La cancellazione è arrivata a nemmeno un mese di distanza dalla messa in onda della prima stagione: il 10 dicembre 2021 Netflix ha deciso di non rinnovare per una seconda annata il live action di Cowboy Bebop, mettendo prematuramente la parola fine alle nuove vicende di Spike Spiegel e compagnia.
Subito si sono scatenati dibattiti tra sostenitori e numerosi detrattori sulla giustezza della decisione del colosso streaming; dal canto mio, devo riconoscere al progetto una mancanza d’identità abbastanza evidente. Fin dal suo annuncio e poi attraverso i trailer, era chiaro che la versione occidentale di Cowboy Bebop avesse deciso di non assumere una posizione chiara: in alcune parti è troppo simile all’originale per invogliare un conoscitore a seguirla, mentre quando cerca di distaccarsene lo fa in maniera poco convinta e superficiale. Sarebbe forse servito più coraggio per ottenere un migliore risultato, ma invece ci si è accontentati di restare nel mezzo. Però il problema più grande del progetto, a mio giudizio, non sta tanto in questo, bensì nell’aver mancato completamente l’atmosfera del capostipite, dimostrando di non essere riuscita a capire cosa avesse reso così notevole l’anime degli anni ‘90. Resta la speranza che qualche spettatore incuriosito decida di recuperare la serie originale, finalmente resa di nuovo disponibile da Netflix sul proprio catalogo.
Inoltre, per una singolare coincidenza il 1° dicembre è venuta a mancare, a soli 57 anni, Nobumoto Keiko, colonna portante della sceneggiatura di Cowboy Bebop nonché story editor del progetto e di tanti altri prestigiosi lavori (Tokyo Godfathers, Samurai Champloo). La sua scomparsa rattrista doppiamente, data l’età ancora giovane e l’indiscutibile talento. Ho perciò colto l’occasione per rispolverare i miei ricordi sull’opera; questo scritto nasce con l’intento di riflettere su alcuni temi principali di uno dei migliori prodotti del panorama animato.
Brevi cenni storici
La serie è considerata l’apice della carriera di Watanabe Shinichiro, oggi celebre regista e sceneggiatore nipponico, qui alla sua prima direzione dopo il lavoro di aiuto-regia nelle serie Macross Plus (1994 – 1995) e I cieli di Escaflowne (1996). L’opera venne prodotta dal celeberrimo Studio Sunrise – lo stesso di anime del calibro di Mobile Suit Gundam – con l’iniziale intento di usarla a fini commerciali in associazione con la ditta Bandai; il progetto a causa della propria ambiziosità prese poi una strada a sé stante, trasformandosi in una serie autonoma, che andò in onda tra il 1998 e il 1999.
Sarebbe però ingiusto limitare i meriti della riuscita di Cowboy Bebop al solo Watanabe: il risultato finale vide coinvolto un team creativo di primissimo livello, sostenuto ovviamente da una produzione di prestigio in termini di fondi stanziati. Alla sceneggiatura, oltre allo stesso Watanabe, erano annoverati Sato Dai (Eureka Seven, Ergo Proxy), Murai Sadayuki (Boogiepop Phantom, Perfect Blue) e soprattutto la già citata Nobumoto Keiko. Completavano il gruppo il character designer Kawamoto Toshihiro (co-fondatore dello Studio Bones), il mecha designer Yamane Kimitoshi (Gall Force, Bubblegum Crisis) e ultima – ma non certo per importanza – la geniale compositrice Kanno Yoko, un’autorità in fatto di colonne sonore. Come base di partenza per l’impostazione generale vennero presi a modello la serie di Lupin III nel design dei personaggi e Space Adventure Cobra (1982) del celebre Dezaki Osamu per alcuni spunti narrativi.
Il risultato, senza ancora entrare nel merito dei contenuti, è già sensazionale: regia e animazioni rasentano la perfezione. Il livello non cala mai per tutte le puntate, passando senza battere ciglio da scene riflessive ad altre più action accompagnate dai brani dei Seatbelts, il gruppo capitanato dalla Kanno, che realizza una soundtrack meritevole di un post a parte per qualità e capacità di integrazione con le varie sequenze. Paradossalmente, però, la serie non riscuote il successo sperato in Giappone, dove viene in prima istanza snobbata; al contrario Cowboy Bebop conquista nell’immediato il favore del pubblico occidentale, tanto da essere considerata a oggi un passo fondamentale per lo sdoganamento della cultura anime in paesi come gli Stati Uniti; proprio la serie live-action di Netflix sta a testimoniare la popolarità del prodotto, il cui fascino continua a perdurare a distanza di oltre vent’anni.
