(Prosegue da qui)
A tall white fountain
Abbiamo già accennato di come il romanzo di Nabokov, attraverso la poesia di Shade, tratti in modo enigmatico e affascinante il tema del ricorso al simulacro quale reazione al trauma della perdita; c’è però un unico momento all’interno di Pale Fire in cui compare un’immagine svincolata dalla realtà e dunque non direttamente prodotta da essa. Nel Canto Terzo del poema, Shade racconta l’elaborazione del lutto della figlia e il suo immediato avvicinamento ad associazioni laiche che discutono sul dilemma della vita dopo la morte, da cui esce però profondamente deluso e senza risposte. Qualche tempo dopo, a seguito di una conferenza, il poeta è colpito da un infarto e sviene davanti al pubblico, mentre il suo cuore si ferma per pochi secondi; nel brevissimo lasso d’incoscienza Shade sperimenta una visione sorprendente:
I can’t tell you how
I knew – but I did know that I had crossed
the border. Everything I love was lost,
but no aorta could report regret.
A sun of rubber was convulsed, and set;
and blood-black nothingness began to spin
a system of cells interlinked within
cells interlinked within cells interlinked
within one stem. And dreadfully distinct
against the dark, a tall white fountain played.
Non so dire come
lo capii – ma di certo seppi che il confine
era stato varcato. Le cose amate erano perdute,
ma nessuna aorta poteva riferire il mio rimpianto.
Un sole di gomma fu squassato, e tramontò;
e un nulla nero-sangue si mise a far girare
un sistema di cellule intrecciate con
cellule intrecciate con cellule intrecciate
dentro un unico stelo. E spaventosamente nitida
sullo sfondo di tenebra, una candida fonte zampillò.
Una volta ripresosi, il professore descrive l’immagine apparsa («it was made / not of our atoms») e percepisce che «the sense behind / the scene was not our sense». Shade si convince che la fonte non è una finzione illusoria come quelle che popolano l’arte e la poesia create dagli uomini, ma una realtà superiore che lo riporta al piacere di vivere. Per questo motivo la traduzione italiana sceglie di rendere «played» con «zampillò», modalità di fuoriuscita dell’acqua che evoca un movimento vivace e giocoso. La visione convince il poeta, vissuto fino a quel momento senza alcun tipo di fede, dell’esistenza di una dimensione oltre la realtà materiale visibile a tutti. (NdR: la resa di un’opera quale Pale Fire – e in generale di tutti i romanzi di Nabokov – non è impresa semplice per gli esperti, da qui le differenze a volte anche vistose tra originale e adattamento. Nella traduzione italiana per Adelphi da me utilizzata, a opera di Franca Pece e Anna Raffetto, è facile notare le libertà linguistiche adoperate per cercare di restituire la complessità del testo anche nel nostro idioma, a costo di tradire il significato di alcuni termini).
Non è un caso che proprio questi versi siano stati scelti da K come personale frase di riferimento per il test: nel film l’appiglio a cui il replicante si aggrappa per mettere in dubbio la natura della sua identità è il ricordo di un cavallino di legno con cui giocava da bambino. L’ambiguità dell’immagine/ricordo – esperienza vissuta o impianto artificiale? – tiene accesa la speranza di K, che trova una pericolosa conferma quando rintraccia il cavallino nascosto esattamente nel punto indicato dalla memoria: così il replicante si convince di essere un umano.
Alla stessa maniera Shade, sfogliando un giorno una rivista, legge per caso un articolo in cui si dice che una donna ha visto la stessa «tall white fountain» in un’analoga esperienza di premorte. Il poeta entusiasta parte subito alla ricerca della testimone e del giornalista autore del pezzo; come nel caso del cavallino di K, anche per Shade la certezza dell’esistenza della fonte al di fuori della sua visione è la conferma definitiva della presenza di una realtà superiore a quella ordinaria. Tuttavia, il professore scopre con grande sorpresa che l’articolo conteneva un tragico refuso: la donna aveva visto l’immagine di un monte (mountain), non di una fonte (fountain). La scoperta dell’errore turba inizialmente Shade, perché vede svanire l’unica possibilità di stabilire un collegamento con la figlia deceduta.
