Un pacifico avventore entra trafelato all’interno di una stazione. Porta con sé pacchi e pacchetti che la moglie, le figlie e le amiche delle figlie in villeggiatura hanno chiesto di comprare approfittando di una sua visita nella vicina città. Fuori piove e prendere al volo il treno è il meglio che si augura. Sfortunatamente, arriva in ritardo, il convoglio è già partito e tra le panche di un ambiente gigantesco, tetro e misterioso, trova uno sconosciuto intento a intonare un piacevole motivetto. Più anziano, è vestito di nero, porta un cappello in testa e la barba gli copre il volto. Ma ha una straordinaria voglia di parlare: forse, pure troppa. I suoi ragionamenti passano da un argomento all’altro, le sue metafore all’apparenza anche divertenti ragionano di argomenti come le donne, la famiglia, la casa e la vita in generale. L’avventore non sembra tanto interessato, ha le sue questioni a cui pensare. Se la trama non vi sembra nuova, avete ragione: appartiene a Pirandello e a quel breve pezzo che, nato come Caffè notturno, si è trasformato presto in L’uomo dal fiore in bocca, rappresentazione teatrale che il maestro Gabriele Lavia ha portato in teatro e ora al cinema grazie a una produzione firmata One More Pictures e Rai Cinema.
Presentato fuori concorso al 39° Torino Film Festival, L’uomo dal fiore in bocca porta con sé tutte le tematiche chiave della letteratura pirandelliana, dall’incomunicabilità tra gli uomini (non è un caso che il dialogo tra i due protagonisti diventi presto una sorta di monologo, lasciando emergere quale solitudine attanaglia l’essere umano) al relativismo della realtà (per cui ogni uomo tende a interpretare il mondo che lo circonda a modo proprio, compreso un tema impervio come quello della morte). Lavia, fedele al testo originale, lo arricchisce di elementi provenienti da altre opere dello scrittore agrigentino e con soli due personaggi (e mezzo) in scena ricava un film di straordinaria potenza, arricchito da soluzioni visive spesso sorprendenti e da un’aria di modernità che raramente si ritrova in un adattamento teatrale. Effetti speciali, movimenti della macchina da presa, ironia, umorismo e, soprattutto, recitazione rendono L’uomo dal fiore in bocca un piccolo gioiello che RaiPlay trasmetterà in anteprima esclusiva il prossimo 30 dicembre.
L’occasione è servita per una lunga chiacchierata con il maestro Lavia, regista, sceneggiatore, autore e attore il cui percorso artistico parla da solo.
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Com’è stato accolto L’uomo dal fiore in bocca a Torino?
Mi pare che sia andata bene. Il film è piaciuto. È un’operazione strana perché è un’opera tratta da un racconto breve di Pirandello, diventato un pezzo di teatro. Interpolandolo con estratti di una quindicina di novelle dello scrittore siciliano, è venuto fuori uno spettacolo che ho portato in teatro diversi anni fa e che una produttrice, Manuela Cacciamani, mi ha chiesto di trasformare in un film. Lo abbiamo fatto ed eccolo qui.
Perché ha sostituito il caffè notturno con una stazione ferroviaria tetra, gigante e per certi versi misteriosa, con tutta la metafora del treno della vita e delle direzioni opposte da prendere?
Non lo so. Ho pensato di ambientarlo lì. C’è una bellissima novella di Pirandello in cui c’è un personaggio che va a vedere i treni che passano e non ne prende mai nemmeno uno. Questa vita è come la sala di attesa di un treno che non si prende mai e l’unica possibilità che rimane all’uomo è il suicidio. Ci sono tanti modi di suicidarsi. Pirandello si è suicidato con la letteratura. Ognuno di noi ha un suo proprio modo per allontanarsi dalla vita. In fondo, tutto quello che noi facciamo nella vita è allontanarci dalla vita stessa. Ci creiamo le nostre situazioni, chi fa la collezione di francobolli e di chi di figurine, chi fa teatro, chi scrive: tutto è fatto per isolarci. In fondo, se penso alla mia vita, ad adesso che sono in tournée, la tournée è un isolamento assoluto. Beati voi che girate il mondo, no. Oggi sono a Mantova: ebbene, sono chiuso e non in giro per la città.
Quindi l’immagine dell’artista bohémien è superata?
L’artista bohémien non è che fosse poi così mondano: doveva lavorare. Pensiamo a Modigliani, il primo che mi viene in mente. Ma anche Picasso, anche se lui era un genio talmente grande e capito subito. Anche loro hanno sofferto. Certo, preferivano essere ricchi che essere poveri. Dovendo scegliere…
Quello che mi colpisce di L’uomo dal fiore in bocca, è l’ironia che contraddistingue tutto il lavoro. Fedele al testo originale, ha arricchito i dialoghi tra l’uomo con il fiore in bocca e il pacifico avventore con riflessioni su alcuni concetti fondamentali della vita di un uomo, ragionando su argomenti come le donne, il femminismo e la casa. Si sorride con la battuta ironica sul teatro, con l’avventore reduce da Sei personaggi in cerca d’autore, e con il concetto di “il moglio e la marita”.
