
Esattamente 25 anni fa, mentre in Italia Titanic sbancava il box office e il settimanale Film Tv gli dedicava una seconda copertina realizzando la migliore vendita della sua storia, io ero in viaggio su un bus turco che scivolava, anzi arrancava, proprio sul margine sfilacciato di quello stato fantasma chiamato Kurdistan tra Erzurum e Dogubayazit diretto verso la frontiera con l'Iran.
Era notte fonda e il bus procedeva con difficoltà sulla strada stretta e circondata da una specie di steppa brulla e gelata. Avevo una fame tremenda e stavo sgranocchiando un Ramazan Pidesi - una speciale focaccina turca che viene cucinata solo nel periodo del Ramadan proprio per sfamare i viaggiatori - vista l'impossibilità di consumare cibo durante il giorno, dall'alba al tramonto.
Ad un certo punto, mentre tutti dormono, inclusa la mia compagna di viaggio, il bus si ferma nel mezzo del nulla, il conducente spegne le luci, apre le porte e da alcuni arbusti ai lati della strada sgattaiolano fuori e salgono sul bus quattro persone vestite malamente di stracci che scambiano alcune parole in Kurmanji con il conducente (il dialetto usato dai curdi in quella zona della Turchia) e vanno a sedersi proprio nel sedili dietro di noi. Le porte si richiudono con uno sbuffo, i deboli fari si riaccendono, il bus riparte non senza fatica. Guardo fuori dal finestrino e noto che non c'è alcuna luce, solo i fari del bus illuminano la strada davanti a noi come se fossero due piccoli semicerchi gialli. Penso: cosa ci facciamo qui?
Una domanda che, nell'arco di quel lungo viaggio tra Italia e India - 8500 chilometri che, seguendo l'ispirazione di un libro di Tiziano Terzani che ci aveva sedotto, volemmo percorrere solo con mezzi di terra - ci siamo fatti spesso.
Dopo una mezz'oretta il bus si ferma di nuovo, più bruscamente. I viaggiatori si svegliano sobbalzando. Si aprono le porte, sento qualcuno parlare in turco e in un baleno sul veicolo salgono tre militari in tenuta da battaglia armati di mitra e con un passamontagna nero calato sul volto dal quale si vedono solo vari occhi azzurri.
I curdi seduti dietro di noi non fiatano ma sento i loro piedi muoversi nervosamente. I militari iniziano a controllare i passaporti, fila per fila. Quando arrivano a noi, io probabilmente tremo. Non tanto per me, per i curdi. Il militare turco prende in mano i nostri passaporti, se li rigira tra le mani, li soppesa, guarda le foto, mi guarda in faccia e io sento il suo sguardo pungente e vagamente sarcastico formulare quella stessa domanda: ma voi, che cazzo ci fate qui?
E poi succede. Il militare si accorge del nervosismo che serpeggia tra i curdi seduti proprio dietro di noi, li inquadra con una torcia e, senza controllare alcun documento, guidato da un automatismo istituzionalmente violento ne prende due per la collottola, li trascina fuori dal bus e senza dire una sola parola li scaraventa ai lati della strada. Un secondo militare prende gli altri due e gli fa fare la stessa fine.
Noi paralizzati. Ma la cosa più agghiacciante è stato il silenzio di tomba in cui il fatto si è svolto e la totale rassegnazione degli altri passeggeri - tutti turchi, nessun viaggiatore - indice di come quel fatto, nonostante fosse segnato da una violenza feroce, fosse chiaramente piuttosto normale da quelle parti.
I militari scendono, le porte si chiudono, il bus riparte lentamente. Io mi giro verso il lato della strada, vedo i militari che impugnano i mitra, ben piantati a terra su quelle gambe fasciate dalle tute mimetiche, con i loro anfibi neri, pilastri di un confine immaginario.
E poi vedo loro, i quattro curdi: arretrano senza dare le spalle ai militari, non spaventati ma guardinghi, fino a che il buio della steppa non torna a inghiottirli e loro tornano nella voragine scura di quella terra alla quale appartengono, senza diritti.
Quel lungo viaggio via terra ha provocato in me tanti pensieri, quello ricorrente era che viaggiando lentamente, spostandosi di paese in paese, di confine in confine, le differenze tra le persone diventano minuscole, quasi spariscono. Una sensazione strana per noi che siamo abituati a viaggiare in aereo e a venire, così, catapultati dal nostro microcosmo in quello che all'arrivo ci appare per forza come un altro pianeta, distante anni luce. A viaggiare con mezzi di terra lenti, facendo tante tappe, invece, sei costretto ad iniziare a pensare ad un'utopia: che gli uomini potrebbero essere davvero tutti, solo, fratelli. Potrebbero.
Ho ripensato a questa sensazione e a questo ricordo qualche giorno fa quando, nell'apertura del podcast Morning, il giornalista de Il Post Luca Misculin, parlando del terremoto che ha devastato Turchia, Kurdistan e Siria questa settimana, ha ricordato come il terremoto che distrusse la città macedone di Skopje nel 1963, finì per ingenerare una spirale di solidarietà di portata globale. Tutti gli stati, anche quelli che solo fino a qualche anno prima si stavano sparando addosso, parteciparono attivamente alla ricostruzione della città producendo di fatto una svolta assolutamente imprevedibile, quasi, appunto, utopistica, comportandosi come se fossero solo fratelli. Persino i due blocchi nemici, quello statunitense e quello russo, decisero di lasciare da parte qualsiasi inimicizia partecipando fianco a fianco alla ricostruzione.
Ascolto le notizie che parlano della voragine che si è creata in seguito al terremoto, della spaccatura della placca tettonica che ha creato uno spostamento dell'Anatolia di tre metri, spezzando tutte le strade e interrompendo di fatto gli accessi alle zone colpite. Il problema non è, però, puramente logistico. Il problema è che quelle zone sono abbandonate a loro stesse da troppi anni, non si capisce neanche quali siano le autorità, le istituzioni, che dovrebbe gestire gli aiuti umanitari. Anche se ora la Siria sostiene che tutti gli aiuti dovrebbero transitare attraverso di loro ed Erdogan è pronto ad assumere l'atteggiamento del padre della patria ferito a morte dalla provvidenza, strategia molto conveniente per mettersi al riparo dagli attacchi interni alle sue politiche ultranazionalistiche e corrotte.
Guardo la mappa con la zona rossa in cui risiede l'epicentro del terremoto e noto come si sovrapponga quasi perfettamente alla mappa ipotetica del Kurdistan, come lambisca esattamente quella strada tra Erzurum e Dogubayazit, configurando una specie di terra di nessuno. E non posso fare a meno di ripensare a quella strada, a quel bus, a quella notte e a quelle quattro figure ricacciate indietro, vestite di stracci, silenziosamente, istituzionalmente, minacciosamente, ignorate. Risucchiate da quell'oscurità, debolmente illuminata dai fari giallognoli di quel bus.
E pensare che potremmo essere, solo, tutti, fratelli.
p.s. immagine tratta dal film C'era una volta in Anatolia di Nuri Bilge Ceylan
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