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L’ultima (stavolta veramente) linfa vitale del mio lungo percorso nel vasto mondo delle serie tv, che è strettamente collegata alla penultima emersa dai “germi” della pandemia di coronavirus all’insegna dell’unità e della condivisione, arrivò sempre dai miei amici Elia e Federico, ma poco prima dell’imminente disastro che avrebbe procurato il covid nel 2020, anche se poi si evolvette pienamente durante i vari lockdown deliranti.
Facendo due passi indietro, quindi, mentre a fine 2017 abbandonai definitivamente il gaming, i miei due amici, invece, cominciarono a sviluppare un’insolita passione per gli anime dopo la visione di vari video su Youtube. In quel periodo l’animazione la consideravo poco, e la vedevo soprattutto come un prodotto generalmente indirizzato ad un pubblico di bambini/ragazzini salvo rare eccezioni, tant’è che fu il motivo per cui agli inizi della mia neonata cinefilia decisi di recuperare quasi solo cinema live action nel biennio 2018-2019. Sull’animazione giapponese, inoltre, in quel periodo non ne avevo una buonissima opinione, perché nonostante conservassi un bel ricordo di anime “infantili” trasmessi su Rai Gulp come D’artagnan e i moschettieri del re, Deltora Quest, La stella della Senna e alcuni film di Miyazaki, al tempo stesso approfondendo la storia, la geopolitica e la cultura del Giappone, dell’industria anime vidi il suo lato più “sessualizzante”, “pervertito”, “disagiante” e “alienante” all’inverosimile. Il fenomeno degli otaku e della feticizzazione delle waifu mi portò col tempo a formare un profondo pregiudizio su un’animazione magari anche graziosa a vedersi, ma dal character design stereotipizzante al massimo sui corpi e sui volti di ambo i sessi, e tutto ciò entrò in profondo contrasto con l’animazione italiana ed americana con cui ero cresciuto. L’eterna maledizione e chiusura pregiudiziale verso i canali privati quali Italia Uno e MTV continuò così a perseguitarmi ancora dopo un decennio, di conseguenza, pure le serie anime “discutibili” che mi consigliarono Elia e Federico mi tennero lontano da quel mondo, che però intanto stavo imparando a conoscere meglio. Essendo comunque una persona animata da una grande curiosità che mi rende tutt’oggi un cinefilo onnivoro, cominciai a mettere in discussione la mia repulsione verso gli anime cominciando ad esplorare i film al posto delle serie televisive. Nei lungometraggi animati giapponesi, infatti, trovai una forma di compromesso con quell’estetica respingente in primis con Your Name, e poi a partire da Summer Wars di Mamoru Hosoda, un film che fu trasmesso su Rai Gulp ai tempi della mia infanzia e che rividi con grande commozione. Da quel nostalgico punto di incontro con “l’era televisiva”, da buon cinefilo cominciai a recuperarmi tutti i film della filmografia di Hosoda, in modo da poter vedere in sala per la prima volta un anime, ovvero Mirai, il penultimo lungometraggio del regista, nell’ormai lontano ottobre 2018. Da quell’esperienza al cinema con tanto di opuscolo sul film con dentro un’intervista al regista, imparai che gli anime non erano soltanto quella facciata malsana che mi fecero vedere quelle mie ricerche storico-culturali sul Giappone, o meglio, erano (e sono) anche quella faccia della medaglia, ma c’era anche quell’altra faccia che avevo totalmente ignorato, come quei tre lungometraggi di Miyazaki messi in onda su Rai Gulp (Ponyo, Il castello errante di Howl, Il mio vicino Totoro) che all’epoca mi fecero davvero commuovere. Da quella visione di Mirai in sala, imparai quindi a distinguere innanzitutto gli anime cinematografici da quelli televisivi, ma soprattutto cominciai a farmi un’idea di chi fossero Miyazaki, Hosoda e Shinkai, ma senza scavare troppo approfonditamente. Difatti, in quegli anni mi impegnai soltanto a completare la filmografia shinkaiana e a cercare film anime simili dalla forte carica emozionale come La forma della voce e Voglio mangiare il tuo pancreas, dato che per il cinema più “impegnato” mi interessò di più recuperare quello live action. Figurarsi, perciò, recuperarsi serie animate giapponesi.