“Noiosi quei sei personaggi. Entravano, uscivano, un manicomio”, dice il personaggio. La prima teatrale di Roma di Sei personaggi in cerca d’autore, quando uscì in scena Pirandello per i ringraziamenti, fu un fiasco colossale. Il pubblico urlò in coro: “Ma-ni-co-mio! Ma-ni-co-mio! Ma-ni-co-mio”. È rimasta nella storia quella serata. Ovviamente, i Sei personaggi non fu mai rappresentato in quell’epoca di Pirandello in una cittadina della Sicilia, vai a sapere quale, Catania forse, il cui l’avventore si è recato a comprare ciò che la moglie, le figlie e le amiche delle famiglie gli avevano chiesto. È la ragione per cui arriva alla stazione pieno di pacchetti, che sono tutti colorati in maniera irreale e che diventano metaforici se non simbolici addirittura.
Tutti i ragionamenti vengono dal lavoro di Pirandello, dal racconto breve Caffè notturno ai pezzi che ho estratto dalle tante novelle, presi qua e là. L’argomento donna viene da una novella in cui i due personaggi centrali ragionano sui massimi sistemi della vita e realizzano che la colpa è delle donne: i due stanno in un caffè a parlare male di tutti e alla fine sono concordi che la colpa è delle donne. “Il moglio e la marita” è di Pirandello, non ho cambiato una virgola.
Nello straordinario climax ascendente che porta in scena, emergono i concetti chiave della letteratura pirandelliana: il relativismo della realtà e l’incomunicabilità tra gli uomini. Quale pensa sia il loro peso nell’attuale società in cui molto si comunica senza comunicare nulla?
Pirandello è un genio, è un grande artista, per cui la sua opera non è collocata storicamente. Quando uno è un artista, l’opera che realizza rompe il tempo e si espande. Ogni epoca la può leggere come vuole. Questo accade a Pirandello, a Cechov, a Ibsen, a Strindberg, a Goldoni stesso. Ancora nessuno ci ha provato ma, perché no, potrebbe essere messo in scena in abiti contemporanei. Tutto è contemporaneo a teatro in quanto gli attori sono contemporanei agli spettatori, motivo per cui la forgia di un vestito è semplicemente un incidente, una pignoleria di carattere storico. C’è stato un tempo in cui, per esempio all’epoca di Shakespeare quando si portava in scena il Giulio Cesare, nessuno si sarebbe mai sognato di indossare un vestito da antico romano. I costumi erano i costumi: quelli del primo attore, quelli del secondo attore, e così via. Non abbiamo documenti ma è probabile che facendo dei testi romani o greci, per esempio Pericle, principe di Tiro, forse chi lo sa, poteva utilizzare qualche drappeggio o qualche elemento di richiamo. Ma non lo sappiamo. Come non sappiamo cosa si mettessero per fare Titanio od Oberon. So comunque che si vestivano bene, l’attore possedeva il suo guardaroba, che non era fatto di costumi come li intendiamo oggi: erano i vestiti da mettere sul palcoscenico.
La solitudine, in fondo, è quello che caratterizza i due personaggi: uno che vorrebbe attaccarsi alla vita dell’altro e l’altro che non ha capito in fondo il significato e il valore di tutto ciò che lo circonda. Quanto pensa che sia solo l’uomo di oggi?
La solitudine è una condizione dell’animo umano che credo chiunque prova, chi più e chi meno. Ognuno sta solo sul cuore della terra trafitto da un raggio di sole. Ed è subito sera. Come si potrebbe meglio dire delle parole di Quasimodo? Che poesia incredibile!
Guardando il film, si ha l’impressione che la telecamera non si sia staccata un attimo dai personaggi. È come se fosse stato girato tutto con un unico grande piano sequenza. Come sono state le riprese? Quanto tempo ha impiegato?
Poco tempo, molto poco. Ci sono dei piani sequenza abbastanza lunghi ma ci sono anche degli stacchi qua e là. Siccome sono degli stacchi estremamente naturali, siamo riusciti a dare un’unità narrativa cercando, e questa è stata una preoccupazione, di non far vedere troppo la macchina da presa, pur a volte esasperandone la presenza. Ci sono tante riprese con la macchina storta. Volevo che la macchina da presa fosse un elemento importante della narrazione, un personaggio che a volte vede storto e a volte si muove mentre ruota sull’asse. Volevo che non fosse dimenticata, che ci fosse come un occhio esterno che gira un po’ la testa.
