Appunti veloci e primo impatto sul cinema che ci precede, su quello che ci sfiora, o addirittura ci evita; film che attendiamo da tempo, quelli che speriamo di riuscire a vedere presto, ma pure quelli che, temiamo, non riusciremo mai a goderci, almeno in sala.
Proprio nell'anno in cui, grazie alla verve affilata degli scenografi dell'irriverente Don't look up, avevamo cominciato a riderci sopra (non senza smettere di inquietarci, a dirla proprio tutta...), all'eventualità che il nostro pianeta venisse sopraffatto e fatto a pezzi da un corpo celeste estraneo.
Stavolta però non è una meteora a farci sudare freddo, bensì il nostro caro ed unico satellite naturale, ovvero la Luna, che finisce fuori orbita per motivi inizialmente ignoti, iniziando a precipitare sul nostro pianeta.
La trama è così smielatamente folle che viene da rivalutare al massimo il già simpatico B-movie francese "L'ultimo giorno sulla terra", uscito un po' alla chetichella nelle sale di recente, sgangherato e povero, ma in fondo onesto e diretto col cuore.
Emmerich e la sua amata famiglia allargata tutta valori e sbrodolamenti, ne esce a pezzi, ed il film si candida a risultare come una delle più terrificanti bufale di fantascienza mai esistite, quasi in grado di farci rimpiangere i due Indipendence day… o quasi.
La luna "costruita" o colonizzata da una antica civiltà aliena poteva anche essere una base suggestiva per un film tosto che evitasse di sperperare metà del suo tempo in già viste e tediose situazioni da sicom familiare.
Nel cast spiccano le due star protagoniste, ovvero i belli e pimpanti Halle Berry e Patrick Wilson, davvero in forma entrambi e in grado di dimostrare almeno tre lustri in meno rispetto alle rispettive maturità anagrafiche, ma non per questo in grado di salvare qualcosa da questo agghiacciante capitolo di cinema moraleggiante e assurdamente catastrofico, ove è sufficiente giocare a fare il gioco degli eticamente
ineccepibili per assicurarsi la salvezza dalla tragedia apocalittica in atto. In sala il 17/03 VOTO 2/10
Una coppia di allevatori di pecore islandesi riesce a coronare il desiderio di essere genitori grazie ad un parto molto particolare, che li scompone un po', ma non più di tanto, e i cui dettagli è bene restino appannaggio della vicenda, che si aggrappa come può a questo unico dettaglio a sorpresa.
L'armonia che si crea in quel paesaggio bucolico islandese è perfetta, scalfita appena dall'irruzione improvvisa del fratello di lui, ex rocker ora in preda a crisi alcoliche e di identità. La resa dei conti è ben più risolutiva quando, all'improvviso e senza rispetto di alcun rigore narrativo, appare il soggetto a rivendicare ciò che gli appartiene.
Lamb, apprezzato sin in modo imbarazzante al Festival di Cannes 2021, ove ha ricevuto un premio tutto concepito per lui al Certain Regard, rientra appieno nella ammaliante ma anche tendenziosa schiera di cinema manipolatore ed estetizzanti che gioca su un unico trucchetto per portare avanti una storiella, questa volta davvero inaccettabile, oltre che insopportabile, sotto ogni punto di vista.
Certo il cinema in fondo è spesso inganno, manipolazione, reinterpretazione.
Ma qui in Lamb, tutto carrellate ad effetto e segreti soppesati troppo a lungo per poi essere ostentati quando ormai una parte della verità è svelata, il gioco stanca e stufa spesso, o comunque troppo presto. In sala il 31/03 VOTO 3/10
COMMEDIA
In tre atti, la storia di tre piccoli fallimenti, che fanno seguito a tre grandi delusioni affettive, disegnano alla perfezione lo stato d'animo di un giovane che ha perso l'illusione che lo spingeva a battersi per le proprie legittime aspirazioni, e che ora ha bisogno di togliersi di dosso tutti gli schermi illusori per predisporsi a vivere una vita vera e concreta che sia frutto di una propria solida decisione.