Una sintesi culturale
Basta la prima visione per far intuire i motivi di un simile riscontro: a partire dal titolo, Cowboy Bebop strizza l’occhio a un immaginario maggiormente vicino alla sensibilità occidentale piuttosto che a quella d’origine, anche se, come vedremo più avanti, in realtà le radici dell’opera di Watanabe sono ben affondate nel retroterra culturale giapponese.
Dicevamo, il titolo: il Bebop è uno stile di jazz nato negli anni ’40 a New York, caratterizzato da tempi di esecuzione molto veloci ed elaborate melodie; stando poi alle parole di autori della Beat Generation, come Kerouac o Burroughs, il termine “bebop” andava anche a indicare lo stile di vita ribelle e trasgressivo dei giovani di quegli anni, definiti per questo motivo “bopper”. Entrambe le accezioni riassumono bene il contenuto della serie, dal momento che i protagonisti sono dei cacciatori di taglie (Space Cowboy) sempre sul filo dell’illegalità, mentre il jazz è il genere musicale prevalente della colonna sonora. La stessa nomenclatura degli episodi segue un criterio ben preciso, molto affine a quanto espresso fin qui: il titolo di ogni episodio (denominato “Session”) è quasi sempre costituito dalla commistione tra un genere musicale e un termine legato all’astronomia, oppure dal nome di una canzone celebre (per esempio: Asteroid Blues, Jupiter Jazz, Bohemian Rapsody…).
I riferimenti alla cultura americana non si limitano a questo, ma vanno a costellare le trame degli episodi stessi, che vedono coinvolti elementi presi dai generi cinematografici (noir, fantascienza, thriller, horror, cyberpunk) e dalla letteratura, confluiti in un gioco citazionistico ottimamente realizzato. Nel suo continuo richiamo a forme e contenuti del passato, Cowboy Bebop può dirsi opera pienamente postmoderna, nonché una sorta di bilancio di fine secolo sul meglio della cultura pop occidentale, assimilata e rielaborata da un occhio orientale.
Con il nuovo millennio alle porte la serie decide di compiere un grande balzo all’indietro, recuperando un certo tipo di estetica decadente e malinconica in puro stile anni ’40, sostenuta da scelte narrative in controtendenza per i tempi: nel momento in cui la serialità animata andava sempre più verso il formato di puntate collegate da una storyline principale – si pensi a Neon Genesis Evangelion nel 1995 – le ventisei di Cowboy Bebop narrano vicende perlopiù autoconclusive, mentre la trama orizzontale si sviluppa in soli cinque episodi (NB: ho scelto di contare le due Session divise in due parti ciascuna come una singola) con i restanti dedicati all’approfondimento più o meno dettagliato delle storie dei protagonisti. Senza quest’ultimo elemento, potremmo dire di trovarci di fronte a un eterno presente, un tempo che puntualmente si azzera prima dell’inizio della puntata successiva, dove la precedente sembra non sia mai esistita.
Sospesi nel tempo
Fin dalle basi, dunque, Cowboy Bebop risponde a una impostazione precisa che fa il paio con il setting: la storia inizia nel 2071, decenni dopo un terribile incidente accaduto nel 2021, che ha causato il distacco di parte della Luna e la deriva di uno sciame di asteroidi, abbattutosi sulla Terra. Se non fosse per la presenza di astronavi, la colonizzazione del sistema solare da parte degli umani e alcune strumentazioni scientificamente evolute, niente farebbe pensare all’ambientazione futuristica; tutto appare fermo in un’indefinita realtà che oscilla tra metà ‘900 e gli anni ’80. Il legame con il passato è poi dichiarato non solo dalla cornice, ma anche dalle vicende dei quattro protagonisti, i cui irrisolti tornano ad alterarne il presente: la giovane hacker Edward nell’episodio 24 (Hard Luck Woman) rintraccia il padre, decidendo di abbandonare i compagni di viaggio per tornare a vivere con il genitore che credeva perduto; l’ex-poliziotto Jet Black nel bellissimo episodio 10 (Ganymede Elegy) si mette alla ricerca di Alisa, sua vecchia fiamma, con l’intenzione di farsi spiegare una volta per tutte il motivo della rottura del fidanzamento, avvenuta anni prima.
