poi riapparire da attore in un film di Wim Wenders, innamorato come tutti noi di questo artista di cui non accettavamo il declino.
L’ho cercato, ma non l’ho mai veramente trovato. Mi sorprendeva con un certo tipo di film, poi quando pensavo di avere capito chi fosse, mi sconcertava con un film molto diverso, e così anno dopo anno. Ma chi era insomma? Chi è, alla fine, Nicholas Ray?
Se vi trovate a Parigi, cercate la sede dei “Cahiers du Cinéma”: purtroppo, Jean-Louis Comolli, Serge Daney Bertrand Tavernier, Jacques Rivette, Jean-Luc Godard, François Truffaut, tra i più entusiastici ammiratori di Ray, non ci sono più, ma hanno lasciato un autentico atto d’amore nei loro scritti e, credo, che chi è venuto dopo di loro, ha mantenuto questa predilezione. Faccio riferimento a loro perché è grazie a quei giovani (d’allora) critici che noi europei abbiamo cominciato ad accorgerci di Ray. I critici della Nouvelle Vague, oltre a rinnovare un tipo di cinema divenuto, a loro avviso, “le cinéma de papa” e cioè un cinema ormai scontato, prevedibile, imprigionato in schemi e generi obbligati, hanno segnato una svolta; alle parole seguirono i fatti e la Nouvelle Vague divenne un modo rivoluzionario di fare cinema. Il fatto che essi considerassero Ray un maestro, smosse un po' anche i nostri critici, sempre molto cauti nel valutare il cinema americano, per tutta una serie di ragioni (in primis la dominante analisi marxista e, in secundis, l’eredità crociano-gentiliana, così legata agli schemi tradizionali della critica). Ci vorranno anni perché critici indipendenti come Adriano Aprà schiudessero gli orizzonti e guardassero, con mente libera, ai nuovi fenomeni d’Oltreoceano e Oltremanica).
Eppure, se ci limitiamo al suo primo periodo, e cioè quello che inizia con LA DONNA DEL BANDITO (They Live by Night, 1947) e finisce (mio avviso) con NEVE ROSSA (On Dangerous Ground,1950) sembrò che si trattasse di film più o meno di genere, con certa presenza dello stile noir, pur se, ma lo si dice ora, a posteriori, è chiaro, qualcosa di originale cominciava ad apparire.
LO STILE
E’ possibile individuare alcuni elementi che caratterizzano l’opera di Nick. Il primo è lo stile. In quasi ognuno dei suoi film si può, con certo agio, notare che il suo è uno stile personale che dà un rilievo particolare, è come un’impronta propria che permette di identificarlo. C’è una cura certosina dell’inquadratura, un bisogno, un dovere formale che sostenga l’impalcatura su cui si regge la trama. Certe inquadrature parlano da sole e trasmettono ciò che sta succedendo. Ma non è solo l’inquadratura a creare uno stile, è evidente. In Ray è lo sguardo verso coloro che non si conformano con la società in cui vivono. Sono i cosiddetti “ribelli”, gli emarginati, coloro cioè che, per ragioni diverse, si situano fuori dalle regole. Sono perlopiù giovani fragili, vissuti chi in quartieri o periferie disagiate, chi in famiglie incapaci di affrontare le nuove esigenze dei figli, chi, rimasto senza genitori, finisce per imboccare strade senza ritorno. E’ uno sguardo, quello di Ray, pieno di comprensione per i suoi “anti-eroi” e di livore per una società incapace di capire ed aiutare e buona solo a punire.
Vale la pena ricordare che il momento storico in cui Ray si muove è contrassegnato dall’orgia maccartista che spezza le vite artistiche (e non solo) di molte tra le migliori eccellenze cinematografiche (anni ’40 e ’50). Quella follia crea nel Paese un clima da Guerra Fredda, di sospetto e di isteria collettiva che finisce per condizionare anche le opere dei cineasti.
