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REGISTI CHE CONTANO 16: ROBERT BRESSON... la purezza... probabilmente
di alan smithee
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Robert Bresson, François Lafarge

Au hasard Balthazar (1966): Robert Bresson, François Lafarge

Robert Bresson è stato - e si può scriverlo senza esitazione - uno dei più grandi registi di cui l'arte della rappresentazione cinematografica abbia mai potuto fregiarsi. 
Bresson ha attraversato tutto il '900 (è nato nel 1901 e ci ha lasciato a fine dicembre 1999, a soli pochi giorni dal nuovo millennio) dirigendo pochi piccoli film (tredici lungo tutto un secolo, oltre al bizzarro cortometraggio d'esordio intitolato Les affaires publiques), che tuttavia, nel contesto di una carriera unica e di primaria grandezza in cui l'autore diviene portavoce della corrente del minimalismo in campo narrativo-cinematografico, si sono dimostrati vere e proprie pietre miliari della rappresentazione di una umanità sopraffatta e vinta dal male e dalla cattiva sorte.
Tematiche universali come il bene soggiogato dal male, la fede come miraggio per disporsi verso esistenze funestate dalle difficoltà; la redenzione come strumento per riscattarsi dalla mediocrità, l'amore come sentimento che non trova quasi mai adeguata corrispondenza e porta a gesti folli ed inconsulti tra gli incompresi ed i frustrati, costituiscono i punti cardine dell'intero lavoro di Bresson: si tratta, per quasi tutti i titoli, di veri e propri capolavori, spesso inizialmente e singolarmente incompresi dal pubblico, a volte pure da certa critica.
Capisaldi tutti di un cinema rigoroso e puro, che non cede mai a compromessi, né ai ricatti utili a rincorrere un facile consenso a tutti i costi, ma al contrario si fa forza sulla propria mai rinnegata intransigenza per portare avanti tematiche universali che spesso possono fornire risposte riguardo ai travagli dell'esistenza umana lungo tutta la storia dell'umanità.
Titoli che ora, forse troppo tardi, sono quasi tutti considerati come pietre miliari di uno stile di rappresentazione che rifugge gli ammiccamenti espressivi propri di una recitazione da consumata scuola teatrale o cinematografica.
Circostanza e stratagemma, quest'ultimo, che giustifica il ricorso pressoché costante del regista a cast composti prevalentemente da interpreti non professionisti, in grado di rendere, con l'inesperienza che inevitabilmente li contraddistingue, quella fissità di reazione che quasi sempre inizialmente lascia perplessi in quanto indicativa di sommaria inadeguatezza al ruolo, ma che si dimostra poi il sistema più verosimile e potente per rendere in modo credibile i tratti sempre drammatici delle vite dei vari protagonisti dei drammi che Bresson ha scelto di rappresentare.
Reazioni poco plateali di gente reale che esprime reazioni reali o rappresentate nel modo più realistico ed antispettacolare possibile.
Ecco perché l'asino Balthazar, nella sua apatica naturalezza di fatto indiscutibile, può definirsi un attore perfetto e credibile alla stregua dei colleghi "umani" che compongono il cast di Au haaard Balthazar e degli altri film di Bresson.
Le storie che stanno alla base dei film di Bresson, traggono spunto spesso da testi classici russi molto noti (Dostoevskij e Tolstoj in particolare), o da autori francesi solo leggermente meno di grido, come Georges Bernanos (quello de Sotto il sole di Satana da cui Maurice Pialat trasse l'omonimo film Palma d'Oro fortemente divisiva e contestata a Cannes), e da cui il regista francese prese spunto per Diario di un curato di Campagna e Mouchette: due tra le sue opere più significative, oltre che epicentro di quel minimalismo e fatalismo che pervade la sua intera opera di autore.
Ma alcune tra le sue sceneggiature furono scritte di proprio pugno (il controverso marxista ed ecologista Il diavolo probabilmente), riattualizzate all'epoca in cui ogni film è girato, tranne Processo a Giovanna D'Arco e Lancillotto e Ginevra, quest'ultimo unico vero film a budget importante nella filmografia dell'autore. 
Ripercorriamo qui di seguito, osservando un ordine rigorosamente cronologico, tutta l'opera del grande maestro, attraverso la quale è possibile rendersi conto della grandezza e della potenza di quello che considero uno dei miei autori di cinema preferiti in assoluto.
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L'esordio in regia di Robert Bresson avviene con un mediometraggio del 1934, mai uscito al cinema e per anni ritenuto perduto, ritrovato e conservato presso la Cinemathéque de France.

