
Il sol dell'avvenire (2023): Nanni Moretti
Sono un morettiano irriducibile. Scoprire il cinema di Nanni Moretti è stata per me pura autoanalisi. Non smetto mai di riconoscermi in tic, nevrosi, snobismi ed autoreferenzialità del nostro (sì, non sono una bella persona). Vivo citando le frasi dei film di Nanni Moretti. Spesso i miei amici mi prendono in giro dicendo che sono più Nanni Moretti di Nanni Moretti.
Tre piani, uscito in sala nel settembre 2021 dopo la presentazione in concorso al festival di Cannes (l'amore incondizionato dei francesi per alcuni registi - penso anche ai Dardenne - mi ha sempre lasciato un po' di stucco, lo riconosco), mi aveva ampiamente deluso: il tentativo di adattare un romanzo israeliano poteva essere coraggioso ma, se tradotto in una abdicazione pressoché totale al proprio stile e alla propria rielaborazione personale, non aveva fatto che altro partorire, ai miei occhi, l'ennesima fiction stereotipata su ricchi borghesi romani alle prese con delusioni e dilemmi esistenziali. Il cinema di Moretti mi era parso dimesso, anzi, dismesso, come se la voglia di onorare il meraviglioso romanzo di Eshkol Nevo avesse sabotato totalmente la visione del regista. Esiste una minoritaria fetta di pubblico e critica che è riuscita a vedere qualcosa di buono in Tre Piani: penso a Francesco Alò, a Paolo Mereghetti, ma anche al nostro affezionatissimo Valerio (@spopola, il cui giudizio spesso considero ben più affidabile di tanti critici togati, o a Lorenzo (@Leman). Prima di addentrarmi in Il sol dell'avvenire, ho voluto dare una seconda chance a Tre Piani: mah, sì, forse qualcosa c'è, forse non merita una stroncatura netta ma quel prefinale in cui un gruppo di danzatori amatoriali attraversa le strade ballando mi aveva sempre fatto tornare in mente una sardonica battuta di Ecce Bombo: “Fa molto Fellini, vero? Che bello”. E questa stridente giustapposizione tra il giovane rampante Nanni e il Nanni senile degli ultimi tempi (a scanso di equivoci: adoro i film senili o le fasi senili dei grandi registi) non può non farmi bocciare il film.
Il sol dell'avvenire mi ha lasciato sensazioni contraddittorie. 'Lasciato' non è il termine giusto, però, perché il finale ha toccato le corde della commozione. Le sensazioni contraddittorie, più che altro, le ho provate durante il film. Ho sorriso, ho riso, mi sono commosso, mi sono autocompiaciuto nel riconoscere le citazioni più o meno velate alla sua intera opera. Ma, al tempo stesso, sentivo che qualcosa non tornasse del tutto, che qualcosa fosse convincente solo a metà. Il mio cuore, puramente morettiano, mi sussurrava: lo sta facendo apposta, è assonanza tra forma e contenuto, è il suo 8½, è palese dai, Nanni è un genio, Nanni è tornato alla grande e questo è il suo film più bello da trent'anni a questa parte e, quindi, uno dei film più importanti del cinema italiano recente.
Eppure, non lo so, c'è qualcosa che non mi torna.
