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La necessità di un capo
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I primi venti minuti sconvolgenti del film Athena di Romain Gavras, passato in concorso all'ultima Mostra di Venezia, mi hanno inchiodato al divano e hanno imposto al mio pollice di premere ben ben due volte sul tasto "riprendi dall'inizio" per capire come diavolo sia stato possibile articolare un piano sequenza (visivo e sonoro) di quel genere.

Alla seconda visione inizio a pensare al grado di disciplina necessario per portare a termine la sequenza, un'organizzazione millimetrica di centinaia di persone tra cast, comparse e tecnici.

Alla terza visione inizio a vedere chiaramente come questo livello di tecnica necessaria per "mostrare" sia il preciso riflesso della disciplina necessaria per "organizzare" quel che viene rappresentato: la violentissima manifestazione degli abitanti di un quartiere parigino (Athena) nei confronti delle forze dell'ordine, colpevoli di avere ucciso un adolescente residente nel quartiere.

L'azione di pura guerriglia, strutturata nei minimi dettagli, inizia nel cuore di un commissariato, quando un commando armato, sospinto dalla violenza dell'indignazione e dalla potenza dell'ossessione, penetra nelle pieghe degli uffici della polizia - impreparata a fronteggiare un'eventualità del genere - e ne esce vittorioso brandendo esattamente quel che stava cercando. Poi inizia a ritirarsi, richiudendosi a riccio, tornando a folle velocità alla matrice, nel cuore di Athena.

Con ancora negli occhi la perfetta sincronia necessaria per gestire una sequenza che scivola più volte sul confine del tecnicamente impossibile, con ancora addosso la sensazione fisica del sudore, del sangue, dei muscoli tesi di quella scena incappo in una serie di informazioni che si incastrano e, anzi, condensano benissimo il flusso di pensieri ed emozioni che la sequenza di Athena ha lasciato a mezz'aria davanti ai miei occhi.

Mentre leggevo un po’ di notizie sulle proteste in Iran di questi giorni, la mia attenzione è stata attratta da un articolo di un periodico in spagnolo che, citando direttamente un articolo del New York Times, racconta molto nel dettaglio il frutto di uno studio dell’università di Harvard che ha analizzato i risultati delle proteste violente e non violente nel mondo, dal 1930 ad oggi.

Quasi cento anni di manifestazioni, di gente in strada, di sit-in silenziosi, di azioni di disturbo condotte da attivisti di tutto il mondo. Cento anni di grandi quantità di gente riunita nelle vie e nelle piazze delle capitali del mondo, a volte per affermare nuovi valori, a volte per portare all’attenzione dell’opinione pubblica ingiustizie commesse da parte di governi autoritari ai danni di minoranze. E di maggioranze.

L’analisi non si ferma ovviamente alla mera archiviazione degli argomenti delle proteste, alla loro natura violenta o non violenta o al semplice censimento del numero di persone che vi hanno partecipato, ma esamina nel dettaglio anche i risultati ottenuti in termini di cambiamenti reali rispetto alle istanze presentate.

Il tutto inserito in un ampio quadro storico in cui l'approccio statistico ha l’ambizione di mettere in evidenza i trend. Quante manifestazioni hanno avuto successo, quali strumenti hanno utilizzato, con quali poteri si sono confrontati. Dentro a questa analisi riposano due verità. La prima è che le proteste non violente hanno avuto, nella storia, maggiore successo di quelle violente. La seconda è che dall’avvento di internet in avanti, anzi, per la precisione, dalla diffusione dei social network in avanti, il coefficiente di successo delle proteste non violente è calato in maniera significativa.

Se da un lato, con l’arrivo dei social, è diventato molto più facile mobilitare decine o centinaia di migliaia di persone, beneficiando di strumenti molto veloci che evidentemente hanno permesso di accorciare i tempi e di snellire il processo di organizzazione, dall’altro, a partire dalla metà degli anni 2010 e fino ai nostri giorni, le possibilità di successo delle manifestazioni non violente sono calate vertiginosamente.

Intorno al 2000 due movimenti di protesta non violenta su tre avevano successo. Negli ultimi anni la percentuale di successo è scesa a uno su sei. Sembra un paradosso ma alcuni accademici hanno fornito degli spunti molto interessanti in proposito.

Una sociologa della Columbia University e opinionista del New York Times, Zeynep Tufekci, ad esempio, sostiene che gli attivisti che dedicavano mesi per organizzare una protesta nell'era precedente all'adozione dei social network, a fronte dell'immensa fatica e dell'impegno necessari per dare forma alla manifestazione, per far passare le informazioni e gli aggiornamenti, finivano per stabilire con la rete di manifestanti dei contatti fisici, reali, che avevano maggiore possibilità di durare nel tempo. Instillando nei partecipanti una comprensione più profonda del valore della disciplina e una idea più precisa della gerarchia con cui le informazioni circolavano, ogni manifestante aveva la possibilità di diventare uno snodo resistente.