Analogamente, quando K capisce che il ricordo è solo il frutto di un impianto nella sua mente della memoria di qualcun altro, perde la motivazione che lo aveva spinto contro il sistema tecnocratico di Wallace. Eppure, così come la fonte bianca si staglia distintamente nell’oscurità e illumina con la sua luce quanto la circonda, anche K decide di continuare il cammino della ribellione e aiuta Deckard, a costo della vita: K ha capito di non essere umano, ma la scoperta del cavallino gli ha comunque permesso di dare un senso nobile alla sua esistenza. Per questo motivo, credo, nella stesura iniziale la scena della lenta morte di K prevedeva il ritorno dei versi di Pale Fire. In maniera simile, Shade rielabora la delusione derivata dalla scoperta e raggiunge una consapevolezza ancora più alta, sfruttando la sua sensibilità di poeta:
Life Everlasting based on a misprint!
I mused as I drove homeward: take the hint,
and stop investigating my abyss?
But all at once it dawned on me that this
was the real point, the contrapuntual theme;
just this: not text, but texture; not the dream
but a topsy-turvical coincidence,
not flimsy nonsense, but a web of sense.
Yes! It sufficed that I in life could find
some kind of link-and-bobolink, some kind
of correlated pattern in the game,
plexed artistry, and something of the same
pleasure in it as they who played it found.
La Vita Eterna basata su un refuso!
Rimuginavo guidando verso casa: capire
l’antifona, smetterla d’indagare sull’abisso?
Ma d’un tratto intuii che era questo
l’essenziale, il tema in contrappunto;
solo questo: non il testo, ma la tessitura;
non il sogno, ma la coincidenza capovolta,
non il vano nonsenso, ma una rete di senso.
Sì! Mi bastava poter trovare nella vita
un qualche nesso o pseudonesso, una sorta
di correlato disegno dentro al gioco,
un plesso di artistica maestria, e qualcosa del piacere
già provato da coloro che vi avevano giocato.
Alla base della ritrovata serenità non c’è più l’immagine evocata dalle parole ma il linguaggio stesso, «not text, but texture» che crea collegamenti di senso, accostando tra loro termini simili nella forma ma non necessariamente connessi nel contenuto («link-and-bobolink») in un meccanismo ludico che rimanda al giocoso zampillio della fonte. La ricerca vana dell’eternità si trasfigura nell’immortalità delle parole, che hanno il potere di connettere piani di esistenza distanti o addirittura inesistenti, che però parlano la stessa lingua. Seppur deboli, queste correlazioni danno al poeta una rinnovata serenità e lo rimandano a uno dei ricordi più teneri dell’adorata figlia Hazel, raccontato nel Canto Secondo:
[…] She twisted words: pot, top,
spider, redips. And «powder» was «red wop».
She called you didactic katydid.
[…]
Sometimes I’d help her with a Latin text,
or she’d be reading in her bedroom, next
to my fluorenscent lair, and you would be
in your own study, twice removed from me,
and I would hear both voices now and then:
«Mother, what’s grimpen?». «What is what?». «Grim Pen».
Pause, and your guarded scholium. Then again:
«Mother, what’s chtonic?». That, too, you’d explain,
appending: «Would you like a tangerine?».
«No. Yes. And what does sempiternal mean?».
You’d hesitate. And lustly I’d roar
the answer from my desk through the closed door.
[…] Pronunciava invertite
le parole: il, lì, arco per ocra. «Eruppe» per «eppure».
E ti chiamava catididat didattica.
[…]
L’aiutavo talvolta con un testo latino,
o lei leggeva in camera da letto, vicino
alla mia tana fluorescente, mentre tu, dentro
il tuo studio, mi eri non una, ma due volte lontana,
e io di tanto in tanto vi udivo da lì:
«Mamma, cos’è grimpen?». «Che?». «Grim Pen, sì».