Ogni volta, con il sensibile e prolifico regista sudcoreano Hong Sang-soo ed il suo cinema piccolo, anzi piccolissimo a livello di mezzi e budget, ma immenso in termini di sensazioni, si scandagliano i turbamenti emotivi di chi emerge dalle sue storie intime, riuscendo a farci cogliere, da spettatori ormai avvinti alla sua poetica interiore, i segreti più intimi che animano le complesse personalità dei suoi personaggi apparentemente qualunque: uomini e donne che cercano di trovare, nella quotidianità che li circonda, una soddisfazione duratura attraverso i gesti e le iniziative che scelgono di intraprendere ognuno nel proprio cammino di vita; imparando a fidarsi di chi si merita la loro fiducia, ma anche a fare a meno di consigli più di facciata e spesso più frettolosi ed improvvisati, per proseguire in solitaria, guidati dalla sensibilità che sopraggiunge ogni volta che un bivio si pone innanzi al loro percorso, rendendoli più consapevoli della scelta da intraprendere, e anche più tenaci per far fronte alle inevitabili nuove incognite in agguato.
Questa è la magia sopraffina che Hong Sang-soo, meglio di ogni altro cineasta contemporaneo, sa comunicare attraverso le sue piccole e brevi ma vibranti ed intime ultime prove. VOTO 7/10
VOUS NE DÉSIREZ QUE MOI di Claire Simon
COMMEDIA
A volte rielaborando le sfaccettature di una storia d'amore, specie se atipica come quella intercorsa tra la nota scrittrice in età già piuttosto avanzata Marguerite Duras e il suo giovane amante Yann Andrea, che non ha mai negato di ritenersi omosessuale, può aiutare a tirare le fila di un rapporto in cui il ragazzo inizia a sentirsi vittima soccombente.
Questa possibilità viene offerta al giovane dalla solerte disposizione della vicina di casa e giornalista della Duras, Michèle Manceaux, a condurre questa indagine esplorativa.
Quasi una seduta psicanalitica in cui il giovane si apre con sincerità e piena disponibilità, e la sua interlocutrice lo ascolta, attentamente ed impassibilmente, interrompendolo raramente e solo per profferire considerazioni ed osservazioni precise e pertinenti.
Alternando recitazione e scambi tra i due straordinari interpreti Swann Arlaud e la solare e dolcissima Emmanuelle Devos, a materiale di repertorio ed interviste a cui si sottopose la celebre scrittrice, la brava regista Claire Simon dirige un film di soli dialoghi in cui la tensione che si crea per definire i contorni di una storia d'amore e di passione decisamente fuori dagli schemi, diventa quasi palpabile, senza per questo svilirsi ad incensare a tutti i costi la celebre scrittrice, che ne esce esattamente per quel che era, in un misto di genialità e prepotenza, sensibilità e spietatezza in grado di crearsi attorno il deserto, e farle restare accanto solo gli irriducibili in grado di reggere quella tensione che si crea nel cercare di viverle accanto senza annullarsi in carattere e personalità, oltre che in orgoglio.
La luce calda di un ambiente un pò claustrofobico ma in fondo anche accogliente come un ventre materno, aiuta intervistatore e paziente a entrare in una sintonia che non ammette ritrosie, reticenze o falsi pudori.
Tutti sentimenti che il film riesce a rendere con efficacia, portando lo spettatore a far parte di questa perfetta sintonia di ascolto.
VOTO 7/10
PARADIS SALE di Bertrand Mandico
FANTASTICO
In un futuro kitsch come la scenografia di un film di fantascienza anni '60 di Mario Bava, esiste un pianeta di sole donne, conosciuto come After Blue, in cui le abitanti sono state concepite con tecniche di riproduzione artificiale ed in cui esse vivono libere in una sorta di paradiso naturale, a dispetto di un pianeta Terra ormai semi-abbandonato perché devastato climaticamente.
Un giorno però l'adolescente ribelle e impulsiva Roxy, mentre si trova su una spiaggia sabbiosa assieme alla madre parrucchiera (la peluria delle abitanti del luogo cresce soprattutto su petto e spalle, richiedendo frequenti interventi di depilazione), libera per compassione una pericolosa killer chiamata Kate Bush (si proprio come la grande cantante britannica).