Per Faye Valentine il discorso è leggermente più articolato: l’affascinante ladra è stata vittima in gioventù di un così terribile incidente da costringere i medici a ibernarne il corpo in attesa di trovare una cura; purtroppo durante il suo sonno avviene la succitata catastrofe del 2021 e i dati anagrafici della ragazza vanno persi, a eccezione del nome di battesimo. Faye si risveglia anni dopo in una clinica di criogenesi, completamente senza ricordi. La peculiarità è che, sebbene la donna abbia settantasette anni, l’aspetto fisico è rimasto fermo all’età del congelamento. Nel corso della serie ella si imbatterà numerose volte in indizi che infine le faranno riacquistare la memoria.
Tra le suggestive scene a suo riguardo cito solo quella più congeniale alla riflessione che voglio fare: nell’episodio 18 (Speak like a child) Faye riceve tramite corriere una videocassetta Betamax, la quale contiene un filmato girato da lei medesima con delle amiche, presumibilmente all’epoca delle scuole superiori. La VHS avrebbe dovuto far parte di una capsula del tempo da riaprire anni più tardi; all’interno sono registrate scene di vita quotidiana, in cui la giovanissima Faye si rivolge con imbarazzo alla sé stessa del futuro. Al di là della sceneggiatura della sequenza – tanto asciutta nella scrittura quanto potente a livello emotivo – l’elemento più interessante è il confronto indiretto tra la versione adulta e adolescente della stessa persona: Faye non ricorda di aver girato il video, così come non riesce a capacitarsi di essere stata un tempo quella ragazzina allegra e spensierata che appare su schermo. Lo sguardo sul passato apre un abisso nel presente della donna, costringendola a confrontarsi con la parte di sé fino ad allora dimenticata.
Infine, a dover fare i conti con i propri fantasmi è il protagonista indiscusso di Cowboy Bebop: Spike Spiegel, il cui vissuto costituisce la spina dorsale della narrazione, racchiude in sé il messaggio dell’opera. Su di lui sono incentrati gli episodi più importanti e ben presto scopriamo la ragione del temperamento malinconico e taciturno: egli faceva parte di un’organizzazione criminale su Marte, il Red Dragon, impegnato in rischiose missioni da sicario; proprio durante una di queste perde l’occhio destro, poi sostituito con uno artificiale. In seguito, tradito dall’amico Vicious e abbandonato dalla donna che amava, Spike ha inscenato la sua morte per fuggire da una vita divenuta insostenibile.
Da quando si è messo in società con Jet, il cacciatore ancora innamorato vive alla ricerca di Julia – classica femme fatale da noir – con la quale vorrebbe l’ultimo confronto per scoprire se è possibile ricominciare assieme a lei una nuova vita. «Io sono un uomo già morto una volta» è la frase spesso ripetuta da Spike a conferma del proprio malessere interiore. Sempre restio a parlare di sé per gran parte della serie, nell’episodio finale (The Real Folk Blues) il personaggio si lascia andare a importanti confessioni nell’ultimo dialogo con Faye: «Guarda questi occhi: uno di loro è falso, perché l’ho perso in un incidente. Da allora ho visto il passato in un occhio e il presente nell’altro; ho creduto che quello che vedevo non fosse tutta la realtà. Pensavo di star guardando un sogno da cui non mi sarei mai svegliato. Prima che me ne accorgessi, il sogno era finito».
Fin da questi pochi richiami limitati ai personaggi principali, è evidente la volontà della serie di riflettere su temi molto profondi, dai risvolti esistenziali. È proprio qui che emerge la connessione stretta con la cultura nipponica, di cui Cowboy Bebop è inevitabilmente imbevuta. Va perciò aperta una parentesi importante.
La maledizione dell’Urashima Taro
Nella scena iniziale dell’episodio 18 Jet chiacchiera con Ed, raccontandogli una storia. Riporto le battute per poi andare ad approfondirle (NB: le linee di dialogo sono prese dalla traduzione inglese):
Jet: E così la tartaruga lo portò in un palazzo, chiamato Ryugu-jo, come ricompensa.
Ed: Ryugu-jo?
Jet: Si, in quel palazzo organizzarono una festa di benvenuto per lui. Donne bellissime e sontuosi banchetti, saraghi e alici nuotavano attorno e così egli trascorse il suo tempo come se fosse in un sogno.