Sarà che io reputi 8½ un film irreplicabile, che chiunque abbia provato a rifare in chiave personale ha finito per fallire miseramente o comunque per apparire un po' sciocchino (l'unico riuscito nell'impresa, a mio parere, è stato Bob Fosse che, da gigante quale era, ebbe l'intelligenza di rendere All That Jazz un 8½ non tanto personale quanto dell'intero genere musical del passato e del presente che stava per essere corrotto dall'avvento degli anni Ottanta). 8½ è quello che è anche perché Fellini fa della trasfigurazione, principio chiave della propria poetica, la chiave di volta di una dissertazione straordinaria sulla crisi dell'artista contemporaneo (e sottolineo: artista prima ancora che cineasta. 8½ è molto più che un 'film sul cinema') che è figlia del più novecentesco dei temi: la crisi dell'individuo, la crisi dell'uomo, che non è più grado di fingere di aderire a schemi (sociali, familiari, relazionali, religiosi, etc.) prestabiliti e vorrebbe semplicemente mettersi a nudo in tutte le proprie fragilità, meschinità e ipocrisie. Quando Anouk Aimée risponde ad un mai così sincero Marcello Mastroianni “Non so se quello che hai detto è giusto ma posso provarci se tu mi aiuti...", è impossibile non avere la pelle d'oca: questa frase riassume la complessità contemporanea dei rapporti interpersonali. Nulla garantisce il successo o il lieto fine o l'eternità di qualcosa di bello, ma anche solo provarci, a condizione di essere messi nelle condizioni di farlo, rende la vita una festa da vivere insieme, seppur nei propri difetti fieramente umani.
Il sol dell'avvenire è una rielaborazione esistenziale di Moretti sul proprio cinema, sul proprio immaginario e, per estensione, sul cinema e sull'immaginario italiano degli ultimi decenni. Si è spesso affermato che Moretti sia un moralista, un predicatore col ditino alzato pronto a rilevare i difetti del prossimo e del mondo, un nevrotico incapace di accettare che il mondo giri secondo regole e parole("le parole sono importanti" di Palombella rossa) diverse dalle proprie o slegate da una qualche forma di purezza (la matematica è "chiarezza", come si dice in Bianca).
Moretti guarda a quello che è stato con l'atteggiamento crepuscolare di chi forse è stato troppo inflessibile con gli altri, di chi ha esagerato, di chi ha fatto del male al prossimo senza rendersi conto, forse, di averne fatto anche a se stesso. Ma un altro finale è possibile, forse un'altra storia può ancora essere raccontata perché "chi l'ha detto che la storia non può essere scritta con i se"? E allora quel "le parole sono importanti" si trasforma in "sono solo parole", cantato da tutti a squarciagola in uno dei momenti più commoventi di Il sol dell'avvenire. Il cinema è lo strumento privilegiato per attuare questa divergenza. Non è un caso che Il sol dell'avvenire sia un film narrativamente frammentato: il cinema è la somma di tante arti ad esso precedenti (letteratura, musica, fotografia, recitazione) ma ciò che lo rende unico è il montaggio, concetto totalmente nuovo capace di secare il tempo per dare un nuovo significato alla realtà della finzione. E l'ultima opera di Moretti è un film innanzitutto sul tempo, dunque sul montaggio che può dare nuovi significati a ciò che è stato e a ciò che potrà essere.
Alla luce di ciò, Silvio Orlando, che nel film nel film raccontato in Il sol dell'avvenire interpreta il segretario della sezione del partito comunista di un quartiere romano del 1956, fa qualcosa di anti-morettiano: rompe il patto di lealtà con se stesso, cessa di essere supino alla linea del partito e, spronato dalla ben più riflessiva e pensante Barbora Bobulova ("ma tu, tu che cosa pensi?"), decide di condannare fermamente la repressione sovietica della rivoluzione ungherese del 1956, dando il là all'affrancamento del PCI dall'URSS, in un'ucronia che tanti hanno vagheggiato nel corso dei decenni
