1993, trent'anni dopo Derek Jarman; 1951, settantadue anni dopo Wittgenstein (la morte, naturalmente).
E allora celebriamoli con parole loro
Un film su Ludwig Wittgenstein (Vienna 1889 – Cambridge 1951) è di per sé una sfida logica, se assumiamo che un film debba riflettere la realtà nella sua complessità partendo da un punto di vista, quello dell’autore.
Nulla di più lontano, quindi, dal filosofo che meno di tutti inquadra la sua visione del mondo in un unico punto di vista.
Nulla può essere dato una volta per tutte, nemmeno la prova dei sensi, convinzione che condusse Wittgenstein al dubbio di sé e tormentò la sua vita in una inesauribile lotta interiore.
Eppure Jarman riesce a drammatizzare questa lotta nel vuoto. E vedremo come.
Sul filosofo viennese, mente affascinante nel suo tormento, un pensiero che stregherebbe chiunque con la sua eterodossia, col suo essere al di là di ogni forma conclamata di ricerca filosofica, con l’ impenetrabilità di formulazioni teoriche che misero in difficoltà intere generazioni di menti superlative, su Wittgenstein, in definitiva, bisognerebbe attenersi alla sua più nota proposizione:
"Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere."
Della sua filosofia possiamo solo tacere, noi che filosofi non siamo, captarne solo qualche barlume, ma è possibile comunque godere della bellezza delle sue proposizioni più “poetiche” e farcele bastare.
Occupiamoci dunque dei fatti, “il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose" e usiamo il nostro linguaggio, strumento che limita il nostro mondo ma anche gli consente di esistere, ben sapendo che oltre non possiamo andare.
"I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo."
Siamo così alla terza proposizione che fa il paio con la quarta:
"Il linguaggio è un labirinto di strade. Vieni da una parte e ti sai orientare; giungi allo stesso punto da un'altra parte, e non ti raccapezzi più."
Naturalmente questi numeri (uno, due, tre) sono i nostri, niente a che fare con la numerazione insita nel Tractatus Logico-Philosophicus del grande viennese, l'opera filosofica più significativa del ventesimo secolo, che identifica la relazione tra lingua e realtà e definisce i limiti della scienza, breve trattato di appena settanta pagine che G. E. Moore intitolò così come omaggio al Tractatus Theologico-Politicus di Baruch Spinoza.
Di ricchissima famiglia ebrea convertita al protestantesimo, composta di uomini e donne che avevano familiarità con grandi musicisti (Brahms e Malher, Ravel compose per Paul Wittgenstein, suo fratello maggiore mutilato in guerra, il Concerto per pianoforte per la mano sinistra in Re Maggiore) letterati, politici e vari del Gotha internazionale, Ludwig non volle usufruire di questa posizione privilegiata (“ io non ho nessun merito per tutta questa ricchezza”), pur nutrendo per tutta la vita un grande affetto per la famiglia con cui trascorse felice molti Natali e feste.
Lui scelse di fare il maestro di scuola elementare, in alternativa anche il giardiniere, il manovale, l’architetto e l’ingegnere aeronautico, il volontario in guerra e il prof. a Cambridge (posto che, peraltro, non gli piaceva affatto).
Un curriculum di tutto rispetto nella sua stravaganza.
Divise le sue proprietà fra i fratelli e visse una vita proletaria, volontario in guerra (I mondiale) fu prigioniero a Cassino, soggiornò per un po’ anche in Russia, più volte a New York e soprattutto nell’amata solitudine del Sognefjord in Norvegia, nel villaggio di Skjolden, il luogo più adatto per lasciare libero e ordinato corso ai suoi pensieri filosofici.
Un filosofo/manovale, ingegnere e architetto, una mente inesauribile, pare fosse anche un po’ misogino, ma su questo ci sono dubbi, amò teneramente le sorelle, ebbe care amiche, la sua omosessualità è nota ma dall’ultima biografia per immagini, Wittgenstein - Una biografia per immagini, Carocci editore, Quality Paperbacks, 2018, un eccellente tomo curato da Michael Nedo, il suo studioso più accurato, direttore del Ludwig Wittgenstein Trustdi Cambridgee curatore dei suoi scritti nella Wiener Ausgabe,questo aspetto non emerge, prova del fatto che su usi e costumi sessuali si può tranquillamente bypassare senza che ciò rappresenti una diminutio nella ricostruzione di una vita.
Una biografia da conoscere, quella di Wittgenstein, per tante ragioni, e per farlo, anche se in minima parte, ci atterremo al film e al libro, facendoli interagire.