Ed: Capisco…
Jet: Passarono dei giorni prima che se ne accorgesse e quando stava per tornare indietro, gli venne regalato il Tamatebako come ricordo.
Ed: Tamatebako? È buono da mangiare?
Jet: Non è cibo, è uno scrigno con un tesoro dentro.
Tale passaggio, all’apparenza secondario, contiene invece la principale chiave interpretativa della serie: Jet sta parlando della storia di Urashima Taro. Il racconto, famosissima leggenda della mitologia giapponese, narra quanto segue: Urashima Taro è un giovane dal cuore buono e generoso – secondo alcune versioni originario del villaggio di Mizunoye – nonché il pescatore più abile della sua provincia. Una sera, di ritorno verso casa, si imbatte in un gruppo di bambini che stanno tormentando una povera tartaruga; impietosito, Urashima decide di riscattare con del denaro l’animale, pur di sottrarlo alle angherie dei pestiferi ragazzini. Fatto ciò, il pescatore libera la tartaruga in mare, tornandosene soddisfatto a casa.
Alcuni giorni dopo, Urashima esce in mare aperto a pescare come suo solito. D’un tratto, una voce tra le onde lo distoglie dai pensieri e con stupore il giovane si accorge che a parlare è stata la tartaruga salvata tempo prima: ella è tornata per ringraziarlo e come ricompensa per la generosità dimostrata vuole condurlo in fondo al mare al Palazzo del Drago (Ryugu-jo), dimora di Watatsumi, spirito tutelare degli oceani. Il giovane viene munito di branchie dalla tartaruga, con cui giunge al meraviglioso castello dove ad accoglierlo ci sono una folla di pesci colorati e soprattutto la bella Otohime, principessa della reggia. Urashima rimane stupefatto dalla maestosità del luogo; dopo averlo visitato, viene accompagnato a un banchetto che lo vede come ospite d’onore. Il pescatore, pregato da Otohime, decide di restare al palazzo per un po’ di tempo, senza rendersi conto del suo scorrere.
Passano così tre anni e Urashima, sentendo nostalgia di casa, chiede alla principessa di poter tornare sulla terraferma al più presto. Otohime, seppur triste e sconsolata, esaudisce il desiderio del ragazzo, non prima però di avergli donato come ricordo uno Scrigno del tesoro (Tamatebako) con il seguente discorso di raccomandazione: «Qui dentro è stato messo il tempo che Urashima-san ha passato nel Ryugu-jo. Finché resterà chiuso, Urashima-san non invecchierà. Potrai essere sempre giovane come adesso. Ma se l’aprirai anche solo una volta, il tempo passato fino a ora ritornerà, quindi, non aprirlo mai». Il giovane arriva così in superficie, accompagnato dalla tartaruga, trovando una brutta sorpresa ad attenderlo: nonostante fossero passati solo tre anni, il suo villaggio era completamente cambiato; la casa dei genitori era scomparsa, così come quelle degli amici.
Mentre cammina per le strade alla ricerca di informazioni, Urashima incontra un anziano, che gli svela la sconvolgente verità: dalla sua scomparsa in mare erano passati la bellezza di 300 anni. Il ragazzo, afflitto per la morte di tutti i suoi conoscenti, tenta disperato l’ultima possibilità e apre la scatola, nella vana speranza di poter riavvolgere il tempo trascorso. Purtroppo la conclusione della storia non è di quelle felici: dallo scrigno esce del fumo bianco, nel quale si intravedono le immagini della principessa e del Palazzo insieme a quelle dei tre anni passati da Urashima in fondo al mare; mentre le osserva, il giovane sventurato è nuovamente felice. Ma ciò dura solo un attimo: alla fine, quando il fumo svanisce, il pescatore si ritrova di colpo vecchio e decrepito, con capelli e barba bianchi.
Se ripercorriamo la narrazione di Cowboy Bebop con occhio attento, ci accorgiamo che il mito viene richiamato più volte nella sceneggiatura delle puntate. Faccio alcuni esempi per capire.
Nell’episodio 6 (Sympathy for the Devil), i protagonisti si scontrano con Wen, bambino prodigio dell’armonica, rimasto esposto alla pioggia di asteroidi nell’incidente del 2021; come effetto collaterale il corpo del ragazzino ha smesso di invecchiare ed è immune a qualsiasi arma. Sul finale Spike realizzerà un proiettile con il materiale ricavato dal frammento di un meteorite, riuscendo a uccidere il criminale. Appena colpito, il corpo di Wen invecchia istantaneamente, tornando alla sua vera età: «Finalmente posso morire … mi sento così pesante… ma mi sento così bene ora…».