E se Moretti, che interpreta Giovanni, regista che sta girando questo film sull'Italia del 1956, è in grado di optare per questa svolta narrativa così di rottura rispetto all'idea originaria che aveva in mente (cioè far finire il film nel film col suicidio del personaggio di Orlando, incapace di tradire il partito e l'URSS), allora è in grado anche di accettare che la figlia stia con una persona molto più grande di lei ("un mese fa avrei reagito in un altro modo") e, per estensione, che il suo mondo, fatto di convinzioni inossidabili, non esista più sia perché sorpassato (come dimostra la lunga e spassossima sequenza di disquisizione etica-estetica col giovane regista action ossessionato dalla violenza cinematografica; o l'esilarante incontro con i dirigenti Netflix) sia perché inutilmente e vacuamente gravoso, per sé e per gli altri. Perché passare la vita a far sentire tutti gli altri inadeguati, costantemente appesi ad un filo? "Sei faticoso" rivela un'esausta Buy al marito Moretti che sta per lasciare. Saper fare un passo indietro è importante, saper riguardare al passato con uno sguardo diverso è importante (e il montaggio, dunque, è decisivo, perché tutti i ritrovati morettismi del film che hanno fatto la felicità di noi fan sono riletti in chiave nuova). Di conseguenza, aprirsi al nuovo, a quello che non si era mai considerato possibile può diventare una salvifica possibilità di riappropriazione del proprio immaginario (che è, indubbiamente, anche storia della cultura popolare italiana degli ultimi 45 anni), un saluto accorato a ciò che, nel bene e nel male, si è stati, a ciò che si è creato, ma senza quel fanatismo integralista da 'sotuttoio', da 'al di fuori di me c'è la fine di tutto'. E la sfilata finale in stile Le notti di Cabiria con tutti i protagonisti di tutto il suo cinema (il sodale di una vita Dario Cantarelli, Mariella Valentini che in Palombella rossa veniva schiaffeggiata, Jasmine Trinca, etc. Anche se mi domando a cosa sia dovuta l'assenza di Laura Morante, che mi ha rammaricato non poco) che sorridenti guardano in macchina e Nanni che li e ci congeda con un saluto, sembra suggellare tutto questo.
Eppure, mi chiedo: e se questa improvvisa 'apertura' di Nanni altro non fosse che rassegnazione? La rassegnazione di chi vede un mondo incomprensibile, lontano dai propri riferimenti e che, di conseguenza, decide di rinunciare a lottare? Se questa incapacità di decodificare un mondo totalmente cambiato di cui ci si rifiuta di comprendere appieno il nuovo significato (il ritratto dei dirigenti Netflix, che ripetono a vanvera quattro frasi e quattro inglesismi preimpostati, afferisce più all'ambito della caricatura, dello scherno ridicoleggiante che della satira vera e propria) fosse quasi un inno al disimpegno, al 'vivi e lascia vivere', allora come la dovremmo prendere? Come un film coraggioso, profondo, capace di guardare al passato con affetto e nostalgia ma anche con equidistanza e amarezza? O come un molto più vile 'ho fatto il mio tempo, quello di oggi non mi appartiene più, fate quello che volete e io vi lascerò in pace'?
Nanni, un tempo eri fiero di sentirti d'accordo con una minoranza di persone. Un tempo usavi le tue nevrosi e le tue idiosincrasie (che erano anche le nostre) come cartina al tornasole di una difficoltà esistenziale di stare in un mondo che andava perdendo significato in ogni suo ambito (dall'amicizia alla politica passando per l'amore, il lavoro e la genitorialità, vista tanto dall'occhio del padre verso un figlio perduto quanto del figlio verso una madre ormai al termine della propria vita). Ora cosa ci stai dicendo? È meglio fare parte della maggioranza? È più bello, per sé e per gli altri, accettare il nuovo stato delle cose con serenità, rinunciando agli ideali di una vita, senza neanche voler calarsi per davvero in questa nuova realtà?