Verso la fine del 2019, più precisamente ad ottobre, reduci il sottoscritto, Federico ed Elia dalla visione in sala del film anime “parzialmente” deludente Weathering with you di Shinkai, fu la volta buona in cui accettai di vedere una serie anime da loro consigliata e molto amata. Documentandomi in rete ed osservando la sua estetica, oltre che a scorgere delle somiglianze produttive con Twin Peaks, mi sembrò qualcosa di estremamente particolare e diverso dagli anime che guardavano solitamente, inoltre dato che sia in rete, sia da loro venne descritto come un capolavoro, accettai ben volentieri di guardare la mia prima serie anime “adulta”. Neon Genesis Evangelion mi sconvolse completamente e mi aprì ad un mondo che non potei neanche immaginare a quei tempi, in cui per la prima volta vidi un’animazione sondare terreni mai visti prima, fino a toccare le corde del mio esistenzialismo tormentato come solo il cinema poteva fare allora. Non a caso, la summa della serie la si raggiunge col suo film conclusivo, ovvero The End of Evangelion diretto dal genio Hideaki Anno, che mi turbò a tal punto da dover ricercare qualsiasi “spiegazione” e “delucidazione” sia da Elia e Federico, sia in rete. All’epoca fui parecchio fortunato, perché proprio in quel periodo la serie fu inserita nel catalogo di Netflix, così da ricevere una nuova popolarità presso il grande pubblico e, di conseguenza, una caterva di “video analisi” e recensioni. La serie partorita dalla mente depressa e perversa di Anno, mi portò prepotentemente fuori dalla mia zona di comfort e a riflettere sui massimi sistemi come non mi accadeva dai tempi di Twin Peaks, segnando così ufficialmente il mio ingresso nella serialità anime. Quest’ultima non è nient’altro che una grande branca del mondo delle serie tv, capace nel suo minutaggio più asciugato (23 minuti a puntata) e nelle illimitate potenzialità dell’animazione giapponese, di creare storie altamente immersive sia da un punto di vista drammaturgico, sia da un punto visivo, che mi fece completamente rivalutare l’animazione come “tecnica narrativa” e a non bollarla più come un “genere solo per bambini”. La riscoperta a 360 gradi dell’animazione ripartì proprio da NGE, che di lì a poco mi spinse a recuperare i classici dell’animazione giapponese (e a farli conoscere anche ai miei compari più “televisivi”), fino a ritornare con nostalgia a riscoprire quelli della Pixar, della Dreamworks e della Disney.
Ritornando sul fronte della serialità televisiva animata giapponese, con lo scoppio della pandemia (come anche nel post-pandemia) non fu quindi un problema tuffarmi con Elia e Federico nel recupero di svariati anime. Appassionanti furono le visioni condivise di serie come Erased (miniserie molto carina sui viaggi nel tempo), Paranoia Agent (l’enigmatica serie di Satoshi Kon da rivedere assolutamente), Vinland Saga (abbandonata dopo una prima stagione con pochi alti e tanti bassi), Devilman: Crybaby (buona rivisitazione di Yuasa con tanti “picchi” anche se un po’ frettolosa) e, infine, la colossale Attack on Titan. Quest’ultima fu il massimo godimento per tutti e tre, perché come non mai entrammo in una narrazione episodica così lunga e al tempo stesso così emozionante e coinvolgente per via dei suoi numerosi misteri, della sua profondissima disamina sulla natura umana, della sua geniale allegoria sociopolitica del nostro mondo e, infine, delle sue scene iper dinamiche d’azione dal sapore fieramente epico e drammatico. Tutt’ora non conclusa da tutti e tre dato che vogliamo attendere il doppiaggio delle ultime 3 puntate da poco uscite, indubbiamente Attack on Titan è schizzata tra le prime posizioni delle nostre serie tv preferite di sempre, dimostrando al sottoscritto quanto un pregiudizio su un genere o su un certo tipo di opera audiovisiva possa nuocere tantissimo alla scoperta di vere e proprie perle come quella citata poc’anzi.
La (ri)scoperta dell’animazione giapponese a tutto tondo fu, quindi, fondamentale per riformulare il mio pensiero critico su tutto il mondo delle serie televisive, come fu fondamentale scoprire il cinema per comprendere meglio i punti di forza e i punti di debolezza delle serie tv, che ora più che mai guardano al cinema per imporsi come nuova mitopoiesi presso il grande pubblico sempre più disaffezionato dalla Settima Arte. Il confronto in rete su filmtv.it con utenti esperti ed appassionati di animazione giapponese a tutto tondo come Genga009 (Isaia) e Stanley42 (Lorenzo), inoltre, mi fece comprendere di quanto l’autorialità fosse massicciamente presente nelle serie tv animate giapponesi e interdipendente con il cinema animato stesso, in cui il confine fu spesso labile, tant’è che spesso le due arti spesso si mischiarono sinergicamente rendendosi quasi indistinguibili l’una dall’altra. Ne è un esempio lampante Cowboy Bebop che, sotto consiglio di Elia e dei miei due amici di filmtv, mi stregò così tanto da un punto di vista prettamente registico (basti vedere quel capolavoro di Ballad of Fallen Angels [1×05]), che portò sempre di più la mia attenzione ad analizzare il linguaggio cinematografico presente all’interno delle serie tv sia animate, sia live action.