L'avvento delle reti sociali permette, invece, di mobilitare centinaia di migliaia di persone nello spazio di due giorni ma, senza la struttura dell'attivismo tradizionale, una volta terminata l'azione o la manifestazione di dissenso, i partecipanti corrono il rischio di disperdersi alla stessa velocità, facendo perdere pressione alle azioni e alle richieste.

I governi autoritari, a cui spesso le proteste sono dirette, hanno poi maggiore possibilità di reprimere le manifestazioni frammentando e demotivando i manifestanti quando manca una struttura fatta di persone e contatti fisici. Senza un leader o una gerarchia, in più, viene a mancare una visione strategica che risulta utile e a volte fondamentale per coordinare le azioni, per far ricircolare le informazioni o anche solo per mettere a punto un piano B.

Infine, secondo lo studioso Chenoweth, che fa parte del gruppo di Harvard che ha portato a termine l'analisi principale su questa materia, stiamo vivendo un'epoca di autoritarismo digitale e le stesse risorse che vengono usate da chi protesta per organizzare velocemente una manifestazione sono usate anche dai governi come strumenti di vigilanza, intimidazione o minaccia diretta. Chenoweth fa notare anche come la stessa facilità di comunicazione via social sia utile ai governi anche per far filtrare messaggi di propaganda che indeboliscono la tenuta dei movimenti sul lungo termine.

Anche se la propaganda dell'autoritarismo digitale non ottiene, numericamente, gli stessi risultati dei manifestanti, può essere sufficiente a disseminare la rete di dubbi generando divisioni, scetticismo e indifferenza con l'effetto di diminuire la portata delle accuse alle quali certi governi sono sottoposti, facendo anche spesso leva sui segmenti più conservatori della popolazione, mettendo in evidenza gli aspetti più controversi delle proteste, enfatizzando quelli che impattano sulla "quiete pubblica".

Se nel quadro storico degli ultimi cento anni le proteste pacifiche hanno sempre avuto maggiore successo di quelle violente, l'inversione del trend nell'ultimo decennio preso in esame, riporta in equilibrio le possibilità di successo e oggi la manifestazione non violenta, in termini puramente statistici, non ha più un grande vantaggio rispetto ad una che invece fa uso di metodi più violenti.

La chiave del successo, in termini di risultati ottenuti, di una azione di protesta sembra poggiare le sue basi non tanto, quindi, sulla modalità violenta o non violenta utilizzata. Né sulla quantità di persone coinvolte. E neanche nell'uso controverso e ambivalente degli strumenti più tecnologici di comunicazione. Ma sull'esistenza di una catena gerarchica molto fisica che si traduce in capacità di resistenza alla pressione che i governi autoritari sono in grado di mettere in atto, anche usando gli stessi strumenti informativi per delegittimarne l'operato e indebolirne la resistenza.

Una chiusura di ragionamento che mi fa ritornare brevemente ad Athena di Romain Gavras. Perché alla fine il dispiegamento di mezzi necessari per mostrare l'azione, la necessaria perizia, molto più tecnica che tecnologica (a parte l'uso di un drone per alcune riprese), è per la maggior parte umana, fisica, tangibile. È tutta struttura finalizzata al coordinamento di un corpo, di un insieme di corpi. È sintonia di cervello e muscolo. È informazione che corre lungo percorsi perfettamente oliati, dal capo alla coda, che fa affidamento su solide gerarchie, su snodi precisi, testati, resistenti. Un concetto visivamente molto convincente soprattutto nella seconda parte della sequenza, quando Athena, il film e il quartiere, si richiude in se stesso, stringendosi attorno al capo, sbarrando tutti gli accessi, asserragliandosi per gestire le conseguenze delle sue azioni. Come un organismo vivo.

Gli accademici di Harvard ricordano, infine, come in epoca pre-social le proteste non si esaurivano nelle manifestazioni popolari, nelle strade piene di gente, che rappresentavano, invece, solo una tappa verso le negoziazioni. Quei momenti di confronto, spesso a porte chiuse, in cui i capi dei movimenti incontravano i dirigenti politici e governativi e che potevano avere luogo anche grazie all'incessante lavoro dei cosiddetti intermediari. Ma noi oggi viviamo nell'epoca della disintermediazione. A capo della quale, al massimo, abbiamo gli algoritmi.

Se, tornando alla fiction, questo genere di cinema d'azione - fisico, muscolare, teso, molto umano - è pane per i vostri denti potrebbe interessarvi il nuovo episodio del nostro podcast. Intanto qui trovate le recensioni della community su Athena, visto in concorso a Venezia e già disponibile su Netflix.

Se volete protestare vi aspettiamo qui sotto, a porte aperte.

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