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“Quanto dura il domani?” – In memoria di Theo Angelopoulos
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Undici anni fa, il 24 gennaio, a 76 anni, moriva Theo Angelopoulos.

Travolto dalla motocicletta di un poliziotto fuori servizio mentre attraversava una strada a Keratsini, periferia ovest del Pireo, ci ha lasciato i suoi film e quell’angolo buio che resta quando sparisce qualcuno che per noi contava.

Non esiste elaborazione del lutto. Elias Canetti diceva: Elaborare il lutto è un concetto che non mi appartiene, lo lascio agli psicologi”.

I lutti si vivono male, e quel male non passa.

E oggi ancora pensiamo a quel giorno maledetto, a quella morte assurda, cattiva, banale, di undici anni fa.

Quanto dura il domani? L’eternità e un giorno.

Un film non finito, The Other Sea, terzo di una trilogia aperta da The Weeping Meadow (La sorgente del fiume).

Quante cose i morti lasciano non finite?

Una frase non detta, rimandata al giorno dopo, un libro da scrivere, tutto in mente, mancava solo la prima parola, un film da finire, un viaggio da fare.

La sorgente del fiume  aveva qualcosa di profetico.

Il tema della morte, dominante, immobilità contro la mobilità della vita, la morte che arriva improvvisa, attraversi una strada, sei mobile più che mai, e un attimo dopo la tua corsa è finita per sempre.

The Weeping Meadow è fatto di continue interruzioni del flusso vitale.

Dalla sorgente alla foce, dalla nascita alla morte.

Lungo il percorso l’acqua trova ostacoli, gira con mulinelli intorno a rocce e detriti, diventa vortice, cascata, rapida, infine si placa e arriva al mare, dove tutto sembra mobile, ma è solo apparenza.

Il mare non cambia, è sempre uguale a sé stesso, le onde s’infrangono sulla riva e tornano indietro.

Il movimento narrativo e fisico si blocca in pause prolungate, la progressione delle storie, individuali o collettive, è continuamente interrotta, lunghe carrellate e lente panoramiche incrociano tempo e spazio e li fermano in una fissità opaca. Poi il giro riprende e la ruota delle meraviglie riparte, fino alla fermata definitiva.

 L’amore di Eleni e Nikos è il filo conduttore.

L’anziano padre di Nikos reclama Eleni come sua sposa, perché gli usi ancestrali del villaggio vogliono che la donna prenda lui, il patriarca, e invece lei ama suo figlio, Nikos.

I due amanti fuggono e il padre entra in scena dal nulla, come a teatro, quando un attore avanza dal fondo della platea.

E’ finzione ed è storia vera, nel teatro sono alloggiati i rifugiati di Odessa, un popolo costretto a fuggire a Salonicco dalle armate russe (siamo nel ’19). I palchetti sono diventati piccoli appartamenti, Eleni e Nikos sono là.

Il ritmo vitale si ferma, la vita è costretta a dismissioni forzate, a fughe, a viaggi verso un nuovo confine.

Si arriva al mare o sulla sponda di un fiume, oppure ci si avvicina a posti di blocco custoditi da picchetti armati. Lì ci si ferma.

Cinema di migranti, quello di Angelopoulos è uno sguardo lungo sul Mediterraneo popolato di cadaveri.

 

Ancora un’interruzione della vita che vuol riprendere il suo corso nel villaggio dove si cerca di ricostruire un’esistenza, una comunità. Il fiume lo spazza via, restano solo i tetti che affiorano dall’acqua dell’alluvione.

E morte, ancora, di un gregge, promessa di vita e nutrimento, maglioni caldi e agnellini scalpitanti. Le pecore pendono a testa in giù dai rami di un albero spoglio, visione macabra, festoni di morte appesi dalla follia di un uomo.

Luce, sole, aria, l’azzurro del cielo e il bianco delle lenzuola stese ad asciugare, appena mosse dalla brezza. Una distesa infinita, ilcampo lungo traccia lo spazio come un’aquila in volo. Quelle lenzuola immacolate saranno imbrattate di sangue dalla mano dell’uomo ferito al ventre.

Anche la musica può smettere di volare libera.

E’ quella di Eleni Karaindru che, tra tradizione classica, jazz e cultura balcanica, attinge anche alle onde sonore del rebetiko, “ … il canto nato dalla disperazione di un’antica crisi (la fuga da Smirne), una delle musiche che hanno costruito l’identità moderna della Grecia, trasportando con sé il dolore dell’esilio e la ribellione alle violenze della storia. È una musica contro il potere, non autorizzata, indebita”. (Vinicio Capossela)

Colpi d’arma da fuoco sempre più vicini, e il gruppo musicale di Marcos, allineato sulla riva del mare in uno di quei tableaux vivants che Angelopoulos compone con mano di pittore, si separa in una fuga scomposta.

Ci sono i bambini, una speranza non ancora delusa, un potenziale di vita che s’immagina possa scorrere senza fatali interruzioni.

Neanche loro sono immuni.

Diventeranno giovani che partono per la guerra e torneranno cadaveri.

Un giorno ballavano felici nella sala del villaggio, ora sono stesi sul greto fangoso e non restano che madri vestite di nero che piangono su di loro.

Infine i treni che passano e ripassano, seminano nuvole di fumo e coprono la scena per qualche secondo. Quando la cortina fumogena dirada la vista è cambiata.

