Si vede che c’è “cinema” dietro a Un professore. C’è D’Alatri, c’è Petraglia, c’è Gassman e c’è la Pandolfi (e c’è pure Gabbani). E ad Alessandro Gassman gli si può solo voler bene. Innanzitutto perché ci ricorda sempre di più suo padre Vittorio, e in secondo luogo perché è un attore molto generoso e una persona autentica. Si può dire lo stesso di Claudia Pandolfi, attrice che almeno da Ovosodo (Virzì, 1997), per me film generazionale che ha segnato la nostra adolescenza, allieta con la sua presenza le produzioni in cui lavora. Intorno a loro furoreggiano nuove leve cinematografiche, più o meno debuttanti, ma sempre talmente giovani che fanno sperare in un futuro prezioso per il cinema italiano. Su tutti, i due attori protagonisti, Nicolas Maupas e Damiano Gavino. Il primo è un grande olmo ben piantato che fa della sua fisicità il primo veicolo attoriale; il secondo, bella maschera romanesca, sembra un personaggio uscito da un fumetto di Pazienza o Zerocalcare, con in più una naturalezza del gesto attoriale notevole il cui punto di forza è la voce.
Non è un mistero che Un professore è l’adattamento italiano di una celebre serie tielevisiva spagnola, o meglio catalana, Merlì (che avevo a suo tempo commentato qui), scritta da Héctor Lozano e diretta da Eduard Cortés tra il 2015 e il 2018 per un totale di tre stagioni e 40 episodi. Mentre tra il 2019 e il 2021 si sviluppano le due stagioni e i 16 episodi dello spin-off di Merlì, ovvero, Merlì: Sapere Aude, sempre scritta da Héctor Lozano, ma diretta da Menna Fité. Una serie unica nel suo genere, non solo il teen drama, ma precisamente il filone school drama, o per dirla alla spagnola, serie de instituto. Una serie che conta con la grandezza attoriale di Francesc Orella nel ruolo del ruvido e anticonformista professore di filosofia, Merlì Bergeron, e sul notevole impatto che due giovani attori catalani hanno avuto sugli spettatori vestendo i panni di Bruno Bergeron (il figlio del professore) e del già iconico “puto” Pol Rubio, l’alunno problematico che invece darà tante soddisfazioni al professore. Un personaggio, quest’ultimo, così ben riuscito, così accattivante e nuovo nella sua figurazione, che è diventato immediatamente mitico e iconico allo stesso tempo, tanto da meritarsi uno spin off tutto suo ambientato all’università.
A interpretare con grande successo di pubblico e critica i due giovani studenti e amanti sono David Solans (Bruno) e Carlos Cuevas (Pol), attore davvero talentuoso che si è già ritagliato molto spazio nel cinema e nella serialità spagnoli. Nella versione italiana, invece, ad interpretare il figlio del professore di filosofia c’è Nicolas Maupas, mentre el “puto” Pol Rubio è interpretato da Damiano Gavino. E al netto della bravura dei giovani attori, di Gassman e dell’intero cast tecnico e artistico e della riuscita del prodotto finale molto apprezzato anche in Italia da pubblico e critica, non son poche le differenze con la serie spagnola originale.
Merlì è stata una serie molto più audace in forma e contenuto, rispetto alla sua versione italiana. Le scappatelle di Merlì sono molto più osate e carnali di quelle della sua versione italiana, il Balestra di Gassman; fin dalla sua prima lezione Merlì dice ai suoi alunni che la filosofia gli deve provocare un’erezione e tutto il linguaggio sporco e allusivo che innerva le “merlinate” della serie spagnola, viene brutalmente pulito per la prima serata su RaiUno; la tensione prima omoerotica e poi palesemente omosessuale tra i due compagni di scuola è risolta con molta più audacia nella versione originale che in quella italiana. Purtroppo in Italia è ancora difficile avere totale libertà su argomenti che coinvolgono la sfera sessuale e che vengono sempre ricollegati anche a speculazioni politiche ed ideologiche; tutto il segmento narrativo dedicato all’alunno hikikomori che non esce mai di casa è molto più articolato e drammatico, così come sono più sviluppati i personaggi di Gerard/Aureliano e di Joan/Giulio. Sembra che nell’adattamento italiano sia prevalsa l’idea di adeguarlo più al canale emittente, familista e buonista, che alla reale versione originale.