Lo stile umoristico e nervoso del tutto insolito rispetto al cinema che caratterizzerà la carriera successiva del grande maestro, ricorda le commedie slapstick più sfrenate e sfrontate, e la vicenda, incentrata sulla rivalità che si alimenta tra due stati confinanti, denominati Repubblica di Crocandia e Regno di Miremia, che si affrontano in diversi campi con esiti catastrofici, ricorda un pò, come sinistro accostamento, la nostra attuale situazione che vede l'Ucraina invasa dalla Russia, qualora fossimo oggi in grado di poter fare dell'ironia su una situazione ormai sfociata in una tragica guerra di supremazia.

Al suo debutto, lo stile di Bresson è tutto il contrario del minimalismo che andrà a caratterizzare tutti i suoi futuri splendidi lavori.

Gags degne di una comica incalzante, scene quasi interamente girate all'aperto e coadiuvate da un utilizzo di scenografie mobili piuttosto elaborate, necessarie a mettere in pratica i disastri che le varie cerimonie finiscono per creare.

Grazie anche ad un montaggio per quell'epoca frenetico ed altamente elaborato, il piccolo film diventa un rutilante concentrato di surrealismo e di situazione degne di un burlesque.

Nulla di trascendentale visto sotto lo sguardo maliziato dell'occhio moderno, ma in realtà un film esplosivo, rutilante, forte di una comicità tutta visuale, tipica di un'età in cui il cinema nascente aveva bisogno di concentrarsi sul movimento e sull'azione: tutto il contrario di quanto caratterizzerà Bresson nelle sue opere successive, ove l'azione cederà sempre più posto ad un minimalismo in grado di concentrarsi sul sentimento e sullo stato d'animo. 7/10

LA CONVERSA DI BELFORT (1943)

locandina

La conversa di Belfort (1943): locandina

Orgoglio contro devozione.

L'esordio nel lungometraggio per Robert Bresson avviene con una accorata vicenda dalla presa emotiva ancora molto forte, e rappresenta uno dei rari casi (assieme a Perfidia) in cui il celebre cineasta si avvale di soli attori professionisti.

Molto brave ed antitetiche le due attrici protagoniste, ovvero Renée Faure nei panni della novizia Anna Maria, e Jany Holt in quelli di Teresa.

L'ossessione del film, ed anche il suo punto di forza, è proprio l'antitesi tra orgoglio ed obbedienza, tra l'iniziativa motivatrice che anima l'aspirante suora e la accorata devozione, che tuttavia non è sufficiente a far desistere la giovane monaca dalla sua missione, guidata più da un istinto quasi egoistico di mettersi alla prova, che da un sentimento di altruismo genuino.

E in questa antitesi frustrante, in cui peraltro si inquadra perfettamente l'incongruenza di certi atteggiamenti di fede che hanno contraddistinto la storia della chiesa e di molte religioni, si dispiega la grandezza di un autore che scava nell'intimo del singolo, per tratteggiare comportamenti ed attitudini che appartengono ad intere civiltà e popoli.  8/10

PERFIDIA (1945)

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Perfidia (1945): locandina

Vendetta… implacabile vendetta..

Girato in una Parigi ancora compromessa dall'occupazione nazista degli anni '44/'45, il film, tratto da un racconto di Diderot, attraverso una sceneggiatura adattata da Jean Cocteau, dovette sopportare una gestazione piuttosto complicata. La storia, comunque piuttosto torbida e priva di un finale platealmente ottimista, non venne particolarmente amata dal pubblico e per Robert Bresson, qui impegnato nel suo secondo lungometraggio, questo fu l'ultimo film in cui utilizzò attori professionisti.