Nel celebre episodio 20 (Pierrot le Fou) Spike ingaggia una lotta all’ultimo sangue contro il pericoloso serial killer Mad Pierrot, il quale era stato in passato una cavia per esperimenti da parte di un laboratorio militare. Sfruttando un momento di debolezza dello psicopatico, Spike riesce a ferirlo superficialmente ma tanto basta a far regredire la mente del criminale a uno stadio infantile, deformazione psicologica causata dalle torture subite. Pierrot scoppia a piangere, creando un grottesco contrasto tra l’aspetto attempato e l’indole bambinesca.
Sottile è invece il richiamo dell’episodio 23 (Brain Scratch): Faye si infiltra in una setta capeggiata dal sedicente Dottor Londes, il cui scopo è quello di riuscire a digitalizzare la coscienza degli adepti. Dopo varie peripezie per salvare l’amica, Jet e Spike scoprono che Londes e la setta non sono mai esistiti; il cervello dietro l’associazione criminale è in realtà un ragazzo, caduto in coma diversi anni prima per un errore medico. La mente del giovane, rimasta congelata nel tempo, ha trovato il modo di eludere la propria condizione di immobilità entrando nella rete internet, con lo scopo di attirare all’interno sempre più persone, nella speranza di non rimanere sola: «Era tutto il sogno di un ragazzino… tutto quello che poteva fare era sognare».
Già solo tramite questi pochi richiami si può constatare che le puntate di Cowboy Bebop, scollegate dal punto di vista della continuità di trama, possiedono invece un filo conduttore tematico molto forte, riconducibile al mito dell’Urashima Taro. Volendo, potremmo persino dire che l’intera serie non è che una grande reinterpretazione in chiave postmoderna della leggenda, la cui simbologia viene traslata in un nuovo contesto. Del resto altri elementi concorrono a sostenere una simile tesi: il Bebop – questo il nome del velivolo spaziale che funge da casa per i protagonisti – rappresenta una sorta di luogo fuori dal tempo all’interno del quale stare al sicuro. È dunque abbastanza plausibile pensare che l’astronave sia allegoria del Ryugu-jo, dove la giovinezza di Urashima resta inalterata per secoli. Esattamente come il pescatore, quando i personaggi abbandonano la nave al fine di fronteggiare la dura realtà, essi spezzano la condizione di limbo che li ha preservati fino a quel momento, per subire le conseguenze del traumatico risveglio dal sogno. Ciò comporta un ineludibile confronto con il passato; mentre della risoluzione di Ed e Jet abbiamo già sommariamente parlato, mi soffermo un attimo sui destini degli altri due personaggi principali, migliori esemplificazioni del mito.
Nel già nominato episodio 24, Faye riacquista la memoria e ricorda il luogo in cui è nata. Si precipita allora sulla Terra, nel quartiere dove dovrebbe trovarsi la vecchia casa di famiglia; in una delle scene più struggenti dell’intera serie assistiamo alla triste scoperta della donna: tutto ciò che resta della dimora è solo un cumulo di macerie. Mentre in sottofondo scorrono le note di Call me Call me, Faye si fa largo tra le fondamenta, traccia a terra il perimetro di quello che un tempo era il suo letto e si sdraia alla luce del tramonto. La rivelazione assomiglia proprio alla medesima sperimentata da Urashima, una volta tornato al villaggio.
Infine, la lunga riflessione della serie trova la sua chiusura insieme alla vita di Spike: la morte dell’amata Julia gli dimostra che è impossibile fuggire dalle proprie responsabilità, perciò il cacciatore si prepara a uno scontro mortale contro Vicious. Cito nuovamente l’ultimo dialogo dell’episodio 26 con Faye, rientrata al Bebop dopo la fallimentare scoperta su di sé:
Faye: Ho ritrovato la mia memoria ma… non ne è uscito niente di buono. Non c’era nessun posto per me… questo era l’unico in cui potevo tornare! Ma ora… dove stai andando? Perché te ne devi andare? Mi stai dicendo che butterai via la tua vita?
Spike: Non andrò lì a morire. Sto andando là per vedere se sono realmente vivo.