Il sol dell'avvenire è, forse, un inno alla flessibilità, al compromesso, al saper parlare agli altri senza chiudersi nei propri assolutismi. Ma, uscendo dalla sala, ancora un po' emozionato da quel finale che non può non toccare ogni morettiano, non potevo non pensare alla furbizia dell'operazione, forse anche all'insincerità, forse ad una chiusura rassegnata che vuole spacciarsi per apertura, ad un conformismo epidermico. In Il sol dell'avvenire non c'è una reale tradimento dei propri (dis)valori, non c'è un reale anelito a comprendere il prossimo, il mondo di oggi e le ragioni che animano gli uni e gli altri. La dimensione autoreferenziale e narcisista del cinema di Moretti non viene realmente sconfessata: viene solo apparentemente accantonata in nome di una sconfitta acquisita. Nanni capisce di aver perso la propria battaglia, ma non ne analizza i motivi, le cause, i rimandi, le conseguenze. Ne prende atto, quasi a voler dire 'avete vinto voi, ma forse è meglio così, ci possiamo voler bene ugualmente, forse è meglio anche per me, anche se continuo a non capirvi e a non voler davvero capirvi'.
Un'apertura che tale non è, perché senza comprensione, senza voglia di mettersi realmente in discussione, senza capacità di guardare realmente le cose con gli occhi degli altri, senza voglia reale di studiare questo nuovo mondo cercando di cavarne anche i lati positivi che non possono non esserci, non si può davvero voler bene agli altri. In tal senso, Basta che funzioni di Woody Allen ragionava ad un altro livello di analisi del reale: Larry David restava un nevrotico ossessivo misantropo depresso cinico dall'inizio alla fine del film nonostante i suoi tentativi di aprirsi ad un'altra dimensione, ponendosi in tal senso come un antieroe da cui, per opposizione, scaturiva la linea portante del capolavoro alleniano, cioè che la vita non abbia senso ma non sia vuota se si sappia come riempire i vuoti. In Il sol dell'avvenire Giovanni decide di cambiare, ma lo fa solo a metà, con un'insincerità di fondo che si traduce in ruffianeria.
A voler essere puntigliosi, poi, questa voglia di riscrivere la storia arriva esteticamente ben ultima: prima ancora del Tarantino di Bastardi senza gloria e C'era una volta a... Hollywood (non avrebbe senso, in questa sede, arrivare a citare Kieslowski o Sliding Doors), Marco Bellocchio aveva dimostrato con l'onirismo di Buongiorno, notte (e poi di Esterno notte) di saper parlare di sé, di ieri, di oggi, di privato e di pubblico ad un livello di padronanza delle immagini e dei suoi significati di valore ben più elevato, riuscendo perfino a trasfigurare (operazione in cui Fellini eccelleva) tutto ciò persino nel genere documentario (Marx può aspettare è un capolavoro anche per questo)
Il cinema di Moretti è sempre stato fieramente eretico, verso tutto e verso tutti. Respingente per tanti colleghi (celebre la frase di Dino Risi "Spostati, che non riesco a vedere il film"), anche per tanti cinefili. Tuttavia, questa finta ortodossia alla dittatura della maggioranza ammantata di rassegnazione apparente parla al mio cuore di fan commosso e amareggiato nel vedere decostruiti tic e nevrosi di una carriera, ma non alla mia testa di cinefilo che vede una ritrattazione schematica e senza reale maturazione (quindi sostanzialmente di facciata), alla luce di un conformismo disincantato e pigro.
Solo una cosa mi tranquillizza, carissimo Nanni: che Il sol dell'avvenire non sia un testamento, come hai rivelato, in maniera morettianamente svogliata, da Fabio Fazio. Vedi che, quando vuoi, sai essere sempre te stesso?
In buona sostanza, che cosa hai voluto dirci, Nanni? Nell'attesa di una risposta, eviterò di dare un voto al film e cercherò di rivederlo. Nel frattempo, aiutatemi voi in questa ricognizione. Se voi mi aiutate, posso provarci.
EDIT DEL 25/04/2023: ho rivisto il film, alla fine ho scelto di seguire il mio cuore. Mi sembra abbia molta più ragione di quanto la ragione stessa non ammetta
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Alla fine la generosità del tuo voto mi fa capire che, nonostante le incertezze, questo film ti abbia comunque colpito al cuore come ha fatto con me.