Tra costoro va senz'altro citata, per bellezza e forza scenografica, l'interpretazione della protagonista, l'attrice spagnola naturalizzata francese Maria Casares, perfetta a rendere la dualità di un personaggio apparentemente generoso e caritatevole, che invece nasconde fini di vendetta che sfiorano il diabolico. 7/10

DIARIO DI UN CURATO DI CAMPAGNA (1951)

"Che importa? Tutto è grazia"

Un giovane prete alla sua prima nomina, cela il suo stato di salute precario ed accetta di divenire parroco del paesino di campagna conosciuto come Ambricourt.

Tratto piuttosto fedelmente dall'omonimo romanzo di George Bernanos, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1951, ove fu premiato con il premio ecumenico l'OICIC, Il diario di un curato di campagna si concentra sulla descrizione, fisica ma anche attitudinale, di un percorso alla ricerca di un santità che possa dare i suoi frutti già a livello terreno, avvalendosi nel suo racconto di una narrazione tutta improntata sul rigore formale, e focalizzata sul minimalismo dei gesti e del linguaggio: strategie di rappresentazione che il regista riesce a rendere più efficaci attraverso l'utilizzo di attori non professionisti, scelti con puntiglio ad interpretare i vari personaggi coinvolti.

Unica eccezione a questo principio è rappresentata dal protagonista, il belga Claude Laydu, che si prodiga con un atteggiamento quasi sacrificale a rendere palesi ma mai sfrontate, le pene del suo povero protagonista, tutto proteso a non curarsi della propria malattia, ma proteso a cercare di conquistarsi la fiducia di quegli spigolosi e caratteriali dei suoi parrocchiani. 

A sei anni dal suo secondo lungometraggio (quel Perfidia girato tra mille difficoltà pratico-logistiche a fine Seconda Guerra Mondiale) questa volta Robert Bresson si concentra ancor più compiutamente sulla tematica del male che si insinua anche ad ostacolare la vita di chi si è votato alla causa di Dio e si concentra ad operare secondo la parola divina.

La fascinazione del male che travolge e tenta anche chi si avvicina, per predisposizione e sacrificio, alla santità, diverrà un filo conduttore di molte successive opere del grande regista francese, in grado di giostrarsi magistralmente a fare il punto su due facce così opposte ma così in grado di convivere in uno stesso individuo, come si presentano talvolta la santità e la dannazione.

Ma proprio da questo film inizia il periodo dei capolavori per questo grande cineasta profondo e votato al rigore. 10/10

UN CONDANNATO A MORTE E' FUGGITO (1956)

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Un condannato a morte è fuggito (1956): locandina

"Cette histoire est véritable. Je la donne comme elle est, sans ornement".

Chi conosce ed ama Bresson potrebbe non necessitare di questa premessa con cui il grande regista apre il suo racconto.

I "fronzoli narrativi" ed ancor più gli ammiccamenti melodrammatici esulano dal concetto di cinema che ha reso magistrale l'arte del celebre e schivo regista francese.

Il racconto della ingegnosa e rocambolesca fuga da parte di un condannato francese a morte, il tenente Fontaine, membro della resistenza francese, imprigionato dai tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, si avvale della cronaca diretta del protagonista che diventa imperturbabile io narrante della storia.

In un susseguirsi di primi piani che si concentrano sugli spazi angusti tipici dell'ambiente carcerario e che si alternano al volto impassibile dell'ostinato protagonista sempre rivolto alla finestra a grate a scrutale un orizzonte che a noi spettatori invece viene scientemente negato, il film bellissimo di Robert Bresson riesce a tradurci la concretezza di un bisogno di fuga e di libertà, che riesce a trasmettere nello spettatore una esigenza se non impellente, comunque molto avvertita, di rendersi pure lui libero da vincoli e da ogni privazione di sorta.

