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REGISTI CHE CONTANO NR. 15: ANDREA ARNOLD
di alan smithee
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Nata a Dartford, Regno Unito, nell'aprile del 1961, la regista e sceneggiatrice Andrea Arnold è stata attrice-bambina per un programma televisivo per l'infanzia all'inizio degli anni '80.
Inizia ad occuparsi di regia cinematografica all'inizio degli anni '90, trovando la fama con il suo terzo cortometraggio, l'apprezzato Wasp, girato nel 2003, che viene insignito del Premio Oscar come miglior cortometraggio alla cerimonia del 2005.
Da quel momento l'ascesa della regista è stata costante, e costellata di riconoscimenti.
Oltre a questo prestigioso Oscar, citiamo i ben tre Premi della Giuria, conquistati al Festival di Cannes del 2006 per Red Road, del 2009 per Fish Tank, e del 2016 per American Honey.
La originale trasposizione del romanzo Wuthering Heights ha ottenuto al Festival di Venezia del 2011 l'Osella D'Oro alla fotografia (Miglior contributo tecnico).
Fish Tank ha inoltre ottenuto il premio BAFTA per il miglior film britannico nel 2010.
Il cinema della Arnold è sempre costantemente legato al destino dei ceti popolari, che da sempre costituiscono la base delle storie raccontate dalla regista. Anche nel singolare adattamento che la Arnold ha tratto dal romanzo di Emily Bronte, ovvero Cime tempestose, il perno della vicenda si sposta, più che sugli intrecci narrativi in sé, su tematiche attuali come il razzismo e l'intolleranza, senza discostarsi di molto dall'analisi delle situazioni di quartiere sempre al centro dei film precedenti e successivi.
Fino ad arrivare a Cow, il documentario che ritrova la Arnold al Festival sulla Croisette, con cui la brava autrice affronta senza polemiche, ma centrando pienamente il cuore del problema, la tematica dello sfruttamento intensivo degli allevamenti.
Ecco qui di seguito, in ordine cronologico, tutta la carriera che ha caratterizzato sino ad oggi la brava autrice britannica.
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Un gesto di omissione semplice, ma deliberato, porta una coppia a concepire un nascituro che ponga le basi di una unione seria e duratura.

Purtroppo però, a seguito di un aborto causato, a gravidanza ormai quasi ultimata, dal distacco della placenta, la giovane partoriente si ritrova devastata, priva del suo bene più prezioso a lungo coltivato, con latte al seno pur senza un figlio da poter allattare. 

Pietrificata, ma senza essere in grado di piangere o disperarsi, la donna decide di non partecipare alla cerimonia di interramento della piccola salma e esce di casa senza meta.

Incontrerà un giovane ladro che, dopo averle offerto controvoglia una sigaretta, la porterà con sé in giro su un'auto rubata.

Si formerà una coppia improbabile e davvero male assortita, ove l'iniziale svogliata scintilla di attrazione erotica, lascerà presto spazio ad un più adeguato gioco di ruoli, decisamente più coerente con le circostanze divenute drammatiche, e con l'età anagrafica di quei due strambi frequentatori clandestini. 

E' forte e spiazzante il corto che costituisce l'esordio assoluto di Andrea Arnold nel mondo della regia cinematografica.

Quella della regista inglese è però una storia anche morbosa, ma che sa tradurre in messaggi dirompenti e persino disturbanti, ma straordinari, la necessità naturale e per questo fuori da ogni controllo di ritrovarsi madre come ruolo dovuto da un destino superiore, misterioso e supremo nello stesso tempo. 7/10

DOG (2001)

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In una periferia grigia ed anonima che potrebbe descrivere i connotati del contorno urbano della capitale londinese, una ragazza ancora adolescente esce furtivamente dalla camera per incontrare il suo ragazzo.

Vestita in minigonna decisamente troppo corta e sgargiante giacca di pelle rossa, la ragazza viene sgamata dalla madre, alla quale ha pure sottratto qualche spicciolo dalla borsa, ma riesce comunque a dileguarsi.

I due ragazzi si incontrano in una radura poco distante dai palazzoni popolari del grigio quartiere che li ospita.

Il giovane, distratto in altri pensieri, si preoccupa solo di fumare canne e pretende soldi dalla ragazza per potersene procurare.

