Certe volte è veramente difficile scegliere a cosa dedicare le due (tre? sei? mezza?) ore serali destinate alla tv. Naturalmente dipende dalle opzioni che ciascuno di noi ha a disposizione. Chi tra voi, massima stima, ha resistito fino ad oggi ai richiami delle piattaforme streaming in abbonamento e si affida alla altalenante qualità della programmazione del digitale gratuito, forse vive meno intensamente questo dilemma che si fa strada subdolamente dall’esatto momento in cui, con un sospiro pieno di promesse, ci si accomoda sul divano, si impugna il telecomando e si inizia la peregrinazione tra veri e propri scaffali pieni di film.
Se qualcuno tra voi si riconosce in questa sgradevole sensazione vorrei che sapesse prima di tutto che non è solo e, secondariamente, che le radici di questo fastidioso stato d'animo sono così profonde da essere state oggetto di indagine di Aristotele (Grecia, 322 a.C.), prendendo poi la forma del paradosso dell’Asino di Jean Buridan (Francia, 1301), discusso anche da Baruch Spinoza (Olanda, 1632) e Gottfried Leibniz (Germania, 1646) per poi diventare, in epoca più recente e già pienamente consumistica, oggetto di un dettagliato studio dello psicologo Barry Schwartz (USA, 1938) dal titolo The Paradox of Choice: Why More is Less.
Imparare a scegliere è difficile. Scegliere bene è ancora più difficile. Scegliere bene in un mondo di infinite possibilità è, se possibile, ancora più difficile. Forse troppo.
A complicare ulteriormente il processo di selezione nei consumi di tipo culturale (film, musica, libri) sto personalmente sperimentando inoltre anche una duplice, sfibrante, contraddittoria tensione verso il nuovo e verso il vecchio. L'istinto mi porta violentemente verso la novità perché, spesso erroneamente, la identifico con ciò che non conosco. Si tratta di un trasporto irresistibile che si fa sentire come esigenza bruciante in qualsiasi cosa rivesta la sfera del fare. E specifico fare. Perché sul fronte dell'avere, del possedere, invece sono sempre stato incredibilmente conservatore. Basta guardare i miei vestiti. O quella carcassa della mia macchina. Penso di non avere mai comprato una macchina nuova in tutta la mia vita. Sarebbe facile dire che non ho i soldi per permettermela (anche) ma in verità, se guardo a fondo, non si tratta solo di questo. Il fatto è che le macchine nuove, ai miei occhi, non hanno alcun fascino perché non hanno alcuna storia da raccontare e mi sembra che nessuna storia possa nascerci.
Questa tensione vecchio/nuovo si innesta quindi come una spina nel fianco anche quando è il momento di scegliere il film o la serie da vedere, creando un ulteriore bivio che mi fa assomigliare ancora di più all'Asino di Buridan che, assetato e affamato, non essendo capace di compiere una scelta razionale tra cibo e acqua, muore sia di fame che di sete.
A volte questo processo, invece, ha qualcosa di magico. In maniera non prevedibile né riproducibile a comando (purtroppo) c'è un titolo o un autore che inizia ad inviare segnali della propria presenza, che inizia ad attrarre l'attenzione, che dice Ehi sono qui, sono io, guardami, cercami, sono la tua prossima scelta. Ed è quello che è successo questa settimana con Mio zio di Jacques Tati.
Tutto è iniziato leggendo l'articolo in cui Giulio Sangiorgio (lo trovate qui) racconta le scelte dei film con cui Ari Aster ha deciso di accompagnare l’anteprima della sua ultima pellicola, Beau ha paura, al Lincoln Center di New York. Undici film che spaziano da Alfred Hitchcock a Guy Maddin e tra i quali mi è subito saltato all'occhio Playtime di Jacques Tati. Cortocircuito che si è poi consolidato a metà settimana con la lettura dell'ultimo numero di Overlook (la rubrica tenuta qui su filmtv.it da Andrea Pirruccio che si concentra sull'importanza delle case e degli spazi nei film) che, bum, si focalizza proprio sulla casa in cui si svolge Mon Oncle, film che non ho mai visto, nonostante mio nonno, mio primo mentore cinematografico, adorasse Jaques Tati. Mio zio, sia, dunque. Per una sera l'asino che è in me si nutre senza smarrirsi in lungaggini e andiamo a colpo sicuro.
I titoli di testa, opera di Pierre Étaix e dello stesso Jacques Tati, sono già un piccolo capolavoro. Sullo sfondo di una città in brutale trasformazione, assordati dal rumore di un martello pneumatico, osserviamo la macchina da presa che scivola dall'alto verso il basso inquadrando cast e credit incisi su cartelli stradali in un modo così fisico che non mi stupirei se fossero stati realmente realizzati in materia e non graficamente creati in post produzione. Oltre a introdurre fin da subito il tema fondamentale dell'intero film - le conseguenze dei cambiamenti architettonici e strutturali nella Parigi del dopoguerra - dichiara anche la capacità autoriale di Tati di creare interi mondi più che semplici storie.
Al primo stacco, infatti, ci trasporta subito in un ambiente completamente diverso e opposto, inquadrando uno scorcio parigino tra lampioni e case di pietra popolari in cui scorazza liberamente un gruppetto di piccoli cani che fruga nella spazzatura abbandonata agli angoli delle strade. Una visione nostalgica di un tempo che sembra appartenere già a un altro secolo. Su un muro, scritto con un gessetto di color ciclamino, in un font chiaramente infantile, il titolo del film: Mon oncle. Sono passati solo 90 secondi e siamo già di fronte ad un clash culturale.
Le rovine di una vecchia costruzione in primo piano, un calesse pieno di stracci trainato da un cavallo, il gruppo di cani che lo insegue e sullo sfondo i palazzi razionalisti grigi, mentre una musica vivace accompagna le piccole cose di una quotidianità d'altri tempi (un semaforo che si prende tutto il tempo necessario per diventare da verde a rosso passando per l'arancione senza che nessuna macchina sia apparsa) e poi, seguendo uno dei cagnolini, arriviamo a lei, la casa, villa Arpel, dove vive la sorella di Monsieur Hulot con marito e figlio. Una casa in cui il cielo non si vede mai, oscurato dai volumi implacabilmente squadrati della costruzione, e la colonna sonora è data dai rumori degli elettrodomestici e dei dispositivi automatizzati collocati ovunque. Come dice Pirruccio nel suo bell'articolo: scomoda, inospitale, priva di personalità.
La musichetta nostalgica termina, il cane entra dal cancello e, in una triangolazione perfetta, torniamo al frastuono della modernità: madame Arpel sta pulendo la casa con l'aspirapolvere più rumoroso del mondo sotto gli sguardi perplessi degli altri cagnolini. Il teorema è costruito e Monsieur Hulot/Jacques Tati, agent provocateur al quale si sono ispirati sicuramente sia il Peter Sellers (di Hollywood Party) che Mr. Bean (tutto e sempre e con minore finezza), non è ancora neanche entrato in scena.
E io mi fermo qui perché ci sono già tutti gli elementi per tirare le somme. E per affermare serenamente come - nel suo stigmatizzare il contrasto tra vecchio e nuovo, nel suo farmi sorridere, amaramente, del mondo "moderno" che insegue il nuovo per poterlo esibire come un trofeo - Mon oncle sia stato il film giusto al momento giusto.
Sarebbe bello se fosse sempre così semplice. O forse lo è?
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