Il viaggio allicinato, tutto colori e riflessi di filtri ostentati sino al grottesco che Mandico fa intraprendere a madre e figlia (le attrici Elina Lowensohn, ormai icona di un certo cinema spudoratamente autoriale e l'ossigenata ed inquieta Paula Luna Breitenfelder), è un percorso con cui le due donne si interfacciano con paure e problematiche da cui, sino a quel momento, erano state tenute lontane proprio dalla natura incontaminata e paradisiaca di un luogo senza macchia e senza peccato.
Certo il film si dilunga sin troppo su incontri e scontri che rischiano di divenire sin troppo reiterati e ripetitivi, e non riesce a farsi carico di quella potenza stilistica che il film precedente sapeva invece gestire con cura, rendendo la vicenda sempre barocca e kitsch, ma anche appassionante con quello stile retrò che ricorda molta fantascienza di serie B anni '50, o certe rivisitazioni di questa ad opera di registi visionari alla Guy Madden.
Un film interessante e riuscito più sulla carta, che nella sua effettiva e piuttosto nebulosa e confusa concretezza.
VOTO 5/10
UNDERCOVER di Thierry de Peretti
THRILLER
Sul finire del 2015, la dogana francese scopre diverse tonnellate di cannabis nel cuore della capitale francese. Quello stesso giorno, un infiltrato di vecchia data dei narcotrafficanti, Hubert Antoine (Roschdy Zem), contatta un noto giovane reporter di Libération, Stéphane Vilner (Pio Mermai), per rivelargli importanti scoop al riguardo, al centro dei quali si staglia la figura di Jacques Billard (Vincent Lindon, fantastico come al solito nel suo destreggiarsi titubante ma inarrendevole a sostenere la liceità del proprio agire fuori dagli schemi), alto funzionario della polizia che, secondo il testimone, sarebbe il fulcro di un traffico organizzato proprio dai vertici dello stato.
Il giornalista non potrà che ostentare diffidenza nei riguardi dell'infido spione, ma, poco per volta, supportato da dati ampiamente verificati, cambierà opinione, fino ad addentrarsi attraverso i meandri più buoi ed inquietanti che si celano addentro ai vertici dello stato.
Al suo terzo lungometraggio dopo gli assai validi Apache (2013) e Una vita violenta (2017), il tenace regista corso Thierry de Peretti, firma con questo suo serrato Enquete sur un scandal d'Etat, un film nervoso, aspro e del tutto anti-spettacolare, ove grandi aperture di riprese sembrano preannunciare a spettacolari scene d'azione che poi quasi mai trovano riscontro, se non in una scena di regolamento dei conti in un quartiere di Marsiglia, ripreso da distante con stile simil-documentaristico, per conferire più realismo allo sviluppo di una indagine in grado di incrinare i poteri forti di una repubblica contaminata e schiava del compromesso.
Complesso ma al tempo stesso seducente, il film indaga su questioni scottanti in cui il desiderio di venire a capo della verità da parte del giornalista, sembra talvolta in balia di quell'infiltrato che non si sa mai che gioco stia conducendo.
VOTO 7/10
LA PANTHÈRE DES NEIGES di Marie Amiguet
DOCUMENTARIO
Nel suo film d'esordio la regista Marie Amiguet segue l'avventura di due uomini impegnati a immortalare, o quanto meno a confutarne l'esistenza, di uno degli animali più schivi e diffidenti dell'intera fauna tibetana: la quasi mitica pantera delle nevi, felino di grandi proporzioni astuto e assai abile nel mimetizzarsi con l'ambiente circostante.
Il percorso duro in cima all'altopiano tibetano, tra climi tutt'altro che confortevoli ed altezze da respiro soffocato, verrà condiviso tra il celebre fotografo naturalista Vincent Munier, che ritrasse un tempo un particolare del felino senza accorgersene, come sfondo di una sua fotografia diretta verso un altro raro animale locale, e un romanziere e geografo noto come Sylvain Tesson.
