Questa non è una newsletter normale. È un laboratorio a cielo aperto, un gioco, una scommessa, probabilmente persa. Infatti vi voglio parlare di The Curse - una serie che ha messo a durissima prova la mia resistenza sotto molti profili - in cui inizi a chiederti dove andrà a parare dopo il primo episodio e la risposta non arriva mai, neanche dopo l’ultimo. Eppure non puoi neanche lontanamente pensare di mollarla. Una serie in cui non c’è un solo personaggio che si possa non dico amare ma neanche sopportare, eppure vuoi, anzi devi, vedere la fine dell’abisso sul cui ciglio scivoli insieme a loro. Una serie costellata da lentezze sfibranti che mi hanno piombare in uno stato di ipnosi, mai abbastanza lucido per prendere la decisione di spegnere la tv. È lei che domina, è lei che spegne te.
Con tutte queste premesse qualcuno si chiederà per quale motivo un prodotto del genere debba trovare spazio qui dentro, perché io sia qui a parlarne. Forse la risposta sta già nel titolo della serie stessa: sono anche io vittima di una maledizione, di un incantesimo, di uno scherzo.
La serie si svolge a Española, una cittadina nelle vicinanze di Santa Fe, capitale del Nuovo Messico, a un’oretta di strada da Albuquerque, già location di due serie molto amate dal pubblico seriale come Breaking Bad e Better Call Saul. E in effetti l’atmosfera è quella, solo un po’ più rarefatta. Grandi spazi, centri commerciali, urbanizzazioni. E un mix di abitanti in cui ancora resiste un 5% di Tewa, nativi americani a cui gli spagnoli, per primi ma non ultimi, hanno sottratto le terre e che ora sono relegati ad un'esistenza marginale in un contesto sociale degradato.
Asher e Whitney Sieger, i due protagonisti di The Curse, invece, sono bianchi, molto bianchi. Sono i tipici esemplari di bianchi contemporanei: interessati, sulla carta, all'ambiente e, sempre sulla carta, convinti che per governare il processo di gentrificazione dell'area non ci sia nulla di meglio che mettere in atto, e in mostra attraverso uno scalcagnato reality show, una specie di progetto immobiliare che prevede la costruzione di case passive (ad impatto zero), cercando di integrarle in un tessuto urbano "ricondizionato" che restituisca alla zona la, presunta, atmosfera originale in cui la modernità e le tradizioni degli (e)spiantati nativi americani possano pacificamente convivere facendo evolvere un quartiere conflittuale, segnato dalla criminalità e dal degrado, in un paradiso in cui regna l'armonia. Un'atmosfera "originale" e un'armonia che non hanno alcuna possibilità di esistere, ovviamente, visto che sono solo proiezioni dei due ego smisurati dei protagonisti. O una semplice storia che i due si raccontano con la quale giustificare un normalissimo istinto capitalistico: arricchirsi un po' vendendo case.
Sotto il perenne, vigile e pervasivo occhio delle telecamere - sia quelle del reality che quelle della serie che stiamo guardando - l'intollerabile coppia non fa altro che cercare di nascondere e, quindi, mettere bellamente in mostra, la propria disfunzionalità e le ipocrisie del nostro tempo, tutte insieme. In un gioco di specchi e matrioske meta-televisive non c'è un singolo personaggio che si salvi in The Curse, perché nessuno si può salvare dalla lente deformante di un mondo asservito al concetto di "performance".
Sono perfomance quelle dell'artista nativa americana, sono performance quelle della "Green Queen" Whitney - davanti e dietro le telecamere - e sono performance (mancate) quelle del coprotagonista Asher, che, pur di piacere, finisce per trasformarsi in uno Zelig e per somatizzare le pressioni subite, finendo nella stratosfera in un episodio finale che è una delle sequenze più lisergiche che ho visto da molti anni a questa parte.
The Curse è un prodotto forte, sicuro di sé come possono esserlo i ciechi e i folli, che, come dicevo all'inizio tra il serio e il faceto (ma non stavo scherzando) è riuscito a trascinarmi in una zona franca e pericolosa, sottraendomi al principio di realtà e impedendomi di fatto di abbandonarlo, a dispetto di tutte le volte in cui mi sono addormentato: una volta almeno per ogni episodio, secondo me in alcuni episodi anche due. O forse no. Chi può esserne certo dopo The Curse?
Di una cosa però, posso essere certo. Uno dei motivi principali per cui non sono riuscito mai a considerare di mollarla con un gesto di stizza è rappresentato dalla colonna sonora composta ad hoc da John Medeski (il tastierista del trio Medeski, Martin e Wood) e Lopatin, due musicisti assolutamente straordinari. Una vera opera d'arte strutturata in 52 tracce che introducono, accompagnano, sottolineano i fatti. Anzi di più: li creano, li accendono, nella mente dello spettatore, prima che accadano sullo schermo.
John Medeski insieme al suo trio (MMW) ha deliziato molte volte dal vivo il pubblico con una versione di Hey Joe di Jimi Hendrix che mi fa venire la pelle d'oca ogni volta che sento l'attacco. Qui trovate il video di una di queste "perfomance" (già...) in cui il trio suona con il chitarrista Marc Ribot ad Orvieto la notte di Capodanno del 2001. Se non vi ho convinto a vedere The Curse, se non avete Paramount+, se non siete interessati a mettere alla prova il vostro libero arbitrio, se non siete interessati a vedere Emma Stone nell'ennesima eccellente prova attoriale, vi invito a NON resistere al richiamo di Hey Joe rifatta, reinventata, da Medeski, Martin, Wood e Ribot. Dopodiché, secondo me, vi guardate anche The Curse. E mi maledirete.
Per le maledizioni accomodatevi qui sotto.
Quella nella foto sopra è Emma Stone, che sia maledetta pure lei per quanto è brava (e odiosa) in The Curse.
Un paio di link utili
- The Curse: cosa succede, chi c'è, chi produce.
E tutte le cose importanti che qui non ho detto. Incluso che produce (e recita) Benny Safdie, regista, insieme al fratello Josh, di quel gioiello che è Diamanti Grezzi.
- The Curse: una serie ostica, critica, provocatoria, situazionista
Un’opera allucinata, straniante, che deforma le logiche del capitalismo attuale e fa satira di tutta la trita retorica che costruisce il mondo. Dice Sangiorgio.
- Da recuperare: Diamanti grezzi
Un tour de force che consacra il talento dei Fratelli Safdie, che al loro terzo film riescono addirittura a superare in bellezza il bellissimo Good Time e a portare a casa uno dei film più interessanti del 2019. Su Netflix
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