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Venezia 80 - Venice Immersive (2)
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Il mio secondo viaggio sull’Isola del Lazzaretto Vecchio per la sezione Venice Immersive si affaccia su due esperienze diverse (fra di loro e dalle precedenti due già viste) che mi hanno restituito ancora una volta la possibile varietà della realtà virtuale, facendomi sondare i confini fra le arti in modo articolato, attivo e partecipe. Il linguaggio del VR è la possibilità letterale di toccare la ricerca espressiva con mano, di guardarla da dentro, di diventarne improvvisato autore contingente così da dare corpo a riflessioni e idee altrimenti solo astratte e sovrastrutturali.

La prima esperienza è un corto, Comfortless di Gina Kim dalla Corea del Sud. Un classico video a 360° (come fu, appunto, il The Deserted di Tsai Ming-liang nel 2017), da esperire seduti su una sedia e roteando su se stessi per esplorare il mondo tridimensionale intorno a sé. 15 minuti nella vecchia American Town vicino a Kunsan, dove durante la Guerra di Corea sorgeva una base militare americana. Oggi è un mucchio di tuguri e catapecchie abbandonate, ma una volta American Town ospitava i bordelli dove le comfort women sudcoreane “servivano” i militari americani. Il film evoca quell’epoca adottando la strategia dei film di fantasmi: incroci solitari, stanze abbandonate, camere da letto – con i resti materiali di rapporti sessuali appena consumati – e specchi sporchi in cui il passato si riflette, appare a sorpresa, sporge come da un cunicolo, e i suoni e i rumori dell’epoca con lui. Alcune donne si truccano, alcune ballano, di alcune si intravedono solo i piedi da specchi poggiati per terra, coi tacchi che si dimenano o semplicemente passeggiano attraverso una strada, mentre le voci americane esclamano di volere sempre di più e sempre più aggressivi. Quando il fantasma si incarna nel corpo tangibile di una giovane donna che cammina per strada, e che possiamo finalmente vedere senza l’ausilio di uno specchio, siamo direttamente noi chiamati in causa con uno sguardo in camera profondo e provocatorio. Ravvicinato, impressionante, la sfida è non distogliere lo sguardo di fronte a un efferato crimine di cui non si è parlato abbastanza.

La seconda esperienza è The Utility Room di Lionel Marsden, un’ora dentro un gioco virtuale interattivo in cui viaggiamo tramite grotte, lande sterminate, arredi minimali sospesi nel vuoto, con l’ausilio di due mani che ci permettono di afferrare, saltare prendendo lo slancio, interagire con le cose. Un’avventura grafica fra l’open world e il puzzle game, che instilla nel fruitore un’angoscia esistenziale che il dinamismo ludico non esaurisce nel semplice divertimento. Ci sentiamo letteralmente soli in un deserto, in balia di noi stessi, di buchi neri per terra e di gigantesche pietre che potrebbero investirci. Un gioco, ma per l’appunto prima di tutto un’esperienza fisica che ci immerge nella perdita. Inquietante e metafisico, labirintico e plasmabile sulla base di ansie e aspettative del giocatore.

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