La Amiguet riprende e riesce a dare un taglio quasi narrativo alla missione, riuscendo a tradurre in immagini oneste e spesso emozionanti, il diario di un viaggio a due emozionante lungo territori puri e quasi del tutto incontaminati dal piede umano, in cui la natura riesce ancora ad avere l'ultima parola sui destini degli esseri viventi, e tra questi anche di un uomo che, per quanto attrezzato e informato, non può che piegarsi alla sacralità di un sistema perfetto ed austero come quello che regola la natura, i suoi processi imponderabili, le sue leggi severe, inflessibili e rigorose valide per tutti senza distinzione alcuna.
Un film che sa soppesare l'attesa che ha animato i due coraggiosi viaggiatori, e che regala emozioni genuine, che ridà dignità alle creature che ancora riescono a vivere al di là di ogni contaminazione umana, nella purezza di un regno che li costringe a vivere alla giornata, ma che regala loro dignità e spirito di libertà senza condizioni.
VOTO 7/10
LA VETTA DEGLI DEI di Patrick Imbert
ANIMAZIONE
La conquista del "tetto del mondo", rappresentato dalla cima dell'Everest con i suoi 8848 metri s.l.m., è una missione impossibile che ha costituito per molti alpinisti la sfida della vita, quella in grado di dare un senso a tutta un'esistenza.
Dagli anni '20 le spedizioni si sono ripetute instancabilmente.
La missione del 1924 a cura dei due alpinisti Mallory e Irvine si conclude tragicamente con la scomparsa dei due. Mallory fu ritrovato ben 75 anni dopo sulla via del ritorno, mentre il corpo di Irvine, che si dice portasse con sé una macchina fotografica a scopo documentativo, non fu mai ritrovato.
Da questo tragico mistero legato alla sorte di questi precursori dell'alpinismo estremo, si aggrappa la vicenda legata al bellissimo film di animazione francese di Patrick Imbert, che prende spunto anche da un famoso manga giapponese.
Il film, dalla storia molto coinvolgente, si avvale di un disegno piuttosto suggestivo, soprattutto per quanto riguarda le visioni montane e gli sfondi.
Un esempio di animazione adulta e matura, all'interno di uno script assai ben gestito, in cui non si prova mai nostalgia dell'immagine vera al posto del disegno.
"Arrampicarmi è l'unica cosa che mi faccia sentire vivo. Allora l'ho fatto. Fino alla fine. Senza rimpianti."
VOTO 7/10 visibile in Italia su NETFLIX
MAIGRET di Patrice Leconte
GIALLO
Un commissario piuttosto avanti con gli anni, sovrappeso e impegnato a farsi visitare dal proprio medico curante, preoccupato per la sua respirazione e per questo propenso a consigliare vivamente al suo paziente di rinunciare a fumare la sua amata pipa, si alterna sullo schermo al processo di “vestizione” attraverso cui una titubante e pudica bella ragazza si appresta a noleggiare un gran vestito da cerimonia per rendersi presentabile per apparire ad un evento mondano.
Una festa in pompa magna, all'apparire della quale alcuni tra gli invitati reagiscono furiosamente, come in preda al panico, decisi ad allontanare quella bella donna tutt'altro che gradita.
Sul fare della sera, una telefonata in ufficio blocca Maigret, impedendogli di far ritorno a casa. Una ragazza è stata trovata assassinata.
Sarà proprio quella ragazza, e per il celebre ed abile investigatore, inizierà una nuova inchiesta che farà luce su alcuni vizi del ceto nobiliare.
Dopo il ritorno sulle scene del celebre e celeberrimo detective Poirot, grazie all'opera e alla interpretazione di Kenneth Branagh nei suoi due magniloquenti quanto un po' troppo funambolici e artefatti remakes, non guasta erto rivedere al cinema il più famoso protagonista dei romanzi di Simenon, ovvero Maigret.
Patrice Leconte, famosissimo regista d'Oltralpe, si prende cura di farne rivivere le gesta, ma, al contrario di Branagh, predilige un tratto retrò del tutto antitetico con il lavoro di Branagh sul personaggio di Agatha Christie, e ci fornisce un clima intimo e compassato che può in un certo senso ricordare il personaggio televisivo reso famosissimo dall'interpretazione di Gino Cervi.