Pausa, poi guardingo, il tuo commento. «Dì,
mamma cos’è ctonio?». Questo pure si chiarì,
e soggiungevi: «Ti andrebbe un mandarino?».
«No. Sì. E che vuol dire sempiterno?».
Esitavi. E allora con vigore urlavo la risposta
dalla mia scrivania, dietro la porta chiusa.
Anche in questo caso, come si può vedere dal confronto, la traduzione fatica a star dietro alla penna di Nabokov e cerca di restituire il significato del testo, pagando lo scotto di alterare dei passaggi. Il senso generale è comunque chiaro: avida lettrice, Hazel spesso storpiava le parole – alla stessa maniera di quanto avviene in BR49 per i nomi di Luv e Joi – rimescolando le lettere o specchiandole, suscitando l’affettuosa ilarità del padre. Durante i pomeriggi, la casa di Shade era spesso ravvivata dalla voce di Hazel impegnata nella lettura, che di tanto in tanto chiedeva alla madre di spiegarle termini sconosciuti. La scena, così intima e familiare, mostra come le parole riescano a unire i membri della famiglia attraverso lo spazio, poiché fisicamente posti in diverse stanze della casa: ecco la «rete di senso», la forza del linguaggio – e dunque della poesia – svincolato da qualsiasi ricerca di significato oltre la superfice, che riesce a vincere anche lo scorrere del tempo, proiettando il ricordo di Shade dal passato al presente e permettendogli così di ricongiungersi alla figlia morta tramite la memoria della parola:
It does not matter what it was she read
(some phony modern poem that was said
in English Lit to be a document
engazhay and compelling – what this meant
nobody cared); the point is that the three
chambers, then bound by you and me,
now form a tryptich or three-act play
in which portrayed events forever stay.
Non contano i testi che leggeva
(qualche fasulla poesia moderna definita,
al corso di Letteratura, un documento
«engagé e avvincente» - a nessuno importava
quale senso ciò avesse); il fatto è che quelle tre
stanze, allora collegate con te, lei e me,
formano ora un trittico o un dramma in tre atti
in cui per sempre vivono gli eventi lì ritratti.
La sofisticata riflessione esposta da Nabokov diventa così anche uno dei tanti riferimenti meta-letterari che evidenziano la natura in parte ludica di Pale Fire, sottolineando una volta in più l’errore commesso da Kinbote nel voler prendere troppo sul serio quella che è una fantasia poetica, beffarda caricatura della nutrita schiera di lettori che spesso non riescono a distinguere la realtà dalla finzione letteraria e cercano in essa un tipo di coinvolgimento viscerale ai limiti del patologico.
La rete di senso non è solo quella che lega le persone tra di loro attraverso le parole, ma va considerata anche come ragnatela di allusioni che unisce libri e autori di epoche differenti nei modi più disparati. La cultura vive di nessi, richiami e rimandi (in una parola, di riflessi): Nabokov ci ricorda quanto la stessa letteratura sia specchio di altra letteratura su cui poggia, in un caleidoscopio infinito di suggestioni, come se ogni libro esistente fosse un prisma colorato le cui facce non restituiscono mai l’immagine esatta della figura che vi si specchia, bensì dei riflessi simili in tutto e per tutto all’originale ma con differenze sostanziali introdotte dall’autore al momento della rielaborazione delle proprie ispirazioni. Uno dei miei esempi preferiti si trova nel terzo capitolo di Lolita: Annabel Leigh, il primo amore adolescenziale di Humbert Humbert, altro non è che una citazione alla Annabel Lee di Edgar Allan Poe, sfortunata protagonista di una tragica poesia tra le più famose dello scrittore di Boston, che differisce dalla ragazza del personaggio nabokoviano solo per una variazione ortografica del cognome, mantenendo però inalterata la pronuncia e sollecitando dunque la mente del lettore di lingua anglosassone, che riconosce all’istante il richiamo.