Poco dopo i due si appartano in una sorta di discarica, ma quando iniziano un approccio sessuale tra lo squallore di una semi discarica clandestina, l'intervento di un bonario ma maldestro cane randagio che già prima la ragazza aveva notato sul suo cammino, compie un'azione istintiva che fa andare su tutte le furie il ragazzo e apre gli occhi alla ragazza sul tipo di persona che sta frequentando.

Il crudele e gratuito sacrificio dell'animale servirà pertanto a salvare almeno quella giovane vita di ragazza da un pericolo in agguato altrimenti sottovalutato.

La location è quella consona a tutta la filmografia di Loach, ed il disagio che traspare da un atto di barbarie perpetrato ai danni di un essere innocente, troverà nel gesto vergognoso, una utilità quasi miracolosa e lungimirante.

Quasi esistesse un Dio della ragione e della disperazione, che apre gli occhi a chi sa trarre utilità da un sacrificio tutto fuorché gratuito.

Forte, spiazzante, emblematico corto di una autrice che saprà farsi notare, apprezzare e premiare meritatamente. 6/10

WASP (2003)

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Una inquieta ragazza-madre di nome Zoe vive arrangiandosi per poter sfamare le quattro figlie a carico, tutte bambine, di cui una in età neonatale.

Già dalle prime scene, ci risulta piuttosto chiaro il temperamento fiero e impulsivo che muove la giovane donna: la scorgiamo infuriata al punto da aggredire una vicina coetanea, dopo che questa le ha insultato una delle figlie per un motivo certo di poco conto.

Dopo la rissa, la giovane madre ritorna a casa, ma quando intravede per strada un ex compagno, tornato a vivere nel quartiere e dal quale è ancora fortemente attratta, Zoe cerca di trovare tempo e modo di frequentarlo dandogli appuntamento in un pub. 

Ella si organizza, incurante o comunque poco preoccupata del fatto che le bambine abbiano fame, siano sporche e nervose di quella vita senza certezze e sicurezze.

Zoe infatti è terrorizzata che i vicini ficcanaso possano chiamare i servizi sociali e farle togliere la potestà sui figli. decide di portarsele appresso.

Per questo quella strana madre si vede costretta a lasciarle sole fuori del locale, con qualche sacchetto di patatine e un bicchiere di Coca Cola in tre. Sole e abbandonate, con la neonata che piange per la fame, le quattro bimbe cercheranno di cavarsela sperando che la loro genitrice torni a condurle in casa.

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Inaspettatamente però, un episodio di fatto sgradevole e pericoloso, ma di fatto anche lungimirante che vede entrare in scena il maldestro insetto del titolo, finirà per far tornare un minimo di senno nella sciagurata genitrice, riportandola alla concretezza dei fatti e, suo malgrado, inducendola verso un più adeguato ruolo di genitrice.

Andrea Arnold si trova perfettamente a suo agio, come dimostrerà anche nel suo bell'esordio nel lungometraggio avvenuto con l'incalzante e misterioso Red Road, nel contesto di un ceto popolare inquieto e rancoroso, infuocato di sentimenti e di voglia di sopravvivere, ma anche predisposto pericolosamente alla autodistruzione a costo di non rinunciare ad uno sfizio. 

Alla riuscita del film, premiato meritatamente con l'Oscar per il miglior cortometraggio, contribuisce non poco la indimenticabile costruzione del personaggio della protagonista Zoe, e la relativa ottima prestazione della protagonista, Natalie Press, qui al suo esordio assoluto. 7/10

RED ROAD (2006)

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".... Almeno lei è stata amata.... c'è gente che non ha avuto neanche quello..... Fanculo a tutto".

Jackie è una donna single che lavora presso una società di sorveglianza di un quartiere popolare di Glasgow.

In base alle mansioni che la occupano, tutta la sua giornata lavorativa si consuma davanti a decine di monitor che, attraverso differenti angolazioni, riprendono i vari angoli di un distretto cittadino.

Il suo compito consiste nell'allertare le forze dell'ordine o il pronto soccorso in caso di necessità.

Ma un giorno, l'occhio della donna, si fissa su un uomo da cui la donna non riesce più a distogliere lo sguardo.