Premiato per la Miglior Regia al Festival di Cannes nel 1957, Un condannato a morte è fuggito riesce a riassumere sin dal solo titolo esemplare, tutta la dinamica e l'essenza di una narrazione che, per quanto si sforzi a risultare anti-spettacolare, riesce a mantenere sempre viva l'attenzione dello spettatore, coinvolto in una strategia di fuga che lo conduce quasi ad identificarsi con l'umanissimo protagonista. 10/10

DIARIO DI UN LADRO

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Diario di un ladro (1959): locandina

"Questo non è un film poliziesco.

L'autore vuole esprimere, attraverso immagini e suoni, l'incubo di un giovane uomo spinto dalla sua debolezza al furto, attività illecita per la quale non è tagliato.

Solamente questa avventura, attraverso sentieri sconosciuti, riunirà due anime che, senza di essa, non si sarebbero probabilmente mai conosciute."

L'arte del furto non si improvvisa, e il solitario Michael ne è attratto al punto da desiderare più di ogni altra cosa al mondo di apprenderne i segreti e divenire un abile borseggiatore. Attività che quasi considera come un'arte, e nei confronti della quale intende specializzarsi e divenire il migliore.

Non senza, tuttavia, sentirsi in colpa, al punto da non riuscire più ad avere il coraggio di andare a trovare l'anziana madre inerme, di cui si sta prendendo cura una giovane vicina di casa impietosita, e forse anche infatuata di Michael.

Robert Bresson, in questo suo quinto film che per molti rappresenta l'apice della propria arte di narratore cinematografico, dispone la narrazione in modo i fatti materiali e l'azione siano palesati con riprese molto abilmente giostrate su primi piani di mani e gesti furtivi, lasciando che tutto il travaglio emozionale, così come i sentimenti, vengano descritti dall'io narrante, ovvero la voce del protagonista Michael che commenta come fosse fuori campo, e che sostituisce il protagonista nella costruzione di un dettaglio introspettivo che diventa puntuale e coinvolgente, anche dinanzi ad un atteggiamento sempre poco meno che impassibile del cast, assoggettato ai rigori della nota tecnica di recitazione minimalista prediletta dall'autore.

Tratto ed adattato dall'opera di Dostoevskij “Delitto e castigo”, Diario di un ladro è un film pervaso di un pessimismo che, tuttavia, verso l'epilogo della vicenda, si apre ad uno sprazzo di via d'uscita, ove il sentimento, l'amore puro e disinteressato, laico ma non meno potente ed espiante, si rivelano le chiavi risolutrici per unasalvezza fino a poco prima ritenuta impossibile.

"Qualcosa illuminava il suo viso.

Oh Jeanne! ....per arrivare fino a te che strano cammino ho dovuto percorrere."

L'espiazione dopo la colpa.

Il crimine che eleva a qualcosa di assolutamente positivo e altrimenti non percepibile.

Un Bresson davvero al massimo della sua ispirazione e grandezza, in un film piccolo, piccolissimo ma nello stesso tempo immenso. 10/10

IL PROCESSO DI GIOVANNA D'ARCO (1962)

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Il processo di Giovanna d'Arco (1962): locandina

Impassibile, determinata a difendersi dall'accusa infamante di stregoneria che la vede destinata ad una fine atroce sopra una catasta di legna da ardere, una Giovanna D'Arco appena ragazza non urla né scalpita, ma ostenta una dignità impassibile, oltre che eroica, forte di una fede che la anima e sorregge, in grado di valicare ogni paura per la sofferenza fisica a cui sta andando incontro.

Il processo-farsa che la vede vittima di una condanna già pronunciata ed incoraggiata dalla presenza inglese a Rouen, e priva di alcuna difesa a suo favore, si concluderà con la sentenza già nota di condanna tristemente comune a quei tempi a carico di donne forti ed orgogliose in grado di imporsi alla supremazia maschilista diffusa e sovrana.