E Gerard Depardieu, pachidermico al punto da muoversi con una solennità che conferisce autorevolezza anche ad ogni banale dettaglio, risulta perfetto senza il bisogno di impegnarsi più di tanto, con la naturalezza di una corporatura che, se lo ostacola probabilmente nella vita reale, gli si addice nel migliore dei modi in questa circostanza.
Leconte dirige senza fronzoli un film “all'antica”, che si fa notare proprio per questa sua rinuncia ad ogni orpello, concentrandosi sull'indagine, tratta dal romanzo di Simemon intitolato proprio “Maigret e la giovane morta”, e sull'umanità di un commissario anziano, sposato, che riscopre il ruolo di padre drammaticamente abbandonato per tragiche vicissitudini familiari occorse.
VOTO 6/10 IN SALA IL 31/03
DRAMMATICO
Il turbamento dell'avvertire impulsi adulti restando costretti a convivere con il proprio corpo ancora non sviluppato.
E' ciò che sostanzialmente accade al piccolo Johnny, un bel bambino biondo di dieci anni con i capelli biondi e lunghi che talvolta lo fanno sembrare una bimba, anche se poi, osservandolo nei suoi atteggiamenti, non si intravedono particolari ostentazioni a comportamenti effeminati nel suo relazionarsi con gli altri.
La vita sentimentalmente un po' caotica della madre di Johnny, spinge il ragazzo a cercare negli amanti della donna, una figura che possa in qualche modo suppkire quella paterna da sempre latitante.
Ma presto ci accorgiamo anche noi che l'atteggiamento del ragazzo nei confronti degli spasimanti della genitrice, va ben al di là di una ricerca di un padre.
Petit Nature (questo il titolo del film originale, presentato con successo alla Settimana della Critica del Festival di Cannes 2021) evita questa inutile e sviante tentazione per concentrarsi seriamente e lucidamente sulla tematica intima del protagonista, affrontando il suo dilemma che, visto dalla parte dell'incolpevole interessato, si rivela nella sua purezza una comprensibile ricerca di identità che sopraggiunge forse un po' prematuramente a scombussolare l'esistenza di un ragazzo che non riesce a far quadrare il proprio ego con le sensazioni e gli stimoli che la natura stessa gli suggerisce con una forza sempre più incontrollata ma anche genuina, incontenibile come ogni atteggiamento istintivo che domina gli esseri viventi quando la natura li guida sotto forma di istinto.
Alla regia di quest'opera molto intima e sofferta troviamo l'attore francese Samuel Theis, alla sua seconda esperienza in questa veste, dopo aver diretto, assieme a Marie Amachoukeli e Claire Burger quel Party Girl che, proprio a Cannes 2014 fu insignito della Camera D'Or all'opera prima, dopo aver partecipato al Certain Regard.
Il film si fa forte di un cast coeso e convincente, in mezzo al quale non può che risaltare l'interpretazione del giovanissimo Aliocha Reinert nei panni dello scombussolato e devastato Johhny, mosso e vinto da istinti che non riesce a dominare, e che tuttavia non comprende come possano rivelarsi innaturali o compromettenti dinanzi ad una società che pare solo non comprenderlo o scandalizzarsi.
VOTO 7/10
UNCLENCHING THE FISTS di Kira Kovalenko
DRAMMATICO
Ada vive in Alania, Ossezia del Nord, nel Caucaso settentrionale, gestendo un piccolo negozio di alimentari e vivendo in una famiglia di soli uomini, essendo la madre morta tragicamente anni prima.
In famiglia la ragazza deve districarsi tra un padre che la vorrebbe relegata in casa per destinarla ad un matrimonio concordato, ed un fratello minore che è innamorato della sorella e non riesce a non farle avances imbarazzanti.
Ma Ada, se proprio deve desiderare uno dei suoi fratelli, si rivela legatissima al maggiore, che da mesi è fuggito dal giogo paterno per cercarsi una propria autonomia, e che, al suo rientro, innesca in quella famiglia inquieta, una miccia in grado di deflagrare in una fuga, nonostante le condizioni del severo padre dei tre si rivelino sempre più compromesse.