Solo due uomini e una donna in scena. Com’è stato lavorare con Michele Demaria e Rosa Palasciano?
Michele Demaria è un vecchio amico, con cui ho fatto tantissime cose in teatro, tra cui l’edizione teatrale di L’uomo dal fiore in bocca. Con Michelino ci guardavamo, ci dicevamo poche cose perché sapevamo quello che stavamo facendo. È sempre bello lavorare con lui perché è una persona colta e intelligente. Rosa Palasciano fa un piccolo ruolo ma è fondamentale. L’ho trovata a Bari. Ho fatto dei provini e ho visto questa ragazza, molto bella. Lei spesso stava sul set e quindi ho avuto modo di conoscerla, è molto introversa, molto seria, molto riservata: non parlava mai. Stava come isolata in se stessa. Mi è sembrata una persona di una grande interiorità.
In fase di ripresa, quanto ha pesato sapere che dopo ci sarebbe stato un lavoro di effetti speciali? L’ha condizionata?
No, non tanto. Me lo avevano detto prima. Alcune scene, soprattutto quelle in cui la macchina da presa era girata verso quelle pareti tutte verdi che vengono chiamate green screen, schermo verde, potevano dare qualche problema ma non era così complicato. Ogni tanto, non tante volte, c’era il controcampo per far vedere lo spazio che c’era attorno, la campagna, il binario infinito che se ne va di qua e di là. La cosa più difficile è stata fare i treni. Il treno, il trenino piccolo che poi diventa enorme in primo piano: il film comincia con trenino piccolo, piccolo, piccolo, che sembra un trenino sperduto come quello di un giocattolo o uno elettrico. Questo trenino che nel mondo corre improvvisamente diventa una cosa che ti travolge. Avevo raccontato a chi lo avrebbe fatto la mia idea. Quando l’ho visto, sono rimasto sorpreso: era fatto bene, frutto di un lavoro lun-ghis-si-mo. Però, è venuto bene.
Il cinema avrebbe bisogno di molto più Gabriele Lavia. Per quale motivo, è trascorso così tanto tempo dalla sua ultima regia cinematografica?
Perché per fare un film: 1) occorre scriverlo; 2) bisogna che qualcuno gli chieda di scriverlo; 3) bisogna che ci sia qualcuno che gli chieda di girarlo. Il cinema è una cosa molto bella ma molto costosa. E io ho una vita molto complicata e quindi devo lavorare tanto. E devo fare teatro perché non rinuncerei mai al teatro. Quando posso, quando mi capita, quando qualcuno me lo chiede, perché no? Io ho un’idea molto precisa del cinema: il cinema è una techne, come si dice in greco, e questa techne ormai è superata. Il cinema è stato ucciso dal telefonino.
Mi ha quasi anticipato la domanda successiva. L’uomo dal fiore in bocca andrà sulla piattaforma RaiPlay il prossimo 30 dicembre. Cosa pensa un autore come lei delle nuove forme di distribuzione e dello stato del Cinema in generale?
La sala c’è ancora ma chi è giovane vedrà un mondo in cui la sala cinematografica non esiste più. Il teatro, invece, no: il teatro non morirà mai. L’uomo ha saputo di essere un uomo nel momento in cui si è visto rappresentato. Questo accadimento tra esseri viventi, tutti, è insostituibile. Se pensiamo bene, il cinema è durato poco più di cento anni. La televisione, che lo ha minato, è ora meno vista di un tempo: i giovani stanno con il telefonino in mano e fanno altre cose. Possono vedere un film o connettersi ai siti porno. D’accordo o meno, il mondo non lo fermi: non ha bisogno di essere compreso, il mondo si comprende da sé. È così: non c’è molto da fare. Basti pensare alla storia: a un certo punto, un signore ha inventato l’archibugio e l’arco e le balestre sono finite. Sì, l’arco si usa per fare una gara alle Olimpiadi ma non si va più a combattere con l’arco. Eppure, pensate a quando l’arco era un’arma e permetteva di uccidere a distanza, sterminando popoli.
È vero che i giovani guardano il telefonino ma è anche vero che alcuni dei suoi film a ogni passaggio televisivo hanno uno straordinario riscontro. Il canale tv Cielo raggiunge elevati indici di ascolto con le sue pellicole.
Può essere, non lo so. Non guardo i film alla televisione. Se guardo dei film, guardo solo opere inglesi o americane in edizione originale. Non posso sentire il doppiaggio. Sebbene dicano che il doppiaggio italiano sia il migliore del mondo, dico che non è così: il doppiaggio italiano è l’unico al mondo. Negli altri Paesi civili, il film non viene doppiato ma accompagnato dai sottotitoli.