Non contenta di osservarlo, lo seguirà fino ad entrare a far parte della sua vita, anche intima, fino a mettere in atto un proposito tutto suo che, nel corso della vicenda, verrà ampiamente chiarito, e che in questo contesto non è bene rivelare.

Red road, titolo che si riferisce al quartiere oggetto di scrupoloso controllo da parte della protagonista, rappresenta il notevole esordio in un lungometraggio per la talentuosa regista inglese Andrea Arnold, già premiata con l'Oscar per il miglior cortometraggio per il bellissimo ed intenso Wasp.

Questo suo esordio riesce a mescolare gli elementi del cinema sociale alla Loach, con tematiche legate al fenomeno della sorveglianza tramite telecamere, che proprio in quegli inizi del nuovo millennio cominciava a diffondersi, creando anche un certo senso di allarmismo per la mancanza di rispetto di una privacy che, a tutti gli effetti, pare messa da parte come in una sorta di società orwelliana, pur giustificata da esigenze di ordine e sicurezza pubblica. A tutto ciò si aggiunga un pizzico di thriller, che si annida nelle intenzioni tenute segrete e che animano le azioni della misteriosa ed enigmatica protagonista.

Parlando di protagonisti, alla riuscita del film, che si vide assegnato meritatamente il Premio della Giuria al 59° Festival di Cannes, contribuisce non poco la splendida prestazione dell'attrice protagonista, la esile e spigolosa Kate Dickie, perfetta nel calarsi nei panni di una donna tutta da scoprire nel dramma insormontabile che la dilania e la spinge a mettersi nei guai.

Ottimi anche i partners che la attorniano, a partire da Tony Curran, impegnato in un ruolo sulla carta apparentemente ingrato di personaggio infido che tuttavia sa trovare, quasi oltre il limite consentito, una umanità che pareva distante anni luce dai suoi connotati; e ancora l'indimenticabile ragazzo di Loach in Sweet Sixteen, ovvero Martin Compston, anche lui alle prese con un individuo dalle caratteristiche piuttosto contraddittorie, e per finire l'ottima Natalie Press, già vista nel bellissimo e super premiato Wasp.

Nel finale si rende indimenticabile la struggente "Love will tear us apart", nella versione cantata da Honeyroot. 8/10

FISH TANK (2009)

locandina

Fish Tank (2009): locandina

Nel Regno Unito appannaggio del popolo salariato che si arrabatta per arrivare a fine mese, seguiamo le vicissitudini quotidiane della bella ma scontrosa quindicenne Mia, amante della musica hip hop, ma asociale e per nulla avvezza a socializzare.

A casa le cose non vanno molto meglio, con una madre giovane e bella che tenta di rifarsi la vita con un prestante addetto alla sicurezza di un magazzino nelle adiacenze del quartiere popolare che ospita le due più una sorellina dal carattere fiero e dal turpiloquio ricorrente.

L'unico essere al quale Mia pare affezionarsi è una vecchia cavalla, custodita da due balordi fratelli a ridosso di un terreno invaso dai rifiuti.

Ma Mia è anche scorbuticamente attratta dall'affascinante nuovo fidanzato della madre, che riesce a sedurla senza correrle dietro, fino a che la situazione non finisca per esplodere in una fuga ed in un ritorno dell'uomo alla propria realtà familiare, ben diversa da quella descritta alla madre di Mia.

E quando la protagonista capirà che anche l'ammissione ad un provino di danza hip hop altro non è che un tranello per speculare sulla sua bella presenza, sarà il momento per Mia di maturare una via di fuga, come unica svolta per riuscire a togliersi di dosso quel destino scomodo ed ingrato che certo ella non si è scelta.

Giunta al suo secondo lungometraggio dopo il prestigioso premio della Giuria al 59° Festival di Cannes ottenuto con il notevole esordio di Red Road, Andrea Arnold torna in Concorso a Cannes (edizione 62) e stavolta viene nuovamente insignita del Premio della Giuria, oltre che, successivamente, del Premio BAFTA per il miglior film britannico.

Ed in affetti Fish Tank è un gran bel film che racconta con scioltezza e lasciando un largo spazio ai suoi protagonisti, le vicissitudini di chi si ritrova a vivere in una realtà sgradita che, cme quasi chiunque di noi, non ha certo potuto scegliersi, e che lo costringe a armarsi di una corazza che poi si ritrova ad ostentare anche nei confronti di chi, magari, cerca di agire in suo favore.