Cinema e Televisione sono dunque le due facce della stessa medaglia, due costanti nella mia vita che mi hanno permesso di conoscere e approfondire quel famoso “storytelling” declinato in forma audiovisiva. Soddisfando così una mia fuga dalla realtà che, inizialmente, da piccolo e da adolescente era soltanto un modo per sfuggire dalla noia della quotidianità. Ovvero quel quieto vivere noioso e robotico che rendeva tutto più grigio, tanto da spingere la mia giovane mente ad inventare storie, mondi e narrazioni alternativi per soddisfare i miei più intimi desideri di escapismo e curiosità. La mia sete di curiosità e di intrattenimento, per fortuna, col tempo è diventata anche una sana e vorace sete di conoscenza che alimenta una grandissima passione ormai inseparabile dal mio modus vivendi, ossia lo studio e la ricerca approfondita della quintessenza dell’arte del racconto in qualsiasi declinazione essa si presenti: cinema, serie tv, animazione, letteratura e via discorrendo. E involontariamente tutto ciò partì proprio da quel Rai Educational che mia madre mi impose di vedere in quella scatola quadrata quale fu la mia vecchia televisione, dove al suo interno albergarono quelle figure in movimento che mi portarono successivamente ad indagare l’origine di tutto ciò che vedevo, ossia le storie che amavo veder raccontate sul piccolo schermo. Squarciando il velo di Maya, grazie anche all’aiuto dei vari “Morpheus” che incontrai lungo la mia strada e che tuttora fanno parte della mia vita, ho imparato non solo a conoscere profondamente la bellezza di queste due arti, ma anche a usarle come strumento introspettivo per migliorare la mia esistenza, la mia vita, le mie relazioni sociali e, infine, a riflettere sotto un’altra lente interpretativa il mondo che mi circonda. Nella loro alterazione della realtà come l’uso del semplice montaggio, il cinema e le serie tv non sono però altro che un prodotto dell’umanità che riflette sulla realtà stessa e, in questo eterno paradosso, ci ho trovato il mio senso della vita, o almeno in parte. Ma è proprio quella “parte” che tutt’oggi anima e plasma gran parte del mio esistenzialismo e dunque il mio modus vivendi, perciò, cinema e serie tv hanno drasticamente cambiato la mia vita e anche leggermente quella dei miei amici, come quella uscita di gruppo per vedere in sala The End of Evangelion dopo aver fruito tutti in separata sede NGE. Forse, però, sarà proprio quella “banale” uscita al cinema per vedere il finale di una serie tv che resterà nelle loro memorie rispetto ai mille esami, alle centinaia di lezioni all’università, alle inquantificabili ore di lavoro e agli innumerevoli altri impegni che li attendono e li attenderanno per il resto della loro (nostra) vita. E cosa c’è di più poetico e toccante di poter rimembrare un attimo questi magici ricordi anche “formativi” e non solo “affettivi”, rispetto ai trilioni di terabyte di altrettanti ricordi caduti invece nel vorticoso vuoto della nostra vasta memoria, che selettivamente elimina la monotonia della nostra esistenza?
Ecco, dunque, cosa resta di questo mio quarto di secolo di serie tv. Una vita vissuta. Una vita che ha vissuto tante altre vite. Una sana, catartica e terapeutica condivisione di emozioni, pensieri e riflessioni con amici passati e presenti. Magiche serate in famiglia. Un nostalgico calderone di ricordi ed esperienze che hanno segnato la mia esistenza. Una riflessione su un medium che, pur nelle sue ataviche lacune, merita di essere esplorato e analizzato ancora. Quattro edizioni home video. Un’odissea che racchiude tante altre odissee. La sublimazione di una grande amicizia. Un trampolino di lancio per la scoperta della Settima Arte. E che scoperta travolgente. Così travolgente che merita un articolo e una logorrea a parte.
Bene, ora è veramente giunta l’ora di chiudere il cerchio come ogni buona serie tv dovrebbe fare. Ora quindi tocca a voi raccontarmi qualcosa. Qual è il vostro rapporto con le serie tv? Quali sono le vostre esperienze con il medium? Quali sono i vostri più cari ricordi legati alle serie tv? E se non ve n’è mai fregato niente delle serie tv, perché?
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