Il risultato è pur sempre buono, anzi, è un’ottima serie tv che, pur non toccando le vette di SKAM Italia (Bessegato, 2018), sa parlare la lingua dei più giovani, sa raccontarli senza stereotipi o riducendo tutto a tipizzazioni lontane anni luce dalla realtà; una serie che sa realmente emozionare e intrattenere, forse perché realizzata più con sguardo cinematografico che televisivo. Una serie che, anche per un professore come me, risulta reale, concreta, tanto da pungolare le corde emotive dello spettatore grazie alla sola bellezza realista della storia. Una serie quindi buona, se non ottima, ma non possiamo ancora urlare al capolavoro. Chissà se il cast tecnico e artistico hanno visto tutte e tre le stagioni di Merlì e le due di Merlì: Sapere Aude, perché così sanno esattamente dove devono andare a parare.
Anche la seconda stagione, pur ormai lontana dall’originale spagnola – più audace e libera – si conferma come una delle fiction iconiche di questa felice stagione della serialità italiana “maggiorenne”, per dirla come Tullio Kezich, che da SKAM Italia (2018-in corso) ad oggi ha finalmente alzato il livello non solo delle fattura estetica e visiva, ma ha alzato il livello anche dei temi, dei motivi, delle figure e soprattutto della narrazione cine-televisiva, questa grande sconosciuta a molte produzioni italiane. Una qualità che qui è di molto aiutata dalla serie originale, Merlí (Héctor Lozano, 2015-2018), ma che una volta presa la sua strada e la sua identità, si basa in gran parte sulla naturale e disinvolta bravura degli attori. Da un lato i più giovani, vere e proprie bombe attoriali, dall’altro gli adulti che con esperienza e proprio background non hanno più bisogno di presentazioni. Diciamola tutta: se è pur vero che, forse perché è una fiction RAI, la recitazione è per lo più affettata e diretta ad un pubblico poco esigente, che forse preferisce una comunicazione (quindi una recitazione) più teatrale e macchiettistica, ci sono comunque interpretazioni così sfacciatamente naturali, istintive e coinvolgenti che non si può restare in silenzio e ben accomodati davanti al televisore, bensì sussultare e commuoversi sinceramente, ridere complici di ciò che fanno tanto i ragazzi come gli adulti, perché la loro è anche la nostra storia, la nostra storia di ragazzi, studenti, padri, madri, amanti e professori.
Su tutti è Damiano Gavino a impressionare per bravura e istintività. Sentirlo parlare in quel bellissimo romanesco, vederlo muoversi in scena, vedere come interagisce fisicamente con gli altri attori e con gli spazi e gli oggetti di scena, insomma, vedere come il suo personaggio si relaziona al mondo finzionale per attraversare la quarta parete e sedersi in fianco a noi è un vero spettacolo. Al contrario Nicolas Maupas, di bellissima presenza, è un attore più sottrattivo, più chiuso e introspettivo, più da “viso” che da “corpo”, come Gavino, e di conseguenza vive di più nella dimensione dell’invisibile piuttosto che del visibile, del non detto piuttosto che del detto; vive più nell’ombra del suo personaggio che alla luce. Qualcuno potrebbe tacciarlo di legnosità, a giusta ragione, ma è la sua cifra stilistica e va apprezzata così com’è, anzi, è perfetta nel dualismo anche manicheo tra il suo personaggio e quello di Gavino con cui trascina un’ambigua, profonda, elettrica e tesa amicizia sincera, virile e irrisolta. Tant’è che anche i fans più accaniti reclamano vendetta dalla piazza social perché continui la loro storia d’amore avviata in prima stagione. D’amore? E se fosse solo sesso? Solo puro istinto?