Un esempio per tutti è JOHNNY GUITAR (1954). Il romanzo da cui il film è tratto non aiutò per nulla la riuscita. Lo sceneggiatore, Philip Yordan, ricorda che nessuno lesse il libro di Chanslor prima che la Republic (casa di produzione) ne comprasse i diritti. Al produttore (Herbert Yates) interessava solo che ci fosse Joan Crawford e che fosse contenta durante la lavorazione. Vale la pena ricordare che Yordan, più che una vera vittima, trasse dei benefici dalla Black List in quanto fece da prestanome a diversi sceneggiatori. Yordan era noto a Hollywood per il talento nell’aggiustare (in inglese “doctoring”), più che scrivere, le sceneggiature. Ma, malgrado certe malignità, l’autore fu lui (pur se Ben Maddow (sulla Lista Nera) giurò e spergiurò di esserne il vero autore). Comunque sia, per i critici, il film era una chiara denuncia dell’isteria maccartista e Mercedes McCambridge, la protagonista “cattiva” rappresentava tutto l’odio (l’invidia) dei conservatori verso i “liberal”, colpevoli di inquinare la sana società americana con il veleno comunista. Ne uscì un film stranissimo, con soluzioni visive straordinarie e con temi assolutamente nuovi per un western, come ad esempio la presenza delle due protagoniste (McCambridge e Crawford) e la strana storia d’amore fra ex-amanti (Sterling Hayden e Joan Crawford) La critica lo stroncò, mentre il pubblico affollò le sale, decretando un enorme successo. La cosa più divertente fu che Ward Bond (uno degli attori preferiti da John Ford), alla testa dei più scalmanati maccartisti ad Hollywood e uno dei più facinorosi nel film, non capì per nulla che il suo ruolo era chiaramente negativo.
Non posso fare a meno di prendere come esempio, in quest’ambito, uno dei capolavori di Ray e cioé: “I BASSIFONDI DI SAN FRANCISCO)(1949)(Knock on any door). Il protagonista è Nick Romano, un giovane di origine italiana. Suo padre viene arrestato per un alterco di cui non è responsabile e condannato. Ha un attacco di cuore e muore. La madre non può mandare avanti il negozio e le tocca trasferirsi in uno dei quartieri più degradati di San Francisco. Nick fa amicizia con giovani delinquenti, compie qualche furto e finisce in riformatorio. Una volta uscito, un amico di famiglia, l’avvocato Norton lo aiuta a trovare un lavoro. Purtroppo, dopo un litigio col capo, viene licenziato. Ritrova i vecchi compari e, durante una rapina, spara a un poliziotto uccidendolo. Viene difeso da Morton, ma inutilmente. Finirà sulla sedia elettrica. Il film insiste sulla personalità, sull’indole generosa ma ingenua, sulla “estraneità” e nel contempo alla sua reazione oltre misura, segno questo di timidezza ma anche di bontà naturale. Connaturato allo stile, non è possibile trascurare, in Ray, l’aspetto lirico, se intendiamo questo termine come partecipazione affettiva nei riguardi dei personaggi raffigurati. Il lirismo è quasi sempre indice di purezza d’intenti e personale e di un’intensità emotiva che spesso inducono ad una identificazione fra artista e soggetto descritto. Il film di Ray tocca punte di lirismo straordinarie, riprese poi in ALL’OMBRA DEL PATIBOLO. E’ quasi tangibile l’identificazione del regista in questo giovane “difficile”, così lontano dagli stereotipi del delinquente.
L’ESTRANEITA’
Uno dei capisaldi dell’intera parabola artistica di Ray si concentra nella sua espressione, più volte pronunciata:”I’m a Stranger Here Myself”.
Questo atteggiamento, evidentemente, si ripercuote sui suoi personaggi (almeno su quelli raffigurati nelle sue opere più personali).
C’è però da fare una distinzione fra “ribelle” e “loser”. Il ribelle è colui che volontariamente non accetta le regole e le convenzioni imposte dalla società in cui vive. Il “loser” (perdente) è invece chi non riesce, per motivi quasi sempre indipendenti dalla sua volontà, ad inserirsi nella società, la quale, a sua volta, lo respinge.
I “ribelli” di Ray sono quindi ferocemente combattuti, mentre i perdenti sono tollerati e spesso confinati negli scantinati della società. Ci sono decine di esempi che aiutano a comprendere meglio questo aspetto.
Prendiamo ad esempio “REBEL WITHOUT A CAUSE”(1955) (Gioventù bruciata). Jim Stark (James Dean) ad un certo punto del film dice:” Tutto quello che voglio è un giorno senza confusione, un giorno chiaro”. In effetti, vive una situazione famigliare per lui insopportabile (i rapporti fra i suoi genitori sono quanto di più piatto ci possa essere. Vorrebbe con loro un rapporto maturo e non paternalistico nel senso più convenzionale). Prima delle scene di violenza, Jim tradisce sempre il senso di inutilità di quanto sta per succedere; ad esempio, prima della “Chicken Run” (la corsa in macchina potenzialmente mortale) ad un certo punto, prima di salire in macchina si rivolge al giovane contro cui dovrà battersi:” Perché lo facciamo?”.