Anche in BR49 la rete di rimandi e citazioni è articolata: il nome K potrebbe rifarsi a personaggi quali Josef K. di Der Prozeß (Il processo, 1925) e K di Das Schloß (Il castello, 1926), opere di Franz Kafka, uno dei massimi interpreti dell’alienazione e dell’angoscia esistenziale come condizione mentale connaturata all’uomo contemporaneo. Alla stessa maniera dei personaggi di Kafka, anche K vive uno smarrimento interiore che lo sprona alla ricerca di Deckard.
E proprio la letteratura funge da punto di contatto attraverso cui i due personaggi riescono a intavolare un primo dialogo, sia pur stentato. K si aggira nel casinò abbandonato, quando una voce alle sue spalle dice: «"You mightn’t happen to have a piece of cheese about you now, boy?"», «Treasure Island?» risponde K cogliendo al volo la citazione da Stevenson, che soddisfa Deckard al punto da farlo uscire dall’ombra: «He reads. That’s good. Me too. Not much else to do around here at night anymore. “Many’s the night I’ve dreamed of cheese… toasted mostly”». La frase di Deckard non ha un valore direttamente connesso al contesto in cui viene pronunciata, è anzi separata da questo e tuttavia riesce a collegarlo con K, esattamente come quando Shade ricorda le parole della figlia adolescente per potersi ricongiungere a lei nel ricordo.
Alla maniera di Pale Fire, anche BR49 amplia la sua portata di riferimenti all’ambito meta-letterario e meta-cinematografico: il film di Villeneuve si ispira a un libro e omaggia un film che è a sua volta tratto da un romanzo. Durante il colloquio tra Luv e K nell’archivio della piramide vengono mostrate immagini dell’interrogatorio di Rick Deckard a Rachel, in una sequenza che diventa una sorta di commento ipertestuale alla scena originale e sul finale, quando Niander Wallace si confronta con il personaggio di Harrison Ford, in scena c’è il simulacro di Rachel nell’esatta versione del film del 1982 per una ragione primariamente citazionista oltreché tematica. BR49 si comporta quindi con Blade Runner quasi come Kinbote con Shade, aggiungendo postille e glosse all’originale fino a “riesumarne” i protagonisti. Questo perché, come il poema di Shade e il libro di Nabokov, anche il film di Scott attraverso una narrazione in parte criptica ha mantenuto nel corso degli anni un fascino inalterato, che spinge tutt’oggi critici e studiosi a fornire sempre nuove analisi sui più piccoli dettagli dell’opera.
A puzzle of fractured hope
Un ultimo importante riferimento a Pale Fire si trova nel diario dello sceneggiatore Michael Green, tenuto durante le riprese del film a Budapest:
There is a running reference in the script to Nabokov’s Pale Fire that has survived every draft and I hope the editing room. In it, we are given a puzzle of fractured hope. The author of the meta-text is either the prince of a country called Zembla or a madman, or both. I always root for both.
Nella sceneggiatura c’è un richiamo costante a Fuoco Pallido di Nabokov, che è sopravvissuto a ogni stesura e spero anche alla sala di montaggio. In esso ci viene proposto un rompicapo di speranza infranta. L’autore del meta-testo è o il principe di un paese chiamato Zembla o un pazzo, oppure entrambi. Io tifo sempre per entrambi.
La definizione suggestiva di «puzzle of fractured hope» per il romanzo può essere associata anche a BR49: l’intera storia si basa su una successione di fragili speranze coltivate dai protagonisti in un mondo avviato verso l’estinzione dell’umano. Quest’ultimo, confinato in uno spazio dimenticato dalla società – la Las Vegas semisommersa dalla sabbia, simbolo esplicito dell’impietosa azione erosiva del tempo, popolata da fantasmi del passato (Elvis Presley, Frank Sinatra) –, è stato progressivamente rimpiazzato da proiezioni (replicanti, ologrammi, IA) che però falliscono nel catturarne l’essenza, legata alla capacità di provare emozioni e possedere ricordi autentici, ma soprattutto alla capacità di generare vita. Mentre per Shade la forza dell’arte letteraria risiede nella possibilità di produrre nessi capaci di mettere in contatto dimensioni lontane nel tempo e nello spazio, in BR49 è il concreto atto della nascita a differenziare radicalmente gli umani dai replicanti, che giudicano la procreazione come un trauma personale (nel caso di K) una minaccia per l’ordine costituito (nell’esempio di Wallace) o la concreta occasione di vendetta (nell’obiettivo di Freysa). Per questo motivo i personaggi principali del film sono tutte donne in varianti fisiche e sintetiche.