Se uno ascolta l’edizione originale di un film e poi ascolta quel borbottio del doppiatore italiano, si mette un po’ paura. I doppiaggi vengono fatti talmente in fretta e con le voci in primo piano (e non con il campo) da risultare una cosa finta. Se non danno i film in originale con i sottotitoli, non li vedo nemmeno. Doppiare è come uccidere gli attori che hanno lavorato a quei film. Ti pare possibile doppiare John Wayne? Ti pare possibile doppiare Gregory Peck? Ti pare possibile mettere Orson Welles con una voce diversa? Si può doppiare Katharine Hepburn? Si può doppiare Spencer Tracy? Si può doppiare Humphrey Bogart o Lauren Bacall? Immaginiamo il contrario: è mai possibile che arrivi uno a doppiare Marcello Mastroianni? Si possono doppiare gli attori italiani in inglese? Non è pensabile e non lo hanno mai fatto. È un orrore che è accaduto solo in questo Paese: non esiste il doppiaggio cinese o giapponese, è un fenomeno tipicamente italiano. È una semplificazione per un popolo pigro e particolarmente non curioso di capire cosa vuol dire recitare, che va solo dietro alla storia raccontata da voci più o meno artefatte. Come fai a doppiare in poco tempo ciò che è avvenuto in mesi e mesi di riprese? Come fa un doppiatore, anche bravo, a far bla bla bla senza aver dietro tutto il percorso creativo che ha invece quell’attore?
Il doppiaggio è nato quando i registi italiani hanno cominciato a prendere gli attori dalla strada, che davanti alla macchina da presa non facevano altro che dire “1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10”. Poi arrivava il doppiatore che riusciva a infilarci miracolosamente i dialoghi: per questo, erano i migliori al mondo. Ma questo era tipico di quel fenomeno irripetibile che si chiama cinema italiano e che è magnifico.
Faccio un regalo a un’amica. Com’è stato lavorare con Dario Argento?
Dario è una persona molto carina e, direi, dolce. Ho sempre avuto un buonissimo rapporto con lui. Poi, quasi tutto è accaduto per caso. Ci incontravamo e mi chiedeva di fargli una parte. Una volta, l’ho incontrato sulle scale: dirigevo il Teatro Stabile di Torino e lui aveva l’ufficio al piano di sopra dell’ufficio del teatro. Mentre io continuavo a scendere le scale per andare al bar e lui a salire, a un certo punto si ferma a un pianerottolo, mi chiama e mi chiede se fossi disponibile per una parte. Nonostante la mia risposta per l’impegno a teatro, ha insistito: “È una partecipazione, non è lunga. Ti tengo pochi giorni, massimo tre”. Ho finito con l’accettare Non ho sonno. Un’altra volta, invece, io camminavo per strada quando, notando una troupe che stava girando un film, sono stato chiamato da dei macchinisti che conoscevo. Ho chiesto chi stesse girando: “Dario, Inferno, con Eleonora Giorgi”. Vado a salutarlo e su due piedi, scusandosi, mi ha domandato se potessi girargli una scena la sera stessa. E così ho fatto: entravo e venivo subito ucciso con un coltello che mi trafiggeva la gola.
Sono aneddoti che fanno capire come sia cambiata anche l’industria cinema con il passare degli anni.
Eh, allora c’era la pellicola. Il cinema non ha più la pellicola per cui non si possono fare più i film. Ricordiamoci che film vuol dire pellicola. Si fa un’altra cosa. Quello che oggi chiamiamo film è una serie di numeri che girano. La macchina da presa che c’è ora finge di essere una macchina da presa perché ha bisogno, comunque, di un signore che guardi dentro un visore attraverso un obiettivo. L’operatore sta alla macchina per nostalgia perché in realtà potrebbe stare direttamente davanti a uno schermo televisivo. Io non sto mai davanti allo schermo televisivo, non mi piace. Ma io sono vecchio: il regista non deve nemmeno mettere l’occhio dentro il visore. Lo deve sapere com’è l’inquadratura: sa che obiettivo c’è, sa dov’è, sa come riprendere. In fondo, il mestiere del regista è un mestiere tecnico. Io ho bisogno di stare in piedi, dietro l’operatore. Devo immaginare quello che sarà, non lo devo vedere. Non mi stupisco mai quando vedo il girato. Spesse volte, quando la scena è buona, non la rivedo perché l’ho già vista. L’ho girata e ho già visto come verrà: non ho bisogno di stare a guardare. Ma secondo te, senza paragonarmi a lui, Chaplin riguardava le scene? Avrà chiesto alle persone sul set se avesse fatto ridire o se avesse dovuto farne un’altra. Era bello quando era così, quando era tutto artigianale, provvisorio… Non si poteva rivedere. Tu credi che la possibilità di rivedersi abbia migliorato la recitazione degli attori?
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Pietro Cerniglia per Mondadori Media S.p.A.
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