Più volte, Ray dichiarò di essere contrario alla violenza, “La violenza ha per me sempre avuto un aspetto negativo” (Filmcritica n.109, maggio 1961, cfr. articolo di Adriano Aprà “Gli autori del “secondo tempo” del cinema USA).
La violenza, si sa, “E’ americana quanto una torta di mele” ebbe a dire lo scrittore Edward Abbey. Si potrebbe dire che la violenza è talmente connaturata in una società ultra-competitiva e spietata, quale quella USA, da renderla quasi un fenomeno naturale, pur se a malapena tollerato. E’ quindi quasi normale che coloro che non riescono ad inserirsi con successo nei gangli produttivi finiscano per entrare nella folta schiera dei “losers”.
Alcuni tra i migliori registi americani, riguardo a questo tema, hanno diretto opere di forte impatto e di sicuro valore artistico, come ad esempio Arthur Penn, John Huston e Robert Aldrich. Ma, rispetto a Ray, più che lirismo, si dovrebbe parlare di denuncia sociale. Il “Loser” è in effetti una conseguenza della deriva ultraliberista e conservatrice pronta ad esaltare gli aspetti più spietati della società di consumi a tutto svantaggio di coloro che, per “loro colpa” o per incapacità, rimangono sempre ai margini e vengono visti con sospetto e spesso con disprezzo.
La violenza, in questi autori, tende ad essere espressione della “violenza” delle istituzioni stesse e, in modo particolare, della polizia. Dall’altro, ma non sempre, è un esercizio che riflette il talento espressivo dell’artista, e cioè l’artista trova anche nella rappresentazione della violenza un mezzo espressivo personale. Nel caso di Aldrich, ad esempio, la critica lo ha giudicato severamente per raffigurare le scene di violenza come se ci provasse gusto, un gusto malato. Aldrich però, almeno a mio avviso, non ha girato scene di violenza per il gusto di farlo, ma per dimostrare quanto può essere crudele la repressione.
L’estraneità di Ray riguardo al mondo in cui vive, quindi, è un elemento che caratterizza i protagonisti dei suoi film. Il ribelle non si riconosce in esso. Ecco perché in Rebel , come lo stesso regista ha detto :”[il film] ha rappresentato, come potete aver dedotto da qualche capitolo del mio libro, un’esperienza molto personale”(Cahiers du Cinéma, Eric Rohmer “Ajax ou le Cid” e Jean Domarchi “La loi di coeur”, n.68), si indovina abbastanza facilmente quanto Ray sia vicino al suo (e ai suoi personaggi).
Pensiamo ad alcuni di essi, come Nick Romano, lo stesso Jim Stark e il suo giovane amico Plato, a Bowie (Farley Granger) in LA DONNA DEL BANDITO, a Davey Bishop (ancora John Derek) in ALL’OMBRA DEL PATIBOLO(1955) (Run for Cover), allo stesso Cristo (Jeffrey Hunter) In IL RE DEI RE (1961)(King of Kings). Mai però Ray si è tanto appassionato al suo personaggio come In REBEL.
RAY, I “GENERI” E I “NO” DEGLI STUDIOS
Il terzo elemento da prendere in considerazione è la sua sostanziale idiosincrasia nei confronti dei generi.
La politica degli Studios era di puntare su argomenti e generi di successo. I registi (e sceneggiatori) avrebbero dovuto allinearsi sugli schemi tradizionali senza divagazioni eccessive. La presenza di “stelle” avrebbe assicurato, secondo loro, il successo al botteghino. Ora, questo discorso si poteva fare se i registi erano accomodanti pur se di talento, ma la cosa diventava più difficile se il regista aveva una personalità spiccata e se già godeva di certo prestigio. Si potrebbero scrivere interi volumi sulle liti furibonde tra registi e produttori. E’ stato scritto che la vicenda di Ray, a differenza della maggior parte dei registi di fama, inizia con film abbastanza di impianto tradizionale e finisce per diventare una sorta di ricerca e sperimentalismo che lo situano ai margini di Hollywood.
