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A un certo punto mi ero quasi convinto che lo facesse apposta. Mi sembrava impossibile: doveva esserci una piccola perversione dietro. Intendiamoci: niente di maligno. Né di pericoloso. Poi il Natale e la sua retorica, che per me un po’ perversi lo sono (ma so che potrei anche sembrare impopolare), non possono essere etichettati come maligni. Stucchevoli magari, ma maligni no. Così mi sono deciso a chiamarlo e chiedergli cosa diavolo stesse succedendo.

“Senti ma stai caricando sul sito una quantità impensabile di film sul Natale. Poi sono praticamente sempre lo stesso film. Ma perché?” “Ma scusa tu hai detto che i film che passano in televisione dobbiamo sempre averli in database, trama e tutto. E questi passeranno, fidati, che passeranno." Aveva ragione lui. Perché in effetti quei film - soprattutto su un certo canale tv che io proprio non guardo mai - sarebbero alla fine stati trasmessi.

E così ho iniziato a farci caso. C’è praticamente un’intera industria che sforna questi film che hanno tutti, letteralmente, la stessa trama. E che è pressapoco questa. “Lei ha lasciato il suo villaggio per andare a lavorare nella grande città, dove ha un prestigioso incarico come «inserisci qui mestiere figo a caso». A un certo punto - quando manca poco al Natale - deve far ritorno forzatamente a casa perché ha ereditato [il negozio- la fattoria - il ristorante - la casa della nonna - o altro luogo a caso legato in qualche modo al passato o alla tradizione]. Vorrebbe disfarsene e vendere tutto perché ci sono vari problemi, ma incontra [un suo vecchio amico - il custode della casa - lo chef del ristorante - un vedovo giovane con prole che vive lì vicino - o altro tizio a caso ma comunque di bell’aspetto e sani principi] che la riavvicina al vero spirito del Natale. Decide quindi di restare [ristrutturare - tirarsi su le maniche - non vendere - o altra scelta analoga che comunque salvi la tradizione] lasciare il lavoro figo e mettersi con il tizio in questione, tornando a vivere nel villaggio. Fine.

È una struttura assolutamente ricorrente. E fa a gara con un altro filone, da me poco considerato, che è quello dell’organizzatrice single di matrimoni. Vi risparmio i dettagli.

Chelsea Hobbs, Giles Panton

Il disegno del Natale (2021): Chelsea Hobbs, Giles Panton

 

Vabbene, direte voi. È la vecchia storia dei romanzi rosa: un copione sostanzialmente unico con poche varianti che punta sempre al medesimo lieto fine. Poi dicono che l’importante non è la destinazione, ma il viaggio, il percorso... pff.

In realtà l’altra sera mi sono guardato un po’ stancamente un film recente su Netflix che rosa non è: Hustle (bel cast: Adam Sandler, Robert Duvall, Ben Foster e - letteralmente - ogni grande campione di basket in attività nell’NBA: i titoli di coda sono assurdi) che racconta la storia di un talent-scout sportivo che tra non poche difficoltà trova in Spagna un giovane talento della pallacanestro sin qui ignorato, si convince che potrà portarlo al successo e lo allena, sfidando pareri contrari, per farlo assumere e... SPOILER.. ce la fa. (Sorpresona!)

In questo caso non è lo sviluppo in sé a essere scontato, ma la struttura comune a ogni storia che ha al suo culmine una performance (tipicamente sportiva, ma può essere anche artistica, per esempio un concerto, ecc.): la speranza, il duro allenamento, un fallimento, riprende il duro allenamento, il successo finale. Praticamente il 90% dei film sportivi è basato su questa struttura (statistica assolutamente non fondata su dati ma su impressioni e memoria): vi sfido a dimostrare il contrario.

Ma vi sfido anche a identificare altre strutture analoghe: siete in grado di fornire esempi? Sono certo di sì.

Capisco che tutto ciò rimandi ad aspetti molto antichi del racconto. Penso ad esempio alla struttura delle fiabe: quanti studi serissimi sono stati fatti su questo? Ma non riesco da molto, troppo tempo, a farmi catturare quando identifico una struttura ricorrente. Riconoscerla è immediatamente respingente. Non ho più bisogno di fiabe. Non ho più nemmeno bisogno di lieto fine, da parecchio tempo.

Alla fine la cosa di cui ho più bisogno per apprezzare un [film-libro-brano musicale-altro prodotto della creatività umana] è che sviluppi un proprio linguaggio autonomo, una sua necessità interna, una visione personale e stilisticamente coerente. Alla fine le opere che mi hanno segnato maggiormente - nel periodo della mia maturità - sono quelle che hanno realizzato ai miei occhi questo compito. A queste perdono molto: perdono l’assenza di un lieto fine o addirittura di un finale, perdono eventuale lentezza, perdono eventuale poca comprensibilità, perdono eventuali andamenti ellittici.

Poi certo, una fiaba ogni tanto ci sta. Ma sono guilty pleasures. Non le cose che mi determinano e che porterei con me. Sulla famosa isola deserta.

 

 

PS: nel film di cui parlo su Pablo (il nostro nuovo podcast) questa settimana - la cui scelta solo per assoluto caso sfiora la cronaca recente (lo giuro) - ci sono alcuni degli elementi che identifico come necessari a farmi piacere un film. Annoto anche che è accaduto quasi sempre con i lavori di Pablo Larrain.

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