Nonostante la mia recensione sia estremamente positiva (per me a livello puramente artistico siamo di fronte a un bellissimo film), capisco benissimo le tue critiche.
È sottile il filo rosso tra l’accettazione della mutevolezza di un mondo sempre in divenire e il più rassegnato conformismo.
Tuttavia credo che il cinema di Moretti fosse pronto a questa svolta, perché era ormai da tempo che il regista aveva cominciato a seguire il consiglio di Dino Risi, lasciando anche agli altri lo spazio all’interno di una inquadratura che per molto tempo è stata Moretti-centrica.
Certo, il suo cinema continua a parlare delle sue paranoie, dei suoi pensieri. Continua ad essere un diario su cui scrivere ragionamenti, abbozzi, scarti di altre idee.
Ma c’è spazio anche per quelle figure famigliari fino ad adesso trascurate, c’è spazio per permettere all’operatore di macchina (colui che sta dietro) di ballare assieme al cast (che stanno davanti) e c’è il riconoscimento di tutti quelli che hanno contribuito a rendere grande il cinema Morettiano.
Quindi di fronte a questa presa di posizione politica e artistica, mi sento di dire che il regista romano può anche permettersi di abbassare gli scudi di battaglia per imparare a stare bene anche CON le persone e non solo TRA le persone.
Buon 25 Aprile a tutti!
Buon 25 aprile anche a te, Lorenzo, e grazie per il tuo prezioso commento che amplia la tua già ottima recensione, decisamente a fuoco su quest'ultimo Moretti, su cui concordo totalmente. A questo punto resta una domanda: dove andrà ora il cinema di Moretti?
E sai qual è stato l'ultimo regista che mi ha fatto porre questa domanda? Wes Anderson. Anche lui, a modo suo, con The French Dispatch mi sembrava aver messo definitivamente in soffitta un certo suo modo di fare cinema (tant'è che faceva morire il suo attore feticcio Bill Murray, costruendoci addosso tutta la metanarrazione del giornale ispirato al The New Yorker), concedendosi una sorta di ultimo giro in onore dei vecchi tempi.
Nuove strade, più utopiche, più sognanti.
Come utopica sembra essere questa nuova Asteroid City protagonista del nuovo film di Anderson.
Ho visto l’ultimo film di Moretti giusto ieri sera e ho deciso che non scriverò recensioni perché mi parebbe di aggiungere una inutile ridondanza a quanto già fatto da altri, penso in fondo di ritrovarmi abbastanza d’accordo con quanto scritto da Leman. Vorrei però commentare qualcosa al tuo post. Intanto 8 ½. Ci sono tanti altri film sul fare un film, Effetto notte, Irma Vep tra quelli che amo. Sono tutti diversi e tutti raccontano vissuto e difficoltà creative personali, ciascuno con la propria dignità autoriale. Non ritengo dunque affatto che la via del paragone, anche nel caso dell’ultimo lavoro di Moretti, sia quella più giusta. Moretti mi pare voglia proporre semplicemente un bilancio del proprio percorso artistico, lo spunto potrà essere analogo ma senza alcun intento emulatorio “in chiave personale”, ne sono certo. Le citazioni velate o esplicite ai suoi vecchi film ci stanno dunque tutte e non sono un espediente per tenere vivo il legame col proprio pubblico, come ha scritto qualcuno, sarebbe un’operazione semplicemente da idioti oltre che patetica. Quella che mi pare mutata in Moretti è piuttosto una sua certa chiusura intransigente, ma è cominciata da un po’. Quando Moretti ha presentato a Napoli “Santiago, Italia” è sceso a fine proiezione tra il pubblico, a parlare, a stringere la mano, a far battute, perfino qualche selfie. Sta tutto qua a mio avviso il suo cambiamento, una sorta di apertura al confronto, all’ascolto, al contatto; una in qualche modo benefica discesa dalla propria torre d’avorio che non mi pare affatto come un “cedere le armi” rispetto alle proprie convinzioni ma semplicemente una presa di coscienza che esiste l’ascolto, legata alla maturità ed agli anni che scorrono, perfino l'ammissione che qualche errore possa essere stato fatto. Ma a noi del resto Moretti piaceva proprio ed anche per certi suoi atteggiamenti altezzosi. Mi stranisce piuttosto il suo modo di recitare nel film: non che lo abbia fatto diversamente in passato, ma certe pause verbali a volte paiono quasi faticose, però fisicamente pare in perfetta forma.