Robert Bresson impone al suo cast, come d'abitudine quasi totalmente costituito da non professionisti, una recitazione impassibile, quasi catatonica, quella stessa che caratterizza tutta la carriera e lo stile del maestro del minimalismo francese.

Il cineasta riesce nel compito arduo di creare una tensione palpabile che caratterizza le sessioni del processo che si susseguono, durante gli incessanti interrogatori a cui viene sottoposta l'accusata, rivelandosi molto meno fragile di quello che potrebbe essersi sospettato, e molto più motivata ed ispirata da una forza che, attraverso le sue risposte lucide, pare davvero provenire da una forza ultraterrena di natura divina.

E il suo film, lungo appena più di un'ora, riesce a risultare ipnotico, attanagliante nonostante la risolutezza all'inazione e alla fissità d'espressione che caratterizza il marchio d'autore del suo regista.

Florence Delay riesce a far trapelare nella figura della protagonista, tutta la forza e la determinazione, oltre che l'orgoglio, che hanno reso immortale un personaggio così forte e destinato ad una fine così crudele e prematura, regalandogli tuttavia una sorta di immortalità a cui il personaggio della santa cattolica sarà destinato, per la Francia e per il mondo intero, assurgendo ad uno dei personaggi femminili cardine dell'intera storia dell'umanità. 9/10

AU HASARD BALTHAZAR (1966)

locandina italiana 2016

Au hasard Balthazar (1966): locandina italiana 2016

La triste epopea di Balthazar, animale mite comprato da cucciolo al figlio di un proprietario terriero, poi affidato alla sua amica del cuore, che a sua volta lo rivende ad un ubriaco ma se lo ritrova dinanzi dopo svariate vicissitudini, diviene lo strumento perfetto per raccontarci, più che la storia del povero animale, quella del volgare e bieco contorno umano che lo circonda.

Da un racconto di Dostoevskij, Robert Bresson trae uno dei suoi film più rigorosi e perfetti, che se già negli anni '60 evocava la presenza in una società volgare, violenta e approfittatrice, negli anni attuali dei falsi-messia che predicano l'uguaglianza sociale dai loro piedistalli dorati e a prova di like, diviene l'emblema perfetto in cui identificare un vero, puro messaggero di giustizia divina che, in terra, non avrà mai luogo e che indentifica nello sguardo liquido e rassegnato del povero animale, un senso di disagio e di rassegnazione verso una razza umana dominante e prevaricatrice.

Un Messia che torna in terra e trova inadeguato materializzarsi in un essere umano che per quanto umile e diseredato, non riesce più a rappresentarlo. L'asino che ubbidisce paziente e soprattutto rassegnato, anche quando le richieste della classe sociale dominante si rivelano contraddittorie ed impraticabili, è più che mai la condizione che caratterizza oggi, più ancora che nei '60, molte vite di chi cerca di restare aggrappato ad un sistema economico-sociale frenetico ed incongruente che ormai tutti riteniamo insostenibile, ma che ci vede costretti ad aggrapparcisi per non restare isolati e ridotti ad una indigenza che annienta l'orgoglio e la volontà di opporsi.

Per questo, ora ancora più che alla sua uscita, Au hasard Balthazar è un capolavoro attuale che sconcerta e procura lancinanti dolori di natura emotiva nello spettatore in grado di coglierne l'infinito dilemma; dolori non meno lancinanti di quelli fisici a cui è sottoposto il povero animale. 10/10

MOUCHETTE - TUTTA LA VITA IN UNA NOTTE (1967)

Nadine Nortier

Mouchette - Tutta la vita in una notte (1967): Nadine Nortier

Il gran regista francese rappresenta in modo schietto e conciso, drammatico e senza pudori inutili, il calvario terreno di Mouchette, una sfortunata bambina costretta a crescere troppo in fretta tra i dolori di una famiglia troppo problematica per poterla amare, ed una vita di stenti così dura che merita di essere abbandonata. Un capolavoro.