Di certo c’è che i primi film sono, in parte, diciamolo subito, abbastanza fedeli ai cliché soliti dei generi. Ben presto però, è chiaro che Ray diventa sempre più scomodo e refrattario ad ogni sorta di diktat imposto dai produttori. Dopo alcune divergenze importanti avvenute in LA DONNA VENDUTA (1955) (Hot Blood) e DIETRO LO SPECCHIO (1956) (Bigger than Life), uno scontro frontale avvenne con LA VERA STORIA DI JESS IL BANDITO (1956)(The True Story of Jesse James). Nick voleva, assieme allo sceneggiatore Walter Newman, dare un indirizzo psicanalitico al film, sorpresi dallo strano carattere autodistruttivo di Jesse. Inoltre, cosa abbastanza rivoluzionaria, voleva introdurre dei flasback in avanti ed indietro senza dare nessuna spiegazione in merito. Quando Buddy Adler, il capo dello Studio (la 20th Century Fox) vide la copia al montaggio non esitò a dire di non capirci nulla. Nick dovette ristabilire l’ordine cronologico; ne uscì una storia come tante altre e così il film fu una totale delusione. (Focus on film, n.II, autunno 1972, intervista di Rui Nogueira a Walter Newman). Gavin Lambert, uno degli sceneggiatori, ricorda che Nick aveva l’intenzione di stabilire un parallelo tra il giovane bandito uscito dalla Guerra di Secessione e il delinquente giovanile di oggi. Ricordo che trovai elementi a sostegno di quest’impostazione, ma alla fine non se ne fece nulla. Lo Studio fu irremovibile. (“Tournons la page”, Cahiers du Cinéma,n.89, novembre 1958.
Il film successivo VITTORIA AMARA (1957) (Bitter Victory) fu un’altra delusione, anche se minore. René Hardy l’autore del romanzo francese “Amère victoire” rifiutò che venissero fatte modifiche rispetto al romanzo e inoltre, per questioni contrattuali, venne scelto un attore tedesco (Curd Jurgens) per interpretare un ufficiale inglese. Ne uscì un’opera frammentaria e confusa che, secondo le intenzioni, poteva essere tutt’altra cosa. Anche il film seguente IL PARADISO DEI BARBARI (1958) (Wind across the Everglades) è una mezza delusione, in sostanza.
Diciamo subito una cosa: una cosa sono le trovate, le idee, l’impostazione che Ray vuole dare ai suoi film; un’altra lo sono i risultati. Si potrebbe dire che c’è il cinema di Ray e quello che sarebbe stato il cinema di Ray. Ciononostante, pur se tra imperfezioni, errori e delusioni, è chiaro che Ray ha in mente un cinema che è tutto meno che tradizionale. Per lui i generi non sono che puri punti di partenza su cui si può costruire tutto e il contrario di tutto. La rabbia repressa contro le regole ferree di Hollywood riesce comunque, tra mille difficoltà e limiti, a offrire un prodotto degno e in certi casi (pur obbedendo) ottimo come in IL DOMINATORE DI CHICAGO (1958) (Party Girl). Anche nei film più apertamente tradizionali, si nota un’impostazione personale che si allontana dai soliti cliché. In IL DIRITTO DI UCCIDERE, la figura di Steele è affascinante. Come può un brillante scrittore, colto e affascinante, trasformarsi in un uomo malato capace perfino di uccidere? Oppure, il rapporto tra avvocato ed accusato, così intenso, è qualcosa di nuovo che va oltre le normali relazioni fra queste due categorie. Ci sono due dinamiche che spingono l’avvocato Morton a difendere Romano: la prima è la comune origine. Entrambi provengono da situazioni di disagio. La seconda è il senso di colpa (“Mea culpa” dirà Morton in una sorta di anglo-latino-italiano alla madre di Romano) che tormenta l’avvocato, tormentato dall’idea di non aver fatto abbastanza per lui e di aver permesso, in certo modo, che il giovane si infilasse in un tunnel senza uscita.