Quanti confini dobbiamo attraversare prima di tornare a casa?

Vita di passaggi, passaggio di confini, fino all’ultimo, quando il passato diventa memoria, duratura ma anche labile.

E poi diventa sogno che al mattino scompare, gocce “rotolate giù, cadendo come lacrime sulla terra”.

Nel finale Eleni è nella barchetta sull’acqua che ha coperto il suo villaggio e sepolto ogni speranza di vita.

Fuori campo le parole di Nikos.

E’ una lettera arrivata da poco ma spedita quattro anni prima, da Okinawa, prima di morire in guerra.

Entra il tema del sogno che sottrae la vita all’immobilità della morte:

“Ieri notte ho sognato che partivamo insieme alla ricerca della fonte del fiume. Ci faceva strada un vecchio. Mentre camminavamo il fiume si faceva sempre più piccolo e si divideva in migliaia di piccoli ruscelli. Improvvisamente in alto, sotto le cime innevate, il vecchio ci mostrò un pezzo di terra ricoperto di erbaccia in un luogo umido e ombreggiato. Ogni filo d’erba tratteneva piccole gocce di rugiada che di tanto in tanto cadevano sulla terra soffice.

“E’ questo prato- disse il vecchio - la sorgente del fiume”.

Tu allungavi la mano e toccavi l’erba bagnata. e quando l’hai sollevata alcune gocce sono rotolate giù, cadendo come lacrime sulla terra.

Il grido di Eleni sul cadavere di Yorgis, il figlio, riporta alla realtà e lacera il cielo immobile. Ora è sola, nessuno più da aspettare, da amare.

La donna è di fronte al mare, sempre diverso ma sempre uguale.

Riprendere la salita? Sarà dunque ancora Sisifo a consentire all’uomo di vivere?

“Se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n'è soltanto uno, che l'uomo giudica fatale e disprezzabile. Per il resto, egli sa di essere il padrone dei propri giorni. In questo sottile momento, in cui l'uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. Così, persuaso dell'origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora. Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch'egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice(A.Camus,Il  mito di Sisifo).

Fino alla prossima riconciliazione col passato, fino al successivo traguardo, fino all’ultimo rotolare del masso giù, lungo la scarpata.

Fino all’arrivo di una moto rombante.

 

L’ultimo viaggio

Due mesi prima della morte, Novembre 2011, Angelopoulos rilasciava un’intervista.

Parlava della paura della Grecia in grave crisi economica, Paese che guardava al futuro senza molte speranze, del film che avrebbe fatto su quel tema prendendo spunto dall’Opera da tre soldi di Brecht.

“Siamo arrivati, e non solo in Grecia ma in generale, a un periodo in cui sono le banche che decidono… Sto preparando un film che si chiamerà L’altro mare e che parla di questa situazione attraverso la storia di un piccolo gruppo di giovani attori che cercano di mettere in scena L’opera da tre soldi di Brecht insieme a dei lavoratori in sciopero e non riescono a farlo… I problemi sono arrivati da una sorta di esplosione del capitalismo in un universo che non crede più a niente perché i sogni, l’utopia socialista è crollata. Non c’è più prospettiva storica. Di fronte a questo orizzonte chiuso sono arrivati anni disperati. La strada è libera per il sistema capitalista senza limiti”.

Un film completamente autoprodotto in cooperativa, lui stesso, gli attori, le maestranze, tutti non retribuiti ”… un po’come il mio primo film, eravamo in cinque e nessuno era pagato”.

Angelopoulos fa un’analisi pacata e insieme accorata del futuro prossimo venturo, cita la frase centrale di Brecht: “Pensate che sia più criminale rapinare una banca che fondare una banca?

Brecht mise in scena l’opera nel ’28 con Kurt Weill, la crisi bancaria mondiale stava esplodendo, le conseguenze furono gravissime e nessuno le ignora.

Oggi, dice il regista, è peggio. Nel film parlerò di padre e figlia, del conflitto fra due generazioni, chi ha provocato la crisi e chi l’ha subita... Non ci sono soldi per il cinema, per il teatro, le casse sono chiuse. Le sovvenzioni per l’arte, la cultura sono finite. La maggior parte delle persone che lavora nei teatri lavora senza essere pagata… Il Centro del cinema ha chiusoÈ difficile spiegare ai giovani, hanno difficoltà a comprendere. Per la mia generazione che ha creduto di poter cambiare il mondo è difficile vivere il presente. Abbiamo creduto di essere a cavallo sul tempo e poi constatiamo che l’utopia è finita… Gli economisti non sono così sensibili, gli artisti sono coscienti di quello che avviene, non hanno i mezzi per farlo, non se ne esce con sistemi economici. Forse c’è bisogno di qualcosa di nuovo””.

E aggiunge che girerà il film al Pireo, da dove partono i traghetti per l’Italia, ma non perché l’Italia sia “l’altro mare”.

 “L’altro mare”, il titolo è preso dal poeta  Seferis:

Abbiamo attraversato il mare che porta all’altro mare”.

Non vedremo mai quel film, le sue anticipazioni sono poche ma bastano per farlo immaginare.

Un altro mare è il mondo migliore che sognava, dove rinascesse il  linguaggio della cultura, quello capace di parlare di tutto e di creare una “cooperativa dello spirito”.

Quell’intervista sembrava il suo testamento spirituale, oggi sappiamo che lo era.

 

www.paoladigiuseppe.it

 

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