Katie Jarvis, Michael Fassbender

Fish Tank (2009): Katie Jarvis, Michael Fassbender

La Arnold cesella con cura le singole personalità che compongono un puzzle di derive umane alla ricerca di soddisfazioni anche effimere, ma vere, costrette a vivere in realtà che opprimono e costringono all'interno di barriere che paiono giganteschi acquari (da cui il titolo del film) che non prevedono cambi scenografici né di prospettive.

Bravissima la adolescente Kate Jarvis, scelta per impersonare la problematica e complessa Mia, ma pure la bella sorella-madre Kierston Wareing, conosciuta due anni prima per esser stata protagonista di In questo mondo libero di Ken Loach.

E poi c'è lui, il divo irlandese ma pure un po' tedesco Michael Fassbender, all'epoca attore e sex symbol in ascesa, perfetto per il ruolo enigmatico ed infido del conteso Connor.7/10

WUTHERING HEIGTHS (2011)

Locandina originale

Wuthering Heights (2011): Locandina originale

Andrea Arnold al terzo film dopo le tensioni sospese ed "antonioniane" della fantastica ed ermetica opera d'esordio "Red Road", dopo il dramma familiare contemporaneo a sfondo sociale in stile "loachano" del riuscitissimo e molto coinvolgente "Fish Tank", si rivela una delle più importanti ed innovative registe in attività e questa ennesima trasposizione del celebre romanzo di Emily Bronte si mette in luce come una delle più originali, innovative, coraggiose e moderne viste fino ad oggi sugli schermi cinematografici e televisivi.
La Arnold, che assieme alla sceneggiatrice Olivia Hetreed si è presa cura di riscrivere e semplificare l'ardita e complessa trama che costella di personaggi e capitoli una vicenda di amori impossibili e morti premature presente nell'unica famosa e coinvolgente opera di Emily Bronte, basa la sua storia su un canovaccio di dialoghi scarno ma alquanto efficace: una sceneggiatura volutamente povera e rigorosa che utilizza il dialogo come un arma di difesa dei protagonisti contro le asperità di una vita difficile e a salvaguardia dei pochi spiragli di speranza: la regista inglese elimina inoltre il lungo celebre flash-back che campeggia maestoso e ridondante (per quanto riuscitissimo) ad esempio in una delle più celebri ed apprezzate versioni, quella del '39 ad opera di William Wyler con Laurence Olivier e Merle Oberon ("Una voce nella tempesta", così suona lo sciocco ed inutile titolo italiano); stessa sorte in sottrazione per quel che riguarda gli artifici temporali, ricondotti un unico stacco decennale con cambio di protagonisti come unico mezzo per scandire un passaggio epocale altre volte più graduale o addolcito da una narrazione che, a differenza di questa, tende a coinvolgere emotivamente lo spettatore con un rutilante susseguirsi di avvenimenti; conclusione tragica in corrispondenza con la morte di Catherine, trascurando in tal modo tutta la concitata parte conclusiva del romanzo, evidentemente troppo al di fuori della storia che interessa la regista.
La narrazione della vicenda procede spigolosa, dura, a volte spietata, evirata il più possibile delle atmosfere barocche e tuttavia appassionati che trasudano dalle pagine della celebre scrittrice inglese.
Coerente con questa impostazione a dir poco moderna, nel suo contesto storico a suo modo rigoroso, spicca altresì la singolare ambientazione montana dove Thrushcross Grange è rappresentato non più come un castello di antichi fasti ora in rovina, bensì come un casone di pietra grezza di una famiglia di pastori semplici ma piuttosto benestanti. Attorno a questo gelido e piuttosto poco ospitale focolare si distende una valle che alterna vedute, paesaggi verdi e armoniosi a cime rocciose ed inospitali (le "wuthering heights" naturalmente), che nonostante la loro  asprezza costituiranno tuttavia il teatro naturale che renderà possibile il nascere di una storia d'amore impossibile, tormentata e decisamente sfortunata.
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Riprese ardite grazie a movimenti rapidi, scattanti e nervosi, tipici di una cinepresa leggera che così poco si adatta, almeno apparentemente, alla classicità della storia: questa tecnica coraggiosa ed innovativa finisce per essere tra gli elementi più potenti di una messa in scena che privilegia anche i primi piani dei bei volti genuini e schietti dei due protagonisti nelle due epoche in cui la storia si sviluppa.
Cime tempestose, soprattutto nella versione della Arnold, che tralascia voci misteriose, fantasmi e altre amenità barocche e troppo puerili per concentrarsi sul dramma anche sociale di un amore impossibile e scandaloso, punta dritto sugli ostacoli e sulle sventure nate dalle mille avversità di una vita che si prende gioco di intere esistenze, lasciando sempre spazio alla morte che, inevitabile e crudele, attende inesorabile di far visita ai superstiti togliendo loro quanto di più caro hanno conservato in fondo al proprio cuore.
Il linguaggio moderno e talvolta ostico della Arnold arricchisce e valorizza un romanzo spesso trasposto in modo troppo artificioso e costruito (anche nella gotica ma bella e forse più famosa versione di Wyler con Laurence Olivier già menzionata sopra), accentuando e risaltando in modo più realistico la risolutezza rabbiosa del giovane protagonista.