Come in una parabola verghiana, le disgrazie e le sofferenze si accaniscono sempre nei confronti dei più poveri e dei più deboli, ovvero di coloro che più appaiono esposti alle incertezze di un futuro concretamente ancora più amaro e duro di quanto le prospettive possano far pensare.

Bresson filma utilizzando la consueta classicità e semplicità di rappresentazione, che acuisce il realismo nella descrizione di una realtà cruda e senza scampo, dominata dal pessimismo e dalla impossibilità quasi matematica, di certo inesorabile, a migliorare la propria condizione sociale acquisita dalla nascita.

Attorno alla giovane solo violenza e sopraffazione: e pure la falsa carità che la ragazza riceve il giorno della morte della madre, è in realtà una mossa studiata da chi offre un aiuto, per tentare di lavarsi la coscienza, ostentando un proprio atteggiamento materno più che altro a fruizione di chi guarda e passa, più che rivolto a colei che veramente necessità di un giovamento. 10/10

COSI' BELLA COSI' DOLCE (1969)

locandina

Così bella, così dolce (1969): locandina

"Lo sai Anna cosa significa soffrire? Quando si sta con una donna così bella, così dolce, uno si sente dilaniato, straziato…".
La fine è nota, ma le cause di un atto brutale e definitivo richiedono tempo e una certa lucidità per essere comprese.
Ancora una volta Robert Bresson si concentra a parlarci del dolore e del mal di vivere; della sofferenza che la vita troppe volte si porta dietro le esistenze singole condizionandole sino alla disperazione; dell'orgoglio che induce l'individuo giusto a sacrificarsi, piuttosto che ad adeguarsi a vivere in una condizione che solo apparentemente lo eleva al rango di individuo privilegiato.
Il grande cineasta francese riesce a fare tutto ciò ancora una volta in modo magistrale: rifuggendo anzitutto ogni vezzo recitativo ed ogni concessione al melodrammatico dai suoi attori, esigendo ancora una volta quello stile di interpretazione apparentemente fredda ed impassibile che circoscrive ogni figura.
Una tecnica che ha reso grande, se non immenso, il cinema di Bresson, e che riesce, probabilmente meglio di ogni altro modo o soluzione,  a rendere i tratti reali di una sofferenza che, per quanto votata allo scoramento, non riesce mai a far perdere dignità alla sua vittima, fino ad indurla ad una scelta che certo si dimostra sacrificale, ma altresì ancor più devastante per colui che vivrà perennemente nel rimorso di essersi fatto sfuggire per sempre quel dono rappresentato dalla sua stessa presenza.
Bresson utilizza, come di consueto, riprese a camera quasi sempre fissa, ma con tagli veloci che riescono a conferire ritmi anche forsennati ai movimenti dei suoi protagonisti, sotto uno sfondo che predilige i suoni ed i rumori di fondo anche sgradevoli, quasi a cercare di coinvolgere lo spettatore in quel turbine di sentimenti e sensazioni che accompagna la tribolazione dei personaggi della vicenda.
Nel cast, attori che Bresson sceglie ancora una volta tra nomi non professionisti, salvo poi ritrovarsi, per una volta, a figurare come talent scout della splendida futura diva Dominique Sanda, in quel momento incantevole diciottenne.
La giovane Sanda infatti era all'epoca una apprezzata modella di Vogue, contraddistinta dalla bellezza e dal candore degni di una figura celestiale, e, come tale, perfettamente consona, nelle apparenze, alla "femme douce" del titolo originale del film.
Ma il cineasta utilizza questi suoi tratti angelici proprio per anteporre questo candore esteriore ad un carattere risoluto e fiero, che impedisce a questo personaggio dolente ed orgoglioso di accettare di subire passivamente l'aridità d'atteggiamento di un marito apatico, incapace di comprendere per tempo l'importanza del sentimento e del rispetto necessari per portare avanti un matrimonio che non sia un semplice contratto di compravendita o di scambio con cui l'uomo si confronta professionalmente ogni giorno, con innegabile ma anche esecrabile successo. 10/10

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Quattro notti di un sognatore (1971): locandina