Anche Gassman, da sempre gigionesco e poco misurato nella recitazione – a parte qualche felicissimo caso come Non odiare (2020) e Il mio nome è vendetta (2022) – qui continua sicuro sui binari dell’istrionismo. Un po’ è a teatro e un po’ e al cinema, un po’ esce dalle righe della recitazione naturalistica e un po’ concentra tutto sul viso, sull’espressione e sui piccoli gesti strettamente cinematografici – quelli legati alla mimica facciale e quelli che interagiscono con il volto e quindi con la macchina da presa. Differentemente, Claudia Pandolfi, che la mia generazione ama e amerà sempre, è un’attrice viscerale, fisica, ma misurata, teatrale sì, ma con rigore cinematografico – ovvero sta stare dentro il quadro e ai suoi spazi e non esagera. Dato che si trova davvero a suo agio tra i più giovani, potremmo dire, ironicamente, che dove c’è un teen drama c’è Claudia Pandolfi. Soltanto nell’arco di un anno è stata la colonna portante di Un professore, Un’estate fa (2023) e Noi siamo leggenda (2023). Il rammarico è che le si sono appiccicati un po’ troppo questi ruoli da donna tormentata, madre ingombrante o totalmente assente, amante problematica o completamente sfuggente, solitaria, forte, debole, insomma un frullato di opposti tutti estremi che oggi sono il suo linguaggio performativo preferito. Ma sono convinto che può interpretare ruoli diversi, più stabili, più tosti, con uguale risultato perché Claudia Pandolfi è e resterà la “Cortellesi” drammatica, l’attrice popolare, amata, ma per la sua inclinazione al drammatico.
Il resto del cast, da Cuomo in giù, merita davvero gli applausi per l’onestà con cui mettono in scena i propri personaggi, pur con i limiti della sceneggiatura di Petraglia che nella seconda stagione gioca troppo di rimessa e poco di originalità. Come per esempio la love story tra la ragazza in carrozzina e il ragazzo di colore arrivato sui barconi che è troppo stereotipata e forzata. Piace, ne applaudiamo lo sviluppo, ma è una forzatura.
Non ho amato per nulla l’intrusione del subplot alla “marefuori”: non credo ci fosse bisogno di cavalcare il successo della serie tv campione di ascolti e critica per ricercare le novità della seconda stagione, bastava ispirarsi all’originale oppure a SKAM Italia, Summertime (2020-2022) o Prisma (2022-in corso) dove abbondano temi e motivi moderni e accattivanti. Sicuramente l’arrivo di Domenico Cuomo nella linea narrativa principale ha fatto bene, ma credo che il prison drama in Un professore sia fuori luogo.
In ultimo, come già detto, dalla rete arrivano i forconi degli appasionati che rivogliono la storia d’amore o come la si voglia chiamare – oggigiorno possiamo permetterci interpretazioni più complesse e progressiste di vecchi miti romantici – tra Maupas e Damiano che è anche il subplot principale immediatamente dopo quello di Gassman, titolare della serie. Anche l’originale dopotutto si concentra sul professore di filosofia con i suoi problemi, il suo libertinaggio, le sue imperfezioni, le sue stravaganze – nell’originale le “merlinate” – fino alla malattia, scegliendo però strade più audaci e meno accomodanti.
Difatti, la ri-normalizzazione o addirittura la “guarigione” del personaggio di Gavino rispetto quello di Maupas che inizia una storia di amore smisurato con il giovane galeotto interpretato da Domenico Cuomo, quasi amore e morte alla Leslie Fiedler, non solo si allontana dall’intuizione intelligente e anticonformista dell’originale, ma tradisce le aspettative del pubblico e si allontana pure dalla realtà e dal buon senso. È vero che nella vita, ad una certa età, le passioni sono mutevoli, estreme e contraddittorie, ma un cambio così repentino in una fiction che per definizione deve sintetizzare il racconto, sembra troppo. Voglio però difendere la sceneggiatura e non pensare a un diktat della produzione pretina della RAI e credere che Petraglia e gli altri sceneggiatori abbiano solo voluto giocare con il tempo, creando un momento di flessione e tensione – non dimentichiamoci dell’evidente gelosia di Gavino quando Maupas si dedica totalmente a Cuomo – in questa seconda stagione per poi ritornare di colpo, così come potrebbe accadere nella realtà ad un adolescente di oggi, alla passione incontrollata di quella bellissima e incasinata età.
A conferma di questa mia riflessione aggiungo le parole di Gassman ai fan che criticano la scelta in sede di sceneggiatura: «Capisco il vostro pensiero […], ma le storie, come la vita, prendono strade sempre diverse e inaspettate, si cambia, ci si riscopre e tutto procede. Il mio consiglio è quello di accettare quello che viene a trovarci dentro qualcosa che ci assomigli, o che ci piacerebbe tanto. Vi voglio bene. Prof. Dante».
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