"Ma a noi del resto Moretti piaceva proprio ed anche per certi suoi atteggiamenti altezzosi" Come darti torto... Probabilmente, a freddo, la mia mente non tollera che dall'altezzosità moralista che lo ha sempre caratterizzato si sia passati al danzare dolcemente, soavemente, fellinianamente, in una catarsi collettiva che ai tempi di Ecce Bombo sarebbe stata sardonicamente accolta con una battuta sferzante. Ma d'altronde sono passati 45 anni e il coraggio di Moretti nel saper andare avanti, anche riconoscendo i propri limiti, mi pare molto più intelligente di quanto forse noi fan non avremmo mai potuto pretendere da lui. E la costruzione di questo suo j'accuse (anzi, m'accuse) è così emotivamente convincente, nell'intreccio di tre piani narrativi, che non possa vincere, anche davanti ai miei occhi, su qualsiasi riserva possibile
Riguardo la recitazione, anche io l'ho trovata per certi aspetti involuta, anche in considerazione di quanti primi piani si sia concesso. Ma, a conti fatti, mi pare una scelta ragionata: in fondo sta accusando se stesso, si sta mettendo a nudo e denunciare, anche con la recitazione, la propria impossibilità nel reggere da solo un film anche narcisisticamente (come faceva un tempo) è coerente col discorso globale che porta avanti
Se Il sol dell'avvenire sia un capolavoro, come da più parti sto sentendo, lo dirà solo il tempo, come sempre. Ma sono fiducioso :)
Il ballo se ci pensi è stato da sempre una sua forma espressiva: Caro Diario (30 anni fa) per dirne una ("in realtà il mio sogno è stato sempre quello di saper ballare bene") ed anche in quel caso inimmaginabile se si pensa agli esordi di Ecce Bombo...
Devo dire che la tua analisi coglie nel segno. La scorsa settimana uscendo dalla sala dopo la visione de il ritorno di Casanova, mi sono chiesto ma Salvatores ha ancora qualcosa da dirci? Ieri sera mi sono posto lo stesso quesito per Moretti. Forse è un quesito un poco brutale e ingeneroso ma mi pare che non riesca più a "graffiare", a interrogare il tempo presente. Ricordo le splendide parole di Miccichè a proposito di caro diario: il senso era che Moretti raccontando di sè, parlava anche di noi, ora sembra parli solo di se stesso. E' azzardato affermare che Bellocchio sia il miglior regista italiano in circolazione? Nel 2009, a 69 anni, sfornò un'opera come Vincere e notevole è pure il ben più recente Marx può aspettare
Grazie mille Panunzio!
