The Man from Nowhere, Lee Jeong-beom, 2010
Il nostro Lee Jeong-beom dopo la laurea alla Korea National University of Arts inizia a scrivere e dirigere una serie di cortometraggi per poi approdare al suo primo lungometraggio nel 2006 con il sorprendente Cruel Winter Blues, un crime movie crepuscolare che trasuda un certo amore verso il cinema del grandissimo Takeshi Kitano. Amore che molto probabilmente doveva almeno sulla carta ritornare nel suo secondo film The man from nowhere, laddove il protagonista doveva essere una sorta di ex-agente segreto sulla sessantina poi però così dal nulla il mega divo Won Bin, personaggio emblematico che dosa con il contagocce quando partecipare ad un film, s’interessa del copiane ed ecco che Lee Jeong-beom cambia tutto andando a rivoluzionare il cinema aciotn contemporaneo ispirando un numero clamoroso di opere (dall’indonesiano The Raid a John Wick).
The Man from Nowhere rientra appieno nella categoria dei cosiddetti “noir alla coreana”, film cupi ed estremamente violenti ma il nostro Lee Jeong-beom alza notevolmente l’asticella regalandoci dei combattimenti monumentali ripresi in maniera eccelsa, a volta assai contorta ma sempre leggibili.
Ad ogni modo il film forse poteva esplorare maggiormente il passato del protagonista ma poco importa poiché anche contenutisticamente il tutto rimane fedele ad una certa idea di cinema gi presente nel suo esordio ma lo vedremo dopo.
Partiamo subito dall’inizio.
Schermo nero, improvvisamente un uomo si accende una sigaretta e noi vediamo il tutto mediante il fuoco dell’accendino, ovviamente una volta spento, lo schermo ritorna buio (alternanza che dura qualche secondo). La tensione è già alle stelle, chi è costui: un gangster, un serial killer? No, è un agente dell’antidroga e sta per dare l’avvio ad una maxi operazione.
Inizio pertanto in medias res; l’uomo e la sua squadra devono bloccare uno scambio di droga, l’operazione fallirà ma non prima di un fantastico combattimento, all’interno di un night-club, tra un corpulento criminale e gli agenti.
Lee Jeong-beom è scatenato e ricorre subito ad una shaky camera tortuosa unita ad un montaggio serratissimo. I movimenti di camera sono tonitruanti sia quando la camera stessa è vicinissima ai personaggi/all’azione sia quando ci troveremo dei piani d’insieme con tutti in campo ad azzuffarsi. Segnalo inoltre una serie di soggettive fulminee ed impetuose.
Partenza top anche da un punto di vista narrativo poiché il nostro Lee Jeong-beom realizza una sorta di MacGuffin 2.0 in quanto minuto dopo minuto il nostro agente dell’antidroga, presentato come una sorta di super macho, perderà importanza e minutaggio. Anzi la polizia è pressoché inutile se non dannosa.
Lo stile tecnico che vi ho appena descritto tornerà in tutte le altre sequenze mixato però ad altre due fondamentali aggiunte: un tasso di violenza brutale ed un’eleganza formale clamorosa nonostante un ritmo sconvolgente. Pensiamo solo alla carneficina finale, Lee Jeong-beom sembra quasi replicare il sublime inferno di piombo di un John Woo ma senza ricorrere allo slow-motion, sostituito da uno stile realistico e celere tipico della new wave di Hong Kong (da Kirk Wong a Ringo Lam) filtrato però a sua volta da una fugace geometricità di tooniana memoria (Johnnie To) il tutto poi riproposto ed amalgamato anche da fisici e meravigliosi corpo a corpo.
La sequenza in esame è assai complessa ed è strutturata in tre “combattimenti” tutti diversi fra loro. Ogni secondo è memorabile tuttavia è impossibile non spendere due parole sullo scontro mortale tra il protagonista ed un sicario tailandese. Il cineasta ricorre a tantissime soggettive “post-moderne” in cui si evince l’uso della snorricam con modifiche poiché appunto l’asse focale non è rivolto sul volto dell’attore ma è l’opposto consegnando a noi spettatori effetti visivi clamorosamente dinamici e tensivi. Ovviamente non è tutto ed infatti il segmento di sequenza termina con una ripresa obliqua dal basso sul volto animalesco del nostro protagonista che ha appena giustiziato il nemico.
Tecnicamente dovremmo dire ancora tante cose ma termino con un fulmineo long take piazzato a metà film, ormai storico. Il protagonista è braccato da alcuni agenti di polizia tra le scale ed il pianerottolo di un angusto palazzo. A questo punto il nostro amato ex agente segreto prima disarma gli agenti (2/3 inquadrature rapidissime e messe con una serie di mini panoramiche a schiaffi) e poi i butta giù da una finestra ed è proprio ora che inizia il long take: semi-soggettiva in shaky camera (una sorta di “falsa” snorricam, come abbiamo visto prima) poi una volta atterrata a terra il regista propone un movimento selettivo verso il protagonista, seguito da un movimento semi-circolare ed infine di nuovo semi-soggettiva…. spettacolo puro.
Chiuso il discorso registico è doveroso tornare sui temi principali del film. Il regista ripropone due stilemi a lui cari: la redenzione attraverso la violenza (come sempre bisogna ringraziare John Woo) e famiglie assenti e disfunzionali i cui membri cercano disperatamente appigli tra soggetti non consanguinei, trovandoli e dunque formando “nuove famiglie” ma ovviamente la ricerca della felicità richiede dolore e sacrificio.
All’inizio inoltre parlavo di noir cupo e non a caso i villain del film si dilettano nel trafficare organi scegliendo tra le loro vittime donne e bambini.
Nota di merito per il killer thailandese (Thanayong Wongtrakul) spietato ma con un proprio contorto codice d’onore che ricorda il sicario di A Better Tomorrow II (Lung Ming-yan).
Filmone…
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