Una mostra di pochi anni fa Venezia, a Ca’ Corner della Regina, Fondazione Prada, dal titolo magistralmente evocativo, “Machines à penser”, collabora all’impresa, avendo scelto di ricostruire, dei tre massimi pensatori del secolo scorso, Adorno, Heidegger e Wittgenstein, solo i loro “luoghi”, quelli del loro “pensare”, usando soprattutto fotografie e ricostruzioni ambientali, case, oggetti, arredi, nient’altro, al fine di indagare il rapporto tra il pensiero e l’ambiente in cui questo prende forma, la necessità che ebbero di un luogo di ritiro intellettuale.
Quelli di Wittgenstein si distinguono per “francescanesimo”, e del resto basta guardare un repertorio di foto del personaggio per capire: sempre lo stesso vestito stazzonato, i capelli leggermente arruffati e lo sguardo intento e profondo, gli angoli della bocca che sembrano trattenere un sorriso, gli occhi che fissano l’obiettivo ma lo bucano andando lontano.
Molto fotografato e amante come il nonno della fotografia, la biografia per immagini dice tanto di lui, e pur senza parlare del suo pensiero e dei fatti della sua vita se non per riferimenti frammentari, ce lo fa conoscere nelle fibre più intime attraverso i suoi album, i taccuini di appunti, le lettere, sue e di altri, le didascalie che accompagnano le immagini e recano pezzi di un discorso globale fatto da tante voci.
E’ il mondo che lo circondava e si rifletteva nel suo pensiero in frammenti che la logica componeva e scomponeva per ricomporre in altro ordine, era la sua vita in atto con le sue ripetizioni e le intermittenze, i ritorni e le fughe in avanti.
"Dopo aver guardato un temporale, alla domanda "quante gocce di pioggia hai visto?" la risposta più adatta è "molte": non che il numero preciso non esista, ma non lo si può conoscere."
E’ una delle affermazioni in un momento del film a cui l’amico Keynes (il grande economista) ribatte che non tutto è fatto per essere spiegato, parti dell'esperienza umana sono al di là del regno della comprensione.
Wittgenstein non l’accetta, l'analisi e la spiegazione devono coinvolgere tutti gli aspetti del mondo, che si riesca o meno, ma il dubbio su chi dei due abbia ragione resta insolubile ed è il senso del film di Jarman.
Molte domande cruciali restano irrisolte, ma contraddittoria (o apparentemente tale) è proprio la filosofia di Wittgenstein.
Come il linguaggio con la sua articolazione mobile in continua trasformazione è l’unico mezzo logico anche se inesprimibile di approccio al mondo, così nuove teorie e nuovi modi di comprenderlo si susseguono nel pensiero del filosofo generando spiazzamento continuo.
Ed è il suo fascino.
Il film, penultimo di Jarman, si muove in altro modo dalla biografia per immagini, ma la scelta di fare a meno del tempo reale o narrativo è la stessa.
Raccontare Wittgenstein è possibile solo restando sul piano della sua filosofia, eliminando il contesto, proponendo una sequenza logica di episodi, flash sul pensiero in continua evoluzione sulla natura del mondo e sui collegamenti del linguaggio al mondo stesso.
Jarman compone un biopic, inimitabile, di grande valore estetico e soprattutto unico per linguaggio, adeguato alla rappresentazione del filosofo.
Il regista sceglie la strada più giusta per il suo cinema, sperimentale e indipendente, e limitatamente alle possibilità del mezzo cinematografico, diverse dal mezzo filosofico/letterario, parla per immagini.
“Ma perché quando scrivo di filosofia mi sembra di scrivere una poesia? E’ come se in ciò risiedesse un dettaglio che ha un significato grandioso. Come un fiore o una foglia” Così Wittgenstein il31 ottobre 1946
Se riflettiamo sul senso di questo frammento capiamo la necessità di ricorrere al sistema analogico per parlare di lui, metodo d’interpretazione che non esclude, anzi svela, ricorrendo però al bagliore dell’intuizione, all’essenzialità della parola.
La poetica dell’analogia risiede in una costante tensione di significato, quella che la singola parola crea con le parole vicine.
E così Jarman ricorre a toni da commedia stralunata, surreale, mette in scena immagini sorprendenti e costumi dai colori vivaci per far muovere personaggi bizzarri, a partire dal filosofo bambino (Clancy Chassay) e poi adulto (un Karl Johnson straordinariamente somigliante), dal marziano (Nabil Shaban) che provoca il bambino con domande filosofiche a Bertrand Russell (Michael Gough) dipinto come un dandy con la sua amante Lady Ottoline Morrell (Tilda Swinton) con cui Wittgenstein ha spesso colloqui rivelatori sul divario che, in termini reali, divise i due nonostante la forte amicizia di tutta una vita.
