Se pensate di non avere alcun desiderio di entrare in contatto con l’Intelligenza Artificiale comprendo perfettamente. Eppure a molti di noi è già successo e, siatene certi, succederà sempre più spesso. Probabilmente ci avete avuto a che fare sul web dopo aver cliccato consapevolmente su un seducente pulsante che dice Parla con noi. Magari sul sito di RyanAir per chiedere come diavolo si fa ad aggiungere un bagaglio ad una prenotazione o a spostare un volo. Oppure su Amazon per sapere come si richiede una regolare fattura per i nostri acquisti. O sul sito della vostra banca dopo aver avuto la disgraziata idea di chiedere informazioni su come si aggiunge un secondo intestatario al vostro conto corrente. Quasi tutti i servizi di Customer Care sono affidati in prima battuta a chat bot (così si chiamano) che hanno il compito di snellire il volume di richieste di assistenza con risultati molto spesso frustranti e, a volte, vagamente ridicoli. Sulla scala evolutiva dell’Intelligenza Artificiale (d'ora in avanti IA) tutte queste esperienze si posizionano in una specie di brodo primordiale in cui quei bot stanno iniziando il proprio percorso evolutivo. Come se fossero batteri, prime molto poco intelligenti forme che l’IA ha assunto davanti ai nostri occhi.
Il fenomeno ha preso però una sterzata notevole negli ultimi mesi con la diffusione sul grande pubblico di chatbot più sofisticati ai quali potete chiedere qualsiasi cosa (ChatGPT) o anche grazie a divertenti piccoli siti che vi permettono di chattare con Michael Scott e Dwight Schrute di The Office, con i Minion o con Harry Potter. L’evoluzione dell’Intelligenza Artificiale (IA) ha acquistato una velocità impressionante, conquistato le prime pagine dei giornali e la nostra attenzione. Un’attenzione che è ancora un po’ divertita, curiosa, se non vagamente scettica, anche se i dibattiti che infuriano sul tema e gli interessi che ci gravitano intorno sono letteralmente enormi. Sebbene anche io coltivi il pensiero che non si possa stare dietro a tutto, men che meno alle costanti innovazioni tecnologiche, mi son fatto l’idea che sull’IA, invece, non dovremmo abbassare la guardia né la soglia di attenzione. Non solo perché il tema è, per certi versi, appassionante ma anche perché, per l'IA, vale la stessa sintesi con cui Ralph Nader, saggista e politico statunitense, cercò di spronare i giovani attivisti americani: Se non ti occupi di politica, sarà la politica ad occuparsi di te.
A spostare il segno del mio atteggiamento sulla questione, hanno contribuito in maniera decisiva la visione del film The Artifice Girl, un recente intervento del filosofo Yuval Noah Harari e la lettura del romanzo di Ian McEwan Macchine come me. Tre esperienze molto coerenti che cerco di riassumere qui sotto, non prima di aver ringraziato G, fedele lettore di questa newsletter, che mi ha adeguatamente instradato sulle prime due.
Purtroppo, lo dico subito, il film The Artifice Girl non è al momento disponibile da nessuna parte. Mi spiace sempre parlare di opere che non hanno reperibilità a breve e sulle quali bisogna un po' smanettare. Però ne vale la pena.
I titoli di testa scorrono sulla prima sequenza in cui vediamo una donna che entra in una stanza, accende una luce, si siede ad un tavolo e inizia un dialogo con Siri, l'assistente vocale di Apple. Si tratta di Deena un'agente speciale dell'FBI che si occupa, insieme al collega Amos, di presidiare vari ambienti online per prevenire o perseguire casi di sfruttamento di minori. "Ospite" dell'FBI per un primo contatto informativo c'è Gareth, programmatore di ambienti virtuali, zainetto e felpa da geek, che subisce guardingo un vero e proprio interrogatorio stringente da parte dei due agenti. È stato convocato per chiarire i motivi della sua assidua frequentazione di alcune chatroom in cui convergono predatori sessuali alla ricerca di giovani vittime. L'interrogatorio è serratissimo, Gareth cerca di difendere la sua posizione dietro all'anonimato garantito dalla rete ma il vortice di domande lo costringe alla rivelazione. Che non è quella che ci si aspetta. Gareth non è affatto un predatore online ma il creatore di un sofisticatissimo bot che è in grado di interagire sulle chatroom con i veri predatori, prendendo la forma di una ragazzina il cui nome in codice è Cherry. Ed è proprio grazie a Cherry, la sua creazione, che la sezione dell'FBI ha potuto nel tempo mettersi sulle tracce di decine e decine di pedofili. È proprio grazie all'opera tecnologicamente avanzatissima di Gareth che Cherry interagisce con i predatori online in maniera fluida e naturale in tempo reale, mescolando IA e virtualità tridimensionale e dando vita, voce e corpo ad una trappola efficacissima e inattaccabile.