Sullo sfondo di questa vicenda di amore/odio familiari, un luogo geografico desolato ancora ferito dai ricordi di un feroce attentato terroristico ai danni di una scuola, che diviene il perno delle ossessioni che dividono un padre vedovo ed una figlia sopravvissuta ad un orrore che non potrà mai essere celato.
L'opera prima di Kira Kovalenko, che si è aggiudicata il Premio del Certain Regard al Festival di Cannes 2021, e che nella vita è la compagna di Kantemir Balgov ed è stata un'alunna della scuola di regia di Sokurov, è un film forte che ricorda un po' nel personaggio della tenace protagonista in cerca della sua indipendenza, proprio il bel film di Balagov Tesnota.
VOTO 7/10
SEASON OF THE DEVIL di Lav Diaz
MUSICAL
Nel 1977 le Filippine sono state funestate da milizie armate che si sono impadronite di varie regioni spadroneggiando, con azioni degne di un regime dittatoriale, ai danni della mite popolazione locale, in questo caso rappresentata da umili abitanti di un villaggio sommerso nella fitta boscaglia di una zona del sud dello stato.
I militari, capitanati da un controverso leader di nome Narciso, esercitano prepotenze ed angherie nei confronti della popolazione, tra cui distinguiamo una manciata di personaggi che tentano di ribellarsi a quella odiosa predominanza.
Tra costoro si distingue un giovane poeta (interpretato dall'attore di On the job di Erik Matti, Piolo Pascual, tra i protagonisti anche di A lullaby to the sorrowful mystery, sempre di Lav Diaz, girato nel 2016) che cerca invano la propria consorte, scomparsa nel nulla senza più dar notizie di sé.
Ancora una volta il cinema puro e senza calcoli di Lav Diaz utilizza la ripresa per denunciare soprusi e violenze che sono state perpetrate dal regime militare assolutista che ha dilaniato le Filippine negli anni '70, creando gruppi dissidenti di sinistra, decisi ad opporsi al colpo di stato perpetrato dalle forze militari.
E Diaz. sfruttando tempistiche come sempre piuttosto poco consone alla fruizione cinematografica da sala, si mantiene fedele ai suoi campi fissi e lunghi, alla sua macchina immobile o quasi che riprende contesti e situazioni entro le quali i protagonisti si muovono come fossero addentro ad un quadro che li costringe ad esprimersi in un contesto limitato ma sempre splendidamente costruito e fotografato nel solito funereo bianco e nero affascinante e pure inquietante.
Diaz tuttavia rivoluziona il proprio linguaggio, ricorrendo ad una recitazione che utilizza il canto come unico strumento di espressione.
Quasi un anti-musical, considerando che gli attori intonano canzoni con le loro accattivanti voci, ma senza alcun accompagnamento musicale, che sopraggiunge solo a fine film. Anzi più che canzoni, sono in realtà tratti di sceneggiatura scritti dallo stesso Diaz, che si esprimono in versione melodica, con un ritmo semplice ed una litania ricorrente.
Una sfida? un azzardo? Probabilmente entrambe le cose, per un film lungo circa quattro ore che indubbiamente bisogna affrontare con un certo impegno e una corretta predisposizione, e che richiede inevitabilmente un certo impegno.
Se l'apparato scenografico di una foresta che, nel cinema di Diaz, è un elemento insopprimibile ed un trait d'union essenziale di tutta la sua opera, si dimostra funzionale e affascinante non meno che nei capolavori del regista come Melancholia, From what is before o Death in the land of Encantos, è pur vero che questa ostentazione verso l'espressività canora appesantisce molto la narrazione, rendendo questo Season of the devil un'opera che difetta un po' di quella fascinazione mistica che i titoli sopra citati riuscivano a provocare nello spettatore, quasi ipnotizzato dalla potenza magnetica delle immagini interminabili dei suoi perenni campi fissi inarrestabili, qui un po' sopraffatti da questa ostentazione canterina.
VOTO 7/10 IN SALA....MAI PIÙ
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