Ciò ricorda un po' il rapporto tra Matt Dow (James Cagney) e Davey Bishop (John Derek) in ALL’OMBRA DEL PATIBOLO (1955)(Run for Cover). E’ un western sui generis che molto ha a che vedere con la psicologia e molto meno col genere. Lo stesso Cagney ammette che quel che di buono aveva il film, nel senso di distacco dal genere western, fu cancellato in sede di montaggio, riducendolo così a un altro film di routine (cfr. “CAGNEY ON CAGNEY. AN AUTOBIOGRAPHY)”,Knopf Doubleday (marzo 2005). Eppure, proprio il rapporto fra Dow e Davey, nonostante i tagli, salva il film dall’essere, nelle parole di Cagney, un film insulso e di routine. Il loro rapporto sembra suggerire una sorta di somiglianza tra l’atteggiamento dello stesso regista verso i giovani in difficoltà. Dopo un primo momento di condanna, in Dow prevale un sentimento quasi paterno. Nonostante il tradimento di Davey, verso la fine del film, la fiducia accordatagli da Dow si dimostrerà ben riposta, visto che il giovane si farà uccidere nel tentativo di fargli scudo col proprio corpo. Di solito, nei western l’amicizia fra uomini viene chiamata “virile”, perché il rapporto si muove su un piano di parità, a volte di simbiosi. Pensiamo a certi film di Anthony Mann come TERRA LONTANA, LA’ DOVE SCENDE IL FIUME, di Sam Peckinpah (SFIDA NELL’ALTA SIERRA), o di HOWARD HAWKS (UN DOLLARO D’ONORE). Il mondo di Nick Ray, invece, è uno strano connubio in cui l’adulto poco a poco subisce una trasformazione. Da persona irosa, incapace di aprirsi, vedere gli altri in modo meno manicheo, diventa poco a poco sempre più comprensivo, umano e generoso. D’altro lato, la sfiducia esistenziale, il senso di fallimento, la fragilità di Davey, a contatto con Dow, acquista maggiore consapevolezza delle proprie capacità e maggiore fiducia. Si stabilisce alla fine anche qui un rapporto quasi di simbiosi.
Lo stesso RE DEI RE,(1961)(King of Kings) a prima vista così lontano dalle tematiche di Ray, ha qualcosa di buono, come ad esempio la scena del discorso delle beatitudini e, pur entro certi limiti, ripropone il tema dell’innocente, del “ribelle”, osteggiato dalla società. La predicazione di Cristo è senza ombra di dubbio “rivoluzionaria” e rompe tutti gli schemi: mette in crisi la casta sacerdotale, attacca a fondo l’impalcatura tradizionale giudaica, costringe i Romani alla viltà, incapaci di far prevalere la legge e timorosi di scatenare rivolte. Ma, a detta di Ray,:”[…] di fronte a King of Kings sento una frustrazione molto profonda, perché il film ha sofferto per molte cose, molte cose…; penso che il problema di King of Kings sia un problema anche moderno e se avessi avuto carta bianca, […]se non avessimo avuto tante difficoltà, credo che King of Kings sarebbe stato un film molto più intenso Non sono contento del modo in ci si è risolto.(Film Ideal n.120, 1963).
Torniamo sempre allo stesso punto. Cosa sarebbe stato del cinema di Ray senza le limitazioni, i tagli e i veti di cui è stato fatto oggetto? Domanda inutile che vale per una folta schiera di grandi registi. Pur facendo nostri i rimpianti di Ray, non possiamo non apprezzare il lavoro che ci è giunto, nonostante tutto.
Non abbiamo toccato ad esempio il tema del colore: le ricerche sul colore sono un aspetto straordinariamente importante in alcuni dei suoi film come JOHNNY GUITAR, DIETRO LO SPECCHIO, GIOVENTU’ BRUCIATA. Servirebbe un altro articolo per parlarne. C’è una ricerca, uno studio a volte maniacale dell’effetto psicologico che si vuole trasmettere al pubblico. Riguardo a Johnny Guitar, pensiamo alle acrobazie fatte per ovviare alle deficienze del procedimento con cui si doveva girare (Trucolor), all’uso del rosso e dei costumi bianchi e neri. Certe dissolvenze si dovettero fare direttamente con la macchina da presa: un ritorno all’antico. Oppure l’uso del grigio e marrone in DIETRO LO SPECCHIO, come colori della normalità della vita del protagonista James Mason nella cui vita irrompono colori più vivi indossati da persone che mettono a dura prova il suo equilibrio.
Suggerirei, per chi desiderasse approfondire l’opera del regista, alcune monografie come:
1) NICHOLAS RAY, François Truchaud, serie Classiques du Cinéma, ed. Universitaires, 1965.
2) NICHOLAS RAY, Jean Wagner, Ed. Rivages/CINEMA,1987
3) IL CINEMA DI NICHOLAS RAY, a cura di Marco Giusti, Incontri cinematografici Salsomaggiore Terme; Parma. E’ un agile volumetto corredato di recensioni e schede critiche tratti dall’ampia disponibilità di articoli e riviste soprattutto francesi. Non ha data.
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