Come un novello Urashima, Spike abbandona il Ryugu-jo, torna sulla Terra e uccide Vicious, capendo di non aver vissuto davvero: il suo spirito era morto molti anni prima, quando aveva scelto di fuggire. Per tutta la serie abbiamo seguito la graduale presa di coscienza di un giovane, che si scopre improvvisamente vecchio. Qualsiasi sogno, prima o poi è destinato a finire; è proprio Julia, in punto di morte, a confermarlo: «Questo è solo un sogno». Sarebbe facile interpretare il finale in senso negativo, ma il viso sereno di Spike che, ferito a morte, si accascia a terra pare testimoniare il contrario. Mentre l’immaginaria macchina da presa simula una carrellata verticale verso il cielo fin nello spazio, ci accompagnano le note e le significative parole della traccia finale, Blue.
L'estate infinita
Fin qui abbiamo osservato la notevole rilevanza del mito di Urashima Taro in Cowboy Bebop, ma a conclusione della (spero sensata) analisi, che ho cercato di condurre, mi preme sottolineare come questa storia sia una costante nell’animazione nipponica, riscontrabile in numerose produzioni ben precedenti a quella in esame. Risalgono agli anni ’80 i prodotti seriali e cinematografici, quasi sempre a opera di importanti autori, che usano l’allegoria del tempo congelato dell’Urashima per riflettere sulla società giapponese e in particolare sul comportamento del pubblico di patiti dell’animazione.
A partire dall’astronave SDF-1 in Macross, a opera di Kawamori Shoji (tra l’altro accreditato nella sceneggiatura dell’episodio 18 di Cowboy Bebop), fino al primo vero riferimento esplicito in Beautiful Dreamer di Oshii Mamoru, numerosi anime hanno spesso usato il mito per analizzare un fenomeno comune alla sottocultura di appassionati radicali, definiti con il termine dispregiativo di otaku: il totale rifiuto di crescere e integrarsi nella società giapponese, restando mentalmente infantili. Gli autori più accorti notarono come l’abbandono dell’adolescenza e dei comportamenti a essa riconducibili tardava a manifestarsi nella crescente fetta di spettatori di età sempre più alta e ciò li portò a interrogarsi sui motivi di un simile rifiuto delle responsabilità sociali. Era come se quella parte di pubblico fosse rimasta bloccata – congelata appunto – in un’eterna infanzia dal punto di vista psicologico, condizione riassunta dall’immagine molto efficace della cosiddetta “endless summer”, di cui si trova traccia a partire da Beautiful Dreamer. È questo ciò che porterà, per esempio, Anno Hideaki ad asserire molti anni dopo: «Non vedo adulti qui in Giappone. [...] Siamo un paese di bambini».
Non divago ulteriormente su un tema tanto articolato da non poter essere riassunto in così poche righe e non escludo di affrontare in futuro l'argomento magari parlando di altri prodotti. Tornando a noi, si può dire che i protagonisti di Cowboy Bebop vivano ciascuno la propria “estate infinita” fino al momento della presa di coscienza. Ecco dunque che anche la struttura episodica della narrazione assume un senso alla luce della questione appena esposta: per la maggior parte delle puntate lo status quo dei personaggi resta invariato rispetto alle precedenti, finché verso la fine non accade un evento che spezza l’immobilismo e li costringe a prendere una decisione tra crescere finalmente o continuare a rimandare l’inevitabile. Dopo essere scappato per tanto tempo, Spike decide di vendicare la morte di Julia e non fugge più («Non devo fuggire!» ripeteva giusto qualche anno prima Ikari Shinji) e va incontro alla fine dell’adolescenza, risvegliandosi dal sogno in modo definitivo. Un gesto questo che gli costerà la vita ma anche la liberazione da un peso ormai insostenibile: «You’re gonna carry that weight».
Per il momento mi fermo qui: questi sono solo alcuni dei contenuti più interessanti dell'opera, uno dei pochi capolavori dell'animazione giapponese anni '90. Se ancora siete tra quelli che non hanno avuto il piacere di vedere la serie, potrebbe essere il momento giusto per recuperarla; se siete invece di quelli che non hanno mai dato una possibilità alle serie animate orientali, sicuramente Cowboy Bebop è uno dei prodotti più indicati per avvicinarsi a un mondo altrimenti troppo vasto e non sempre eccelso in termini di qualità. Qualunque sia il punto di partenza, di sicuro sarà un’esperienza che non vi lascerà indifferenti.
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