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I silenzi enigmatici ed inquietanti che separano gli individui che interagiscono in quel paesaggio che parla più di ogni altro personaggio, magari con la lingua impetuosa del vento e degli altri elementi scatenanti e furenti di una natura severa e poco conciliante, sono la rappresentazione dell’inevitabilità di un destino verghiano a cui è inutile opporsi, e che tuttavia vede il nostro indomito protagonista affrontare fino alla fine, anche quando rientra ricco e benestante da una sua fuga che, come accennavamo, non ci è dato conoscere nei dettagli; ma anche gli agi e l’esperienza si riveleranno inadeguati al raggiungimento dell’unico obiettivo importante e necessario per l’uomo: l'amore totale per una donna che il destino tiene sempre troppo lontana e inaccessibile.
Amore, morte, impossibilità di una soluzione almeno in parte positiva in questa vita di sofferenze e rinunce: temi cari a tutte le sorelle Bronte, che la Arnold rielabora coraggiosamente ed affronta con una passione e un trasporto che forse solo una sensibilità femminile è in grado di trasmettere con questa potenza e questa fierezza davvero inconsuete. 8/10

AMERICAN HONEY (2006)

locandina

American Honey (2016): locandina

Trasferta americana per la talentuosa regista inglese Andrea Arnold, che si trasferisce nelle aperte periferie degli States per seguire un gruppo di venditori poco più che maggiorenni, riuniti in una carovana dopo essere, più o meno tutti, scappati di casa, ed ingaggiati a cottimo per vendere abbonamenti a riviste ed altre inutili facezie, per arricchire una catena piramidale di intrallazzatori che si assicura l'esistenza poggiandosi sui più poveri e disperati, su chi non ha titoli di studio, professionalità, specializzazioni, ma solo il proprio corpo giovane e la propria spesso incauta imprudenza ed inettitudine. Madre di due bambini avuti da adolescente, la bella Star. vive di stenti rovistando tra i rifiuti, assieme ad un compagno strafatto spesso violento e sgradevole. Fuggita dall'uomo di nascosto, abbandona i due bambini alla madre durante una festa country e raggiunge il gruppo d ragazzi incontrati per caso in un centro commerciale, infatuata del più brillante tra di essi (Shia LaBeouf). I meccanismi di vendita dell'ingannevole mercanzia proposta, gli ingranaggi disonesti che attraggono giovani come i monelli verso Mangiafuoco ed il Paese dei Balocchi, vengono presto chiariti, così come gli incentivi o i sistemi punitivi con cui vengono presi provvedimenti nei confronti del venditore più improduttivo della settimana.

Il sogno americano del farsi da sé viene pertanto definitivamente demolito da un sistema qui portato all'eccesso, esasperato, contrapposto alla liberta teorica degli spazi aperti tutti a stelle e strisce. Questi meccanismi non sono altro, tecnicamente ed in via di principio, che qualcosa di non molto differente dagli apparentemente ghiotti incentivi che vengono posti davanti al venditore tipo di oggi, quello che deve produrre per la piramide economica vampira che lo sovrasta, applicando il mai logoro infausto sistema della carota dinanzi all'asino per indurlo a muoversi più celermente.