Anche per me Bellocchio è il miglior regista italiano in attività. Nanni lo amo, mi ha segnato tantissimo, e non posso esimermi dal rivedere periodicamente i suoi film. Adoro il periodo apicelliano, sono tutti capolavori immensi tra il 1976 e il 1989 ma non posso non rivedermi nelle parole di Micciche che citi quando ripenso soprattutto ad Aprile o a Mia madre (addirittura Mia madre è stato inserito nella lista dei migliori 10 film del decennio 2010-2019 dai Cahiers du Cinema). Caro Diario era tutta un'altra storia, secondo me, emanava una grande poesia nel riconoscimento da parte di Nanni di essere un individuo comune alle prese coi piccoli e grandi affanni del mondo. E aveva momenti da brivido come l'omaggio a Pasolini o di grande comicità come Renato Carpentieri ossessionato da Beautiful. C'era ancora voglia di parlare del presente, dell'oggi. Cosa che certamente La stanza del figlio, Il caimano, Habemus Papam e Il sol dell'avvenire fanno, ma trovo che solo Habemus Papam sia veramente compiuto, per me infatti è veramente straordinario nel testimoniare l'inadeguatezza nel saper farsi testimoni di una qualche verità nel mondo di oggi. Habemus Papam è secondo me anche uno dei testi veramente importanti per comprendere l'audiovisivo contemporaneo non solo italiano. È un film che attua una riflessione sulla senilità molto più matura di Il sol dell'avvenire, che invece gioca più di caricatura (e funziona molto bene, beninteso. Ma la satira è un'altra cosa). Il mondo di oggi resta qualcosa di incomprensibile, e allora tanto vale riderci sopra, anche con un po' di commozione per il tempo che è passato (e anche sotto questo aspetto il film funziona benissimo, per chi sta al gioco o magari è un fan, come il sottoscritto). "Nessuno cambia mai veramente, succede solo nei film". E infatti...
L'ultimo Salvatores, purtroppo, l'ho perso, ma non l'ho mai considerato all'altezza di Moretti neanche nei suoi anni migliori. Mi sembra abbia smarrito quello che aveva da dire da tempo...
Molto d'accordo con te su Bellocchio "il miglior regista italiano in attività" e molto d'accordo anche su Salvatores, che non "ho mai considerato all'altezza di Moretti neanche nei suoi anni migliori."
Caro Alvy, assodato che Moretti non è delizioso né che sia un film rivoluzionario nonostante la presunta presenza di partigiani dell’arte, spinto dalle tante considerazioni che ho potuto leggere in questa pagina, oggi pomeriggio sono tornato ad assistere alla sera della prima del sol dell’avvenire e questa volta insieme a tutta la family. Mia moglie che la prima volta s’era appisolata mi ha detto che “non ho capito il film”, al secondogenito tredicenne è sorprendentemente piaciuto, al primogenito al solito non abbiamo potuto cavare una parola di bocca. Reputo gli inserti musicali affidati alla voce di Moretti semplicemente terrificanti, estremamente godibile il siparietto con quelli di Netflix: vi ricordate quanti sono i Paesi in cui vengono distribuiti i loro prodotti, pardon, opere? Sono ancora più incerto nel pronunciare un giudizio netto . Può essere che Nanni non sia capace di rassegnarsi a spostarsi dall'obiettivo? Sua è anche l’ultima immagine che ci saluta. Può essere che io abbia assistito al corteo finale (ciao Bianca ciao) con malinconia ricordando quello che Moretti ci ha dato (ed è tanto) e che non ci può più dare? Forse sarebbe davvero ora che più che sognarlo si cimenti dietro la macchina da presa (e basta) per fare una storia d’Italia attraverso le canzoni.