Jarman utilizza uno sfondo nero, sullo schermo solo gli attori con abiti variegati di epoche diverse, pochi oggetti di scena,una sedia, un letto, un tavolo, un pianoforte.
Ritrae così l’assenza di profondità prospettica e la casualità di un mondo che contrasta fortemente con la profondità del pensiero che lo pensa e decodifica.
Quello che ne risulta è un ritratto non dell’uomo ma del suo pensiero, impresa che, per riuscire, ha bisogno di autentiche acrobazie creative.
Riesce Jarman a darci l’idea di quello che Wittgenstein è stato? Crediamo di sì, e la parte migliore è la prima, dominata dal ragazzo Wittgenstein scherzoso, in duetto col marziano, o tutto preso dall’elencazione degli innumerevoli tutores che il padre autoritario mise alle sue calcagna di bambino e adolescente.
Spesso le immagini si aggrovigliano finendo per sembrare caotiche, ma se pensiamo che spesso confusonario e contraddittorio sembrò il suo pensiero, mentre invece stava aprendo strade alla cultura del ‘900 prima mai intraprese, dobbiamo riconoscere che la scelta stilistica di Jarman è adeguata e proporzionata al soggetto.
Per dare conferma a tutto questo bisogna guardare la scena finale, quando la cortina nera, sempre sullo sfondo, viene staccata.
Appare un gigantesco pupazzo di neve che simboleggia un mondo di ghiaccio puro, una comprensione logica e rigorosa del mondo. Ma una visione più realistica dove la logica s’infrange è possibile?
Il discorso di Keynes lo afferma:
“C'era una volta un giovane uomo che sognava di ridurre il mondo alla pura logica. Poiché era un giovane molto intelligente, in realtà è riuscito a farlo. Quando ha finito il suo lavoro, si è tirato indietro e l'ha ammirato. È stato bellissimo. Un mondo purgato dall'imperfezione e dall'indeterminatezza. Innumerevoli acri di ghiaccio scintillante che si estendevano fino all'orizzonte. Quindi il giovane intelligente guardò il mondo che aveva creato e decise di esplorarlo. Fece un passo avanti e cadde piatto sulla schiena. Vedi, si era dimenticato dell'attrito. Il ghiaccio era liscio, liscio e inossidabile. Ma non poteva camminare lì. Così il giovane intelligente si sedette e pianse lacrime amare. Ma mentre diventava un vecchio saggio, arrivò a capire che la ruvidezza e l'ambiguità non sono imperfezioni, sono ciò che fa girare il mondo. Voleva correre e ballare. E le parole e le cose sparse sul terreno erano tutte ammaccate, appannate e ambigue. Il vecchio saggio vide che quello era il modo in cui stavano le cose. Ma qualcosa in lui aveva ancora nostalgia del ghiaccio, dove tutto era radioso, assoluto e implacabile. Sebbene fosse giunto ad apprezzare l'idea del terreno accidentato, non poteva permettersi di vivere lì. Così ora era abbandonato tra la terra e il ghiaccio, a casa in nessuno dei due. E questa era la causa di tutto il suo dolore.”
A questo il giovane Wittgenstein risponde:
“Anche aver espresso un falso pensiero con audacia e chiarezza è aver guadagnato molto. Come posso essere un logico prima di essere un essere umano?”
Nello sforzo della filosofia per comprendere il mondo, illusioni e barriere sono il prezzo da pagare, il linguaggio metaforico una necessità, “… ciò che conta non è – come di solito accade nella scienza – la destinazione ma sono i percorsi stessi e la molteplicità delle connessioni. Avrei dovuto pubblicare questi vecchi pensieri insieme ai nuovi: questi potrebbero essere messi insieme ai nuovi nella giusta luce solo contrapponendoli al mio vecchio modo di pensare, e sulla base di esso”.
E’ l’operazione fatta da Jarman, ubbidendo così ad un postulato fondamentale di Wittgenstein:
“ Lo scopo della buona espressione e della buona similitudine è di rendere possibile una visione d’insieme”.
E cosa più della propettiva ultima, quella che parte dalla tomba, può garantire una visione d’insieme?
“ Quando qualcuno muore vediamo la sua vita in una luce pacificata. Una caligine avvolge e smussa la sua vita. Ma per lui non era così la vita, anzi era spigolosa e incompiuta. Per lui non c’era pace: la sua vita è nuda e miserevole “
Wittgenstein, 1946, scritto per la morte dell’amico Francis Skinner, ma potrebbe averlo scritto per sé stesso, post mortem.
www.paoladigiuseppe.it
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