Shia LaBeouf, Sasha Lane

American Honey (2016): Shia LaBeouf, Sasha Lane

Peccato che la Arnold, altrove sempre bravissima, calibrata, mai verbosa ed interessante, se non proprio originale, svilisca molto questo ottimo e sempre attuale spunto di critica di una società impostata solo sulla vendita, spesso ingannevole, e sulla produttività esasperata e fine a se stessa, attorno ad una casistica di situazioni un po' troppo diluite e ripetute: ne esce fuori un ritratto certo allarmante di una gioventù vuota e senza qualità, che si crede libera solo per il fatto di non avere più  dinanzi la presenza castrante dei genitori, sostituiti da organizzazioni truffaldine che usano e gettano le proprie pedine senza scrupolo alcuno. Un ritratto di un'America senza carattere e senza qualità di fatto interessante, ma a conti fatti un po' perso in questo contesto a sprecarsi in situazioni ripetute e riproposte con troppa insistenza. Meglio allora lo scandaglio più lucido della medesima età (forse leggermente più giovane n effetti) fatta da Gus Van Sant nel suo Elephant e non solo. Più asciutta, più efficace e meno prolissa di questa. Tra gli attori coinvolti l'unico famoso risulta essere Shia LaBeouf, sguardo da folle, di chi non si riesce a capire se reciti o stia rappresentando ciò che è veramente, e per questo a mio avviso un gran bravo attore istintivo e imprevedibile, addentro al suo personaggio “perduto”, corrotto e corruttore a sua volta, vittima e portavoce di un sistema vizioso e perverso dove molti scendono in campo sino ad umiliarsi, e pochi guadagnano veramente.

Shia LaBeouf, Riley Keough

American Honey (2016): Shia LaBeouf, Riley Keough

La protagonista, Sasha Lane, interessante ed espressivo volto esordiente forte di una bellezza plausibile e di uno sguardo malinconico che sembra chiedere scusa quando si apre al sorriso, ha lo sguardo doloroso ed afflitto convincente ed il suo ruolo, forse meglio circoscritto, sarebbe stato ancora più potente e convincente di quanto ci appare effettivamente. Per la Arnold, cineasta tosta e sempre sul pezzo, questa prova si presenta come un film più riuscito nelle intenzioni che nei fatti: meno bello di ogni suo altro in precedenza, ma un lavoro che riesce comunque e nonostante a farsi ricordare, anche a costo di qualche situazione al limite del retorico, qualche animale di troppo, vagante in libertà, e una buona mezz'ora che sarebbe stato meglio riuscire a sforbiciare, guadagnando in ritmo e tensione narrativa. 6/10

COW (2021)

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Cow (2021): locandina

Una vacca partorisce il suo vitello, l'ultimo di chissà quanti nella sua vita. L'uomo le agevola la fatica della fuoriuscita, e giusto il tempo di vederselo e ripulirselo come insegna l'istinto materno che la fa agire, il piccolo le viene tolto per essere allevato a parte, allattato artificialmente, mentre lei continua a venir munta automaticamente, nutrita per produrre e vendere i frutti abbondanti del suo corpo di mammifero mastodontico. Il vitello viene marchiato, vaccinato, gli si estirpano le corna sul nascere, lo si vende dandogli una timida illusione di ritrovarsi in un ambiente naturale favorevole.

Chissà per quanto. Intanto la mucca si prepara ad una nuova gravidanza, appena il veterinario ne ha stabilizzato il ciclo, fino al giorno in cui si decide di vederla come carne da macello. Andrea Arnold, cineasta sensibile ed attenta, filma senza ricorrere a galvanizzare il pubblico con facili invettive, ma si mette dalla parte di chi si sacrifica: ovvero dei bovini, rendendo i due animali quasi due veri attori impegnati a rendere se stessi all'interno di un luogo di produzione e sfruttamento intensivo degli allevamenti.

Un film esemplare per ciò che riesce a cogliere, e maturo per il saper portate sulla sua (corretta) strada il pubblico senza intenti troppo furbamente tendenziosi volti a creare sgomento, inutili slanci animalisti, ma senza rinunciare a raccontare la triste verità dei fatti inerenti lo sfruttamento intensivo dei capi di bestiame. E il clima da lager che, anche quando l'essere umano è illuminato dalle migliori intenzioni, finisce per regnare laddove l'allevamento diviene implacabilmente intensivo. 7/10

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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