Caro Panunzio,
la cosa del 190 Paesi, 190 Paesi, 190 Paesi ormai sta diventando giustamente un cult e, tra l'altro, Nanni ne aveva già parlato molto prima di girare il film in questa spassosa intervista che ti consiglio di vedere: https://youtu.be/4zmcMvrHE9g
Per il resto, onestamente non so cosa dirti... il film è sicuramente prezioso, ma continuo ad avere sentimenti contrastanti. La mia testa e il mio cuore continuano a non parlarsi, concordano solo che 'Lontano lontano' di Tenco sia un capolavoro ahah
Mi fa molto piacere che al tuo secondogenito sia piaciuto e ti ringrazio per avermelo detto perché, in effetti, quello che più temevo di Il sol dell'avvenire era che non fosse capace di parlare ai non avvezzi all'arte morettiana. Ora puoi convincerlo a fare un recuperone ahah
Riguardo la questione Laura Morante, alla fine il dilemma è risolto: è stata lei a rifiutare l'invito di Nanni a partecipare alla sfilata finale (https://www.rollingstone.it/cinema-tv/interviste-cinema-tv/laura-morante-non-esistono-ricordi-spiacevoli/741004/) forse anche alla luce di incomprensioni pregresse tra i due che risalgono ai tempi di La stanza del figlio (https://www.corriere.it/spettacoli/cinema-serie-tv/festival-di-cannes/notizie/laura-morante-la-palma-cannes-nanni-moretti-mi-escluse-allora-non-siamo-piu-amici-00af293c-dab8-11ec-85d9-79001994e61c.shtml)
Anche secondo me Nanni dovrebbe concedersi un sano film sulla storia d'Italia attraverso le canzoni d'amore, anche se, in realtà, ho scoperto che qualcosa di molto simile esiste già: è uno spettacolo teatrale di Emma Dante che si chiama "Il tango delle capinere"
Facci sapere poi se il tuo primogenito si sia lasciato scappare un parere sul film ;)
Hai ragione, avevo letto qualcosa a proposito dello spettacolo della Dante. Circa Gian Maria le probabilità che possa parlare sono più o meno le stesse che Michele Apicella si sposti dall'inquadratura per consentirci di vedere il film, che Salvini s'imbarchi su una nave di una ONG per soccorrere i migranti o che il presidente del senato prenda una tessera dell'ANPI. Non è che sia misantropo, già è partito svantaggiato in quanto noi maschietti non è che si abbia chissà quanti neuroni, lui però ne ha un paio perché possiede un cervello "AB Norme" ragion per cui si esprime più o meno come Frankestein e quando è stato riproposto in sala il capolavoro di Brooks non ce lo siamo fatti scappare. Scusa la divagazione personale. Ciau
Come molti autori e intellettuali, Moretti ha semplicemente avuto l'ispirazione giovanile, che piano piano è poi scemata. Ha fatto pochi film, sentiti, fino a un certo punto. Poi, d'un tratto, si è spenta la vena creativa, ma evidentemente a 60 anni non cambi mestiere solo per "così poco". Nel frattempo, non sappiamo se "ci sia" o "ci faccia", nel mostrare di credere ancora in una politica "di sinistra", mentre la sinistra è più a destra del PNF (tra inni alla guerra, alle coercizioni, ai divieti, ai controlli, etc.). Da girotondino antiberlusconiano si è trasformato in fautore dei sieri genici sperimentali contro il fantavirus della pandemenza di massonica creazione. Casualmente, poi, come tantissimi suoi colleghi, è stato colto da problemi di salute (e buon per lui che non è finito nella lista dei "malori improvvisi" di cui sono ormai piene le cronache, o dei "turbo tumori" dei suoi "colleghi ipervaccinisti"). Dopo aver visto i suoi appelli a vaccinarsi ho capito che o è sempre stato parte del sistema, o si è completamente rincoglionito con l'età e/o con l'alienazione dai fatti del mondo, al punto di aver sprecato 70 anni della sua vita ad abbaiare ai fascisti, salvo, poi, non accorgersi che li stava supportando. Il sol dell'avvenire... non mi ricordo nemmeno di che cosa parli. Ho lasciato una recensione a suo tempo, e tanto basta. Tre piani, a malapena lo ricordo, ma anche quello è pietoso... Habemus Papam e Mia Madre hanno segnato il definitivo epilogo del cinema morettiano come lo intendi tu (e io, del resto), che era riuscito a trasparire abbondantemente perfino ne La stanza del figlio, nonostante le significative differenze rispetto alle opere "classiche". Ma, in fondo, sai che ti dico? Meglio così. In fin dei conti bisogna prendere consapevolezza di sè e dismettere i falsi eroi.
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