Similmente a Pale Fire, il film di Villeneuve si occupa di creazione intesa nel senso di creatività: pur brulicando di presenze evanescenti, BR49 cerca continuamente la concretezza e la tangibilità; si sprecano le inquadrature di mani e corpi ripresi nel tentativo di un contatto fisico, così come la scelta di un materiale grezzo e primitivo quale è il legno per il cavallino intagliato da Deckard testimonia un particolare interesse rivolto all’artigianalità e al passato analogico, richiamato ovviamente anche dall’ossessione per la memoria. La dottoressa Ana Stelline, frutto dell’amore di Rachel e Deckard, usa un dispositivo somigliante all’obiettivo di una macchina fotografica per costruire ricordi dove inserisce personali frammenti di memoria («Well, there’s a bit of every artist in their work») mentre Niander Wallace crea copie perfette di corpi umani pur essendo cieco, beffarda parodia della sensibilità del creativo che ha rimpiazzato la vista naturale con l’occhio della tecnologia, utilizzata per leggere nella mente altrui ed esercitare un controllo totale sulla società.
Lo sguardo del vero artista, quindi, sembra essere quello capace di riflettere la propria esperienza umana nello specchio dell’arte, rendendola così autentica materia poetica (in greco ποιεω indica sia l’attività pratica di produzione artigianale sia quella astratta di creazione intellettuale), alla maniera di Shade quando pone il dramma della morte della figlia come centro del poema e al contrario di Kinbote che invece vive in una dimensione improduttiva perché costruita sulla base di ricordi inventati e autoconvinzioni perfettamente curate dal punto di vista stilistico (le lussureggianti descrizioni di Zembla, le sofisticate digressioni che accompagnano il racconto dell’esilio), cui però manca sempre il pezzo decisivo, il tassello che possa permettere all’artificio di diventare arte. I ricordi di Stelline sono perfetti anzitutto perché generano una risposta emotiva autentica nei replicanti («It’s better than nice. It feels authentic. If you have authentic memories, you’ll have real human responses, wouldn’t you agree?») mentre i corpi di Wallace mimano in tutto e per tutto quelli reali ma sono sterili, sia letteralmente sia metaforicamente, come un correlativo oggettivo senza legami con l'esperienza sensibile.
A un certo punto del racconto, mentre descrive un’ala del castello di Zembla, Kinbote si sofferma sui dipinti di un celebre artista appesi alle pareti; l’osservazione è così ben inserita nel flusso narrativo da passare quasi in secondo piano, quando invece rappresenta una fondamentale chiave di lettura dell’intero Pale Fire:
Incapace di restituire anche un minimo di somiglianza, e limitandosi quindi, saggiamente, a uno stile convenzionale di ritrattistica adulatoria, Eystein dimostrò di essere un maestro prodigioso del trompe l’oeil nel riprodurre i vari oggetti che circondavano i suoi nobili esemplari di defunti, il cui aspetto appariva ancor più defunto per contrasto con il petalo caduto o con il levigato pannello che egli sapeva rendere con tanta appassionata abilità. In alcuni ritratti, tuttavia, Eystein era anche ricorso a una forma bizzarra d’inganno: tra gli elementi decorativi di legno, lana, oro o velluto, ne inseriva uno realmente fatto del materiale imitato altrove nel quadro. Lo stratagemma […] rivelava non soltanto una pecca essenziale nel talento di Eystein, ma anche il fatto fondamentale che la «realtà» non è né soggetto né oggetto della vera arte, la quale crea la propria peculiare realtà che nulla ha a che vedere con la «realtà» ordinaria percepita dall’occhio della gente.