"-Lei lo ama più di ogni altra cosa al mondo! Più che se stessa!
-Forse....ma perché gli uomini hanno sempre qualcosa da nascondere?.... Perché non dire ciò che si ha nel cuore? ...Come se dicendolo si avesse paura di sciupare i propri sentimenti...
-Puó dipendere da tante ragioni..."
Liberamente tratto dal noto romanzo di Fedor Dostoevskij, Le notti bianche, Quattro notti di un sognatore fu presentato alla Quinzaine des Réalisateurs nel 1971.
Ancora una volta il cinema minimalista e senza fronzoli di Robert Bresson si concentra sui devasti sentimentali che certe omissioni o insensibilità procurano nell'animo di chi si lascia guidare unicamente da questi valori interiori.
E si schiera apertamente dalla parte dei vinti, che lottano per far valere la sincerità dei sentimenti che li animano e giustificano le loro eroiche missioni, arrivando a ritrovarsi vinti e beffati da una dura e ingiusta realtà dei fatti che premia sempre i furbi e i disonesti, sacrificando i puri di cuore.
Quattro giorni di un sognatore è stato un film ingiustamente trascurato da critica e pubblico, ma in realtà potentissimo nei sentimenti che si prefigge di rappresentare, e determinato e militante, nonostante il tono pacato e quasi inerte che, come sempre, caratterizza il modo di agire e di presentarsi dei protagonisti sacrificali e sacrificati che movimentano la storia.
"Marta...Marta...Marta....."
Marta è ormai diventata una vera e propria ossessione per il giovane Jacques, che non si perde d'animo e prosegue imperterrito, per quanto apparentemente tutt'altro che infervorato, la sua opera di convincimento riguardo alla scelta amorosa della giovane sua assistita e protetta.
Un cast composto anche stavolta da attori per caso: bei volti puri, vitrei e spesso apatici nonostante la pena che li caratterizza e anima, nello stile che da sempre il gran cineasta predilige e ricerca nelle sue opere.
Esaltando quella inesperienza che ce li pone dinanzi alla macchina da presa alla stregua di automi pietrificati dalle circostanze, che diventano i capisaldi di uno stile apparentemente un po' compassato ma in realtà fiero ed intransigente, quello stesso che ha reso memorabile il cinema e l'arte di un cineasta immenso ed universale come Bresson. 10/10

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Lancillotto e Ginevra (1974): locandina

"Colui che comparirà annunciato dal rumore dei suoi passi, morirà entro l'anno."

Dalla famosa opera del celebre scrittore e poeta medievale  Chretien de Troyes, Robert Bresson si proponeva di trasporre sullo schermo un ciclo di storie tratte da opere fantastiche famose, in cui epurare l'elemento fantastico, per attenersi ad un racconto il più possibile legato e condizionato dai sentimenti umani in un contesto storico realistico e il più possibile avulso dall'elemento fantastico.
Bresson ci stupisce con scene pulp degne di un film di genere, il cui il sangue scorre rumorosamente a seguito di duelli con spade che trafiggono ventri e decapitano teste, incuranti delle armature che difendono i fragili corpi umani.
L'azione, che mai si era vista così concentrata in un film del celebre autore, si consuma attraverso un montaggio frenetico che si fissa su singole riprese ravvicinate di sauri in fuga, di rumorose schermaglie metalliche di duelli, di morti violente e corpi dilaniati, e da un sonoro che privilegia le bizze dei cavalli impazziti dalla battaglia, e i rumori metallici dei cavalieri protetti da capo a piedi, eppure così vulnerabili ed esposti alla carneficina.
Il sentimento dell'amore per Bresson si traduce in desiderio da una parte incontrollabile, che tuttavia si tenta di gestire con un sentimento raziocinante, come una sorta di tentazione maligna o tendenziosa che svia da valori più universali come la lealtà al proprio sovrano e alla causa superiore.   
Attori quasi tutti poco noti e non professionisti, che servono a Bresson per rendere più eclatante la propria inesperienza dinanzi alla macchina da presa e che si traduce in personaggi scientemente statici e apparentemente freddi e schematici, come buratitni guidati ognuno dalla propria sorte e dal destino beffardo che li anima e condiziona. 8/10

"-Ma non ci sono dei limiti al non fare niente?

