Diabolik torna al cinema dopo cinquantatre lunghi anni.
La versione originale di Mario Bava, esplosiva, fantasmagorica per quei tempi, e pure altamente erotica, tanto da apparire sin sfacciata rispetto alla compostezza quasi compulsiva e un po' bigotta del ladro nero spietato, organizzato ed infallibile, ma a suo modo quasi riservato nel suo muoversi in punta di piedi come un felino, che traspare nelle storie delle sorelle Giussani, ci presentava un cattivo che assurge al ruolo di eroe proiettato in un presente che guarda verso un futuro fantastico ed avveniristico, eccessivo e sclerato, ma irresistibile.
L'adattamento dei Manetti Bros., all'opposto, volge lo sguardo ad un passato che pare una vecchia cartolina ritoccata e laccata, attraverso un ingranaggio narrativo che stenta persino a decollare e si prende tutto il tempo necessario per fare conoscere e creare il giusto feeling che regge la coppia criminale più nota del fumetto italiano.
Cosa che invece Bava tralasciava completamente, per passare subito all'azione più sfrenata, la stessa che i due fratelli registi quasi ripudiano.
Ecco dunque, da una parte, il Diabolik degli eccessi kitch e dalla risata sadica di Bava, cui si contrappone quello riservato, quasi autistico e bloccato dei due fratelli registi romani, ma solo in parte un po' scosso e ravvivato dall'energia di un Manuel Agnelli che si occupa del brano musicale, molto accattivante, che fa da colonna sonora a questo ultimo adattamento.
E l'antitesi crea spesso curiosità e stimola il piacere del confronto.
Ma non è affatto male, questo Diabolik così adulto, un po' lento, persino un po' statico come personalmente, da assiduo lettore ragazzino dei fumetti Marvel, ho sempre trovato il fumetto delle Giussani, trattandolo pur sempre col massimo rispetto.
Un adattamento che pare farsi forza grazie ad elementi che, a prima impressione, potrebbero sembrare solo negativi, ma che, amalgamati assieme, rendono il film una chicca interessante, retrò e persino un po' bolsa se si pensa alla resa per nulla accidentale degli attori, tutti scientemente dimessi e controllati, sin pedanti nell'apparire e nell'interagire con la storia, ma anche cosi fantasticamente demodé, quasi a contribuire a formare tutti assieme i tasselli compositi di un irresistibile e un po' eccentrico oggetto di modernariato che non si può non avere in casa, salvo poi ritrovarsi a notare che stona con ogni altro angolo o contesto della casa.
E la coppia di ladri resa da Marinelli+Leone, per quanto carina e composta in modo impeccabile, nulla può avere a che spartire con l'eros travolgente di John Phillip Law+Marisa Mell. Stessa identica impressione si riversa sul confronto tra uno scattante e nervoso Ginko di Michel Piccoli del film di Bava, e quello riflessivo, a tratti quasi catatonico e un po' filosofo del poliziotto tradotto da Valerio Mastandrea in questo ultimo film.
Ma anche questo finisce per non risultare affatto un demerito del film dei Manetti, bensì, al contrario, quasi un atto di sconsiderato coraggio di due cineasti che osano molto, forse troppo, facendo rivivere nel modo più corretto, anche se cinematograficamente meno esaltante, le gesta di un fumetto inevitabilmente ed incolpevolmente demodé e figlio di un'epoca che ormai vive di ricordi e fotografie scolorite dal tempo a cui non può non volersi bene.
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