Quando la dottoressa inserisce frammenti di ricordi reali tra quelli artificiali dei replicanti - «puzzle of fractured hope» - rimanda all’azione del pittore Eystein con una differenza fondamentale: laddove Kinbote sostiene con forza la separazione tra realtà dell’arte e realtà del reale, Shade e Stelline riaffermano l’insopprimibile legame che le rende interdipendenti. È il ricordo della figlia Hazel a suscitare in Shade lo stimolo della composizione letteraria ed è il ricordo del cavallino di legno, vero tra i falsi, a dare nuova vita a K, lui stesso “opera d’arte” frutto del lavoro, congiunto nei fatti ma contrapposto negli intenti, di Wallace e Stelline.
Nel momento in cui K comprende questa distinzione tra reale e irreale si trova inevitabilmente davanti a un bivio: uccidere Deckard, come chiesto dalla leader dei ribelli Freysa, compiendo il desiderio del simulacro di sostituire l’originale, oppure salvarlo dalle mani di Wallace. Mentre Kinbote si rifiuta di abbandonare l’illusione che lo vede unico e vero destinatario del poema Pale Fire e arriva a sottrarre il libro dal corpo del morente Shade per appropriarsi concretamente del mondo del poeta, K affronta la falsità dell’essere un replicante, infrange volontariamente la sua speranza di figlio «born not made» per un fine più alto: proteggere l’umanità in un mondo soggiogato dalle immagini («Dying for the right cause is the most human thing we can do»). Dall’acqua, fonte di vita e liquido amniotico, che in Pale Fire aveva tolto la vita a Hazel, emergono Deckard e K, la copia in soccorso dell’originale: «You should’ve let me die», dice Deckard e K risponde «You did. You drowned in the ocean. You’re free. Free to meet your daughter»; ciò che non accade nella finzione letteraria di Nabokov chiude invece la finzione cinematografica di BR49: padre e figlia si incontrano di nuovo.
Pale Fire termina senza un vero finale. Nabokov non ci dice il destino di Kinbote e lascia la strada aperta a diverse possibilità, tra cui quella piuttosto quotata del suicidio: la voce conclusiva dell’indice analitico rimane incompleta. Nell’ultima inquadratura Deckard tocca il vetro che lo separa da Ana Stelline e qui il film si interrompe, lasciando lo spettatore senza la soddisfazione di assistere al completo ricongiungimento. La mediazione di uno schermo e il tocco fisico ricercato dal personaggio riassumono le linee direttrici lungo cui si muove BR49 e ribadiscono il messaggio: poiché l’occhio può essere facilmente ingannato dalle immagini, resta solo il contatto tangibile con la realtà come discrimine tra vero e falso.
Il film di Villeneuve e Fancher/Green propone la sua personale risposta a una questione già attuale, destinata a ricevere sempre maggiore attenzione nel prossimo futuro e lo fa attraverso una riflessione, a partire da spunti – letterari, prima ancora che cinematografici – affatto scontati in un blockbuster, magari non condivisibile per modalità espositiva e contenuti, ma sicuramente meritevole dell’attenzione del grande pubblico.
Per approfondire:
- Vladimir Nabokov, Fuoco Pallido, traduzione di Franca Pece e Anna Raffetto, Milano, Adelphi, 2002.
- Azar Nafisi, Quell'altro mondo. Nabokov e l'enigma dell'esilio, Milano, Adelphi, 2022.
- Brian Boyd, Nabokov's "Pale Fire": The Magic of Artistic Discovery, Princeton, Princeton University Press, 2001.
- Ian Campbell, Metafiction and Pale Fire in Blade Runner 2049 in The complexity of Mainstream/Cult Favourites The Projector, Vol. 19 No. 2, 2019.
- Blade Runner 2049, story by Hampton Fancher, screenplay by Hampton Fancher and Michael Green.
- Tanya Lapointe, The heart and soul of Blade Runner 2049, Los Angeles, Alcon Entertainment LCC, 2017.
- Michael Green, Extremes of Light and Temperature: Notes from the Set of “Blade Runner 2049”, da "Thrillist", 04/01/2018.
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