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Chi tra voi legge il settimanale Film Tv lo sa, non è un giornale sul quale si usa con disinvoltura la parola capolavoro. Sull'ultimo numero in edicola, dedicato all'uscita di La zona d'interesse, il nuovo film di Jonathan Glazer (a dieci anni di distanza da Under The Skin, 2013), la parola incriminata (perché abusata) non è sottilmente ventilata tra le righe di un articolo ma è ben visibile proprio in copertina.

Incisa in maiuscolo all'interno dell'ampio campo nero che sovrasta il gruppo di famiglia del generale nazista Rudolf Franz Ferdinand Höß (varianti: Höss, Hoeß, Hoess), protagonista del film uscito ieri in sala, riunito (e di bianco vestito) nel verdissimo giardino della casa di campagna costruita alle spalle, ad una siepe di distanza, dal campo di concentramento di Auschwitz, di cui il generale è stato primo comandante, nonché vero e proprio creatore.

Un'immagine potentissima che chiarisce subito le premesse della storia mettendo in evidenza il contrasto (che sovrasta l'intero film di Glazer) tra il lussureggiante giardino che circonda la casa e il brutale, funereo, disumano contesto in cui la casa è inserita. Una specie di raggelante, inconcepibile, bolla in cui la vita della famiglia scivola come se il fuori non esistesse. Un rimosso di dimensioni epiche, opera di una schizofrenia che tracima gli argini della storia in sé e costringe a ripensare in altri termini alla capacità dell'uomo di negare l'evidenza e di restringere il proprio campo di visione pur di restare in un illusorio equilibrio.

Io non sono in grado di dire se La zona di interesse, tratto dall'omonimo romanzo di Martin Amis, scrittore britannico scomparso nel 2023, sia o meno un capolavoro. Non sono in grado perché letteralmente non ho il profilo, né la cultura specifica, per pronunciarmi in termini così definitivi, ma anche perché la parola è inflazionata a tal punto che forse neanche mi piace più usarla. Però capisco che il film di Glazer ha qualità straordinarie, varie, peculiari, ma quella che mi colpisce è soprattutto una.

Racconta una storia che fa parte dell'immaginario collettivo, scegliendo di inquadrare con la camera (anzi con LE camere) una sola porzione della narrazione, quella meno raccontata, ossia la vita, le dinamiche, l'intimità della famiglia di un comandante nazista. Appoggiandosi, per costruire il contesto (il fuori, l'orrore, le vittime), quasi esclusivamente su quello che lo spettatore sa, ma aiutandosi (e aiutandoci) a non perdere l'orientamento, con inserti sonori e con uno score musicale che sembra venire da un'altra dimensione e sposta il film sul registro dell'horror e di certa fantascienza concettuale.

Una miscela esplosiva con la quale offre sia una prospettiva inedita sul mero oggetto del racconto sia uno sguardo vertiginoso sull'intera evoluzione umana - dalla scimmia che brandisce la prima arma, alle fonti a cui attingono le Intelligenze Artificiali passando per i "mi piace" dei social - illuminando a giorno le dinamiche che l'uomo è capace di mettere in atto pur di sopravvivere, alla propria memoria, alla propria coscienza.

Che prenda le forme delle regole con cui una tribù si difende dalle minacce esterne, quelle delle spietate guerre guidate da logiche capitalistiche o quelle degli algoritmi che governano le bolle dei nostri like e la nostra reale capacità di informarci, La zona di interesse parla anche dell'Uomo che siamo diventati, della mente che tace, del corpo che assorbe, dell'inconscio che spunta e che, alla fine, in un angolo, deve sputare il groviglio di sangue coagulato.

Con tutte queste premesse è molto difficile che un film così possa davvero piacere, anche semplicemente perché non è il piacere che persegue.

La zona d'interesse è un film che ti mette alla prova nei primi cinque minuti, appena finiscono i titoli di testa, con un nero che dura un'eternità e una modulazione sonora con cui l'autore vuole farci entrare in una specifica dimensione orrorifica.

È un film nel quale sei costretto a ricordarti costantemente quello che sai, a dispetto di quello che vedi, che ti spinge a chiederti quello che sei, in cui gli unici momenti di calore umano sono restituiti grazie all'uso incisivo di una camera termica (qui la recensione di Giulio Sangiorgio).

La zona d'interesse parte come un giallo di Hitchcock, diventa un film di fantascienza di Kubrick e finisce come un documentario di Frederick Wiseman in trasferta al Museo statale di Auschwitz-Birkenau.

Non so se è un capolavoro ma potrebbe essere un film che tutti coloro che amano il cinema dovrebbero vedere. E siccome la casa di distribuzione ha lanciato il cuore al di là dell'ostacolo e lo ha reso disponibile in più di 300 copie, mi sento di consigliarlo qui, perché è Cinema all'ennesima potenza a prescindere dal fatto che possa piacere o meno.

D'altronde se la parola capolavoro è abusata, il concetto di piacere è sopravvalutato.

p.s. Ho selezionato alcune recensioni e le ho inserite nella newsletter, se non la ricevete potete vederla qui.

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