-Si, ma una volta che li superi, provi una voluttà straordinaria, inaudita."

Il minimalismo bressoniano, limpido e raggelante, raggiunge con questo film spietato il suo apice, il fulcro di uno sconforto che conduce il suo apatico protagonista dinanzi ad un percorso di passione laica il cui apice è la fine più inesorabile, spietata, e alla fine pure male interpretata dalle autorità e dalla stampa, superficiali ed inette come troppo stesso si confermano.

Ancora una volta l'antitesi tra santità laica e dannazione eterna diventa il tema trascinante che nasce da un malessere e da una denuncia che rimangono inascoltati, generando un'angoscia che diviene il presupposto per immolarsi inutilmente, interrompendo prima del tempo un percorso di vita ritenuto sprecato o senza senso.

Presentato con un certo scalpore alla Quinzaine des Réalisateurs del 30° Festival di Cannes, e poi al Festival di Berlino ove si aggiudicò l'Orso d'Argento, Il diavolo probabilmente di Robert Bresson trae il suo titolo da una citazione di un dialogo de I fratelli Karamazov di Dostoevskij, riadattata poi nel celebre dialogo che nel film vede coinvolti i passeggeri di un autobus di linea, che riflettono filosoficamente sulla presenza del diavolo nelle scelte cruciali che affronta il genere umano.

"-La verità è che qualcosa ci spinge contro quello che siamo.

-Bisogna starci, starci sempre… sennò passi per quello che protesta sempre.

-Ma chi è allora che si diverte a farsi beffe dell'umanità?

-Già, chi ci manovra sotto?

-Il diavolo, probabilmente…".

E questo dialogo bizzarro e sopra le righe, onirico quanto fatalista, si adatta assai tristemente e cupamente al nostro presente incerto ed in bilico più che mai, ove pochi potenti si prendono letteralmente beffe di una umanità mai così impotente e succube. 10/10

L'ARGENT (1983)

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L'argent (1983): locandina

Il denaro si dimostra capace di far divampare, nella persona che se ne fa soggiogare, i sentimenti più bestiali ed aberranti immaginabili.

Il tredicesimo ed ultimo film di Robert Bresson, si prefigge lo scopo di confutarne la tetra circostanza, utilizzando una vicenda corale che si incentra poco per volta su una figura sacrificale e dimostrativa di questa barbara involuzione, a sua volta capace di trasformarsi da mansueta persona qualunque facente parte attiva di una società, ad elemento simbolo del male che travia e si erge a figura rancorosa e vendicativa per eccellenza, andando oltre le singole movimentazioni dei suoi gesti.

Un potere diabolico e fuorviante, quello del denaro, che trasforma in belve inconsapevoli e fuori controllo gli sventurati che finiscono coinvolti e soggiogati dal suo ammaliante richiamo ingannatore.

Pessimista e duro, l'ultimo, notevole e per certi versi incompreso capolavoro di Bresson, la cui sceneggiatura trae spunto dal racconto di Tolstoj, Denaro falso, è la degna conclusione di una carriera di straordinario calore intrinseco.

Un percorso improntato, per gran parte, ad indagare le origini e l'evolversi dell'atto della colpa nell'essere umano, del relativo eventuale pentimento, nell'ambito di una realtà in cui l'uomo risulta sempre origine e causa del suo male.

E nel contesto di una società in cui la razza dominante vive divisa inesorabilmente tra carnefici e vittime, coinvolti entrambi in una perenne lotta per la sopravvivenza che supera, per l'origine senziente e spesso premeditata della sua genesi, l'azione ben più irrazionale di un regno animale, al contrario soggiogato dagli stimoli dell'istinto, e non dalla cattiveria che contraddistingue lo scientifico e spesso assai ragionato comportamento appannaggio della razza umana. 10/10

 

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