“È necessario, direi umano, accettare il fallimento del nostro controllo”
Letto da qualche parte, si tratta di decidere da che parte stare.
Noi stiamo dalla parte di Lisbeth, la protagonista del film.Un vecchio film, i film invecchiano presto, si sa, ma qualcuno lascia il segno e continuiamo a pensarci.
Era il 2009 e il titolo fece scalpore.
Oggi, a quasi quindici anni di distanza, quel titolo è diventato un luogo comune, non nel senso di una spicciola ars rethorica, ma in quello brutale, orrido, disarmonico, di una cronaca quasi quotidiana: un femminicidio ogni tre giorni.
C’è rabbia nella nostra metà del cielo, molta più rabbia di quella delle femministe post sessantottine, cinquanta anni di lotte non sono serviti a niente, cento anni e più dalle suffragette d’inizio secolo per cui il diritto di voto era la massima aspirazione.
Oggi si tratta di diritto alla vita, scusate se è poco.
E allora torniamo a Lisbeth, la protagonista del primo film della trilogia.Gli altri due film sono meno incisivi, per i nostri scopi basta questo.
Quali scopi? Arrivare al finale per saperlo.
(Prima che mi dimentichi, ma come potrei? lo dedico a Giulia).
Niente fiaccolate, il dolore non si racconta, la sua famiglia lo vivrà fino alla morte.
Ma la rabbia no, con quella bisogna lottare.
Trilogia letteraria dello svedese Stieg Larsson, che ha venduto dieci milioni di copie, Niels Arden Oplev ne trasse il film che mise il dito sulla piaga.
Il racconto si dipana avvincente, qualche soluzione un po' prevedibile qua e là, con indizi che portano troppo inevitabilmente dalla parte giusta, non è tale da far scadere l'impianto d'insieme, sostenuto da una regia pulita, capace di cogliere impercettibili spostamenti di pensiero e umori, in particolare nella protagonista, Lisbeth Salander (Noomi Rapace), ragazza punk, hacker super accessoriata e dotata di un'incredibile memoria fotografica.
Alle sue spalle una storia famigliare degradata, un delitto necessario, una vita sotto tutela dei servizi sociali, un tutore che la stupra.
Pochissime parole, gesti essenziali e assolutamente nessun compiacimento, lei va dritta per la sua strada e riesce perfino simpatica col suo brusco rispondere o guardare fisso chi le fa domande stupide.
La sua strada incrocia via web le vicende di un giornalista d'assalto, Mikael Blomkvist (Michael Nyqvist), vittima anche lui, ma stavolta della corruzione del sistema che lo ha incastrato a tradimento, condannandolo a tre mesi.
In attesa dell'esecuzione della condanna, sta seguendo la pista di un delitto rimasto impunito da quarant'anni, un cold case che avrà esiti inaspettati.
Formeranno una coppia tanto vincente quanto stravagante, con frequenti colpi scena che danno buone spinte al motore senza mai però accelerare troppo generando stanchezza.
La durata si regge bene, due ore e mezzo accompagnati da una fotografia sempre ben contrastata e definita, che fa emergere forme, dettagli e difetti degli attori e che spalanca scenari svedesi di piacevole suggestione.
Lungi dall'essere un capolavoro, resta comunque un giallo che si può vedere senza avere grandi pretese, e soprattutto lasciando correre sul tema socio/politico, abbastanza posticcio e privo di mordente.
Gran parte del film si regge sulla bravura della protagonista, mentre risulta piuttosto ingessato il personaggio maschile.
Alla fine della visione, quello che più resta della molteplicità dei piani narrativi è il tema della violenza sulla donna e della vendetta geniale che lei escogita (da suggerire come deterrente contro stupratori troppo sicuri di sè): un bel tatuaggio al posto giusto.
www.paoladigiuseppe.it
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