Il primo segmento di The Artifice Girl è dedicato alla metabolizzazione di questa sconvolgente informazione e alla spiegazione dei funzionamenti del sistema agli increduli agenti. E allo spettatore. Che deve interiorizzare in un colpo solo la possibilità che quello che viene descritto non sia solamente un congegno ben architettato di Sci-Fi, ma una possibilità che, in uno stadio evolutivo della IA futuro - che non è sinonimo di lontano - può realmente accadere. Non c'è nulla di impossibile o di fantascientifico, infatti, nello scenario che ci viene proposto. La rete è lo spazio ideale e naturale in cui le IA possono crescere ed evolversi. E lo fanno molto rapidamente, perché a differenza degli esseri umani, le IA non commettono sempre gli stessi errori, anzi imparano davvero da essi. A partire dal linguaggio, il vero e proprio sistema operativo dell'umanità. Una volta che Cherry scardina, domina e si impossessa del linguaggio con cui i predatori comunicano, non c'è sistema complesso che possa resistere. Al massimo, alla fine, sarà ancora un errore umano, magnificamente stigmatizzato da una puntina che salta su un vinile, a limitare lo sviluppo esponenziale di Cherry. Ma l'idea che le IA possano esprimersi meglio della media delle persone con cui interagiscono e scardinare le loro difese qualche pensiero lo provoca.
Tema che mi porta direttamente nel cuore dell'avvincente intervento di Yuval Noah Harari, espresso, con grande chiarezza espositiva ed efficacia, nell'ambito di un recente incontro al Frontiers Forum.
Le questioni che vengono poste dal filosofo israeliano partono esattamente da qui. Dall'hackeraggio compiuto dalle IA al nostro sistema operativo: il linguaggio. E dalle conseguenze che derivano - oggi, qui, ora - dal fatto che nelle nostre interazioni online, ad esempio sui social, potremmo non avere la certezza di avere di fronte un essere umano. Il linguaggio non è solo la chiave di accesso alle nostre emozioni ma è anche lo strumento con il quale si formano, si perfezionano, e, a nostra volta, formuliamo i nostri concetti sulle cose del mondo. È difficile, se non impossibile, per noi, oggi, capire davvero quali siano le potenzialità delle IA, soprattutto perché la velocità con cui si sviluppano, crescono e si evolvono è quasi inconcepibile a fronte della nostra, umanissima, lentezza. Se all'inizio del loro stadio evolutivo le IA sembra(va)no in grado più che altro di scimmiottare malamente il comportamento e il linguaggio umano, il loro sistema di apprendimento, le fonti e i set di dati a cui possono accedere liberamente, inducono invece Harari ad ipotizzare che possano essere presto in grado di creare e di alimentare una vera e propria cultura. E la linea che separa una cultura da una credenza, da una visione politica, morale o religiosa, può essere molto sottile. Non porre un limite o un controllo fin da subito, per tracotanza o per ingordigia, rischia, per Harari, di esserci fatale.
Si chiama Adam, invece, l’androide immaginato da Ian McEwan in Macchine come me. Perfettamente umano nell'estetica, dimostra grande flessibilità nell'apprendimento delle più peculiari caratteristiche dell'uomo, soprattutto sociali, proprio grazie al machine learning, l'apprendimento progressivo. Ma McEwan non aveva alcuna intenzione di alimentare un romanzo basato sulla tecnologia e così - posizionando genialmente la storia in una Inghilterra retrofuturista e ucronica degli anni '80 - crea invece i presupposti per occuparsi di ciò che davvero è nelle sue corde. Ossia la relazione tra umani e androidi mettendo in evidenza la propensione di questi ultimi a formulare e strutturare codici morali inderogabili che, con il procedere della storia, si distanziano sempre più da quelli umani. Perché, ancora, l'uomo costella di errori la propria esistenza e sembra che possa realmente interiorizzarli e metabolizzarli solo commettendone di nuovi. Premessa che crea, con il procedere della storia, una forbice incolmabile tra uomo e androide.
Che sia un disco di vinile che salta, discutibili scelte morali dettate da opportunismo o l'incapacità di porre un freno agli interessi delle grandi Corporation tecnologiche, l'innata propensione dell'uomo all'errore potrebbe rivelarsi un bug che limiterà lo sviluppo o l'acceleratore che ci darà un calcio in culo facendoci atterrare in un'altra era in meno di dieci anni.
Nell'attesa ne ho parlato con Michael Scott, Regional Manager della Dunder Mifflin di Scranton, e gli ho detto che deve essere dura parlare spesso con persone meno intelligenti. Lui mi ha risposto: That's What She Said!
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