Papa Francesco è seduto a un tavolo. Sta pranzando, circondato dalle persone che ha più a cuore. Non ci sono alti prelati, cariche politiche o personalità eminenti. C’è un uomo in carrozzina, c’è un migrante sfuggito alle torture e alla miseria di un’Africa che non lascia speranza, c’è un ex carcerato che dopo anni di contrabbando ha trovato la retta via, c’è fratello Biagio Conte. In poche parole, ci sono gli ultimi, gli ospiti della Missione di Speranza e Carità a Palermo. L’atmosfera è però più gioviale che mai. Il Papa partecipa alla conversazione, abbraccia i bambini, si sottopone al rito della lavanda dei piedi, ascolta le parole che gli vengono rivolte ed elargisce risposte. Quali siano le reali parole del pontefice non è dato saperlo ma di sicuro avrà trattato temi importanti e, fedele al nome che si è scelto, avrà parlato del Creato. Di sicuro, quelle parole le ricorda chi al pranzo era presente e le ha fissate per sempre nella memoria.
Pasquale Scimeca, regista siciliano che non ha bisogno di presentazioni, era presente con le sue telecamere all’evento. Era l’anno 2018 e lo accompagnava Luca Capponi, ex allievo del CSC di Palermo. Insieme hanno documentato il pranzo e hanno conversato con chi ha avuto il privilegio di relazionarsi con Papa Francesco. Dall’esperienza, è nato un documentario, tanto prezioso quanto unico, che in questi giorni è stato presentato al 39mo Festival del Cinema di Torino, Il pranzo di Francesco. Visto in anteprima, il lavoro di Scimeca e Capponi colpisce per il suo non essere lezioso o didascalico: attento e minuzioso, scandaglia e ricostruisce le conversazioni alternandole con i discorsi tenuti dal Papa in occasioni ufficiali. Perfetto esempio di cinema del reale, asciutto ed essenziale, il documentario permette a Scimeca e Capponi di attraversare gli orizzonti culturali, ambientali, religiosi, politici e geografici, qualificandosi quasi come manifesto del pensiero di Papa Francesco.
A raccontare il lavoro svolto, la genesi del progetto e il messaggio di cui si fa portatore è lo stesso Scimeca, in un’intervista che è al tempo stesso saggio, acuta osservazione sul presente e invito alla riflessione. Perché, nessuno si salva da solo.
In Il pranzo di Francesco parti dalla visita di papa Francesco alla Missione di Speranza e Carità a Palermo per affrontare e discutere di temi importanti come l’integrazione, l’immigrazione, il reinserimento sociale, la questione ambientale e le religioni. Da dove nasce l’idea?
Nel 2018 Papa Francesco è venuto a Palermo per la Beatificazione di Padre Puglisi e ha chiesto espressamente di poter pranzare e poi riposare nella Missione di Speranza e Carità per stare insieme ai poveri. All’epoca, dirigevo il Centro Sperimentale di Cinematografia per il documentario (CSC) di Palermo e insieme a un allievo, Luca Capponi, (che poi ha cofirmato con me il documentario) abbiamo avuto la possibilità di filmare il pranzo, dove seduti a un tavolo c’erano il Papa e le persone accolte nella Missione casualmente rappresentative dei principali temi del pontificato di Papa Francesco. C’erano migranti, ex carcerati, malati, musulmani. Non erano ammessi giornalisti o telecamere: noi eravamo gli unici che abbiamo avuto la fortuna, di seguire da vicino la giornata. Vedendo il Papa interagire con gli uomini seduti accanto a lui; l’autorità morale più alta della Terra con gli “ultimi” della Terra, ho avuto come l’impressione che fossero amici da sempre: era evidente negli occhi del Papa la gioia di trovarsi insieme al suo popolo. È lì che mi è venuta in mente l’idea di raccontare quello a cui stavamo assistendo. Su Papa Francesco, sono stati realizzati molti documentari ma in quasi tutti, il Papa è solo, e si limita a rispondere a delle domande. A me, invece, sarebbe piaciuto raccontare le storie delle persone presenti a quel tavolo, le speranze, i sogni e anche le tragedie delle loro vite, e soprattutto le risposte del pontefice. È nata così la voglia di realizzare Il pranzo di Francesco.
Il titolo è preso in prestito da una vecchia intervista in cui il Papa, rispondendo al giornalista che gli chiedeva quale fosse il film che più gli era piaciuto ha risposto: “Il pranzo di Babette”. Sedute a tavola, in una situazione conviviale, le persone sono spinte a essere sincere, a raccontarsi, ad aprirsi. Abbiamo così intervistato le persone che durante il pranzo erano sedute vicino al Papa e a chiedere a loro di cosa avessero parlato: noi, ovviamente, non potevamo mettere durante il pranzo un microfono per sentire le effettive conversazioni. Sarebbe stato, come ben si capisce, non opportuno. Abbiamo dunque ricostruito i dialoghi e le risposte che Papa Francesco poteva aver loro dato rispetto ai temi che venivano affrontati e che in definitiva sono i pilastri su cui si fonda il suo stesso pontificato.
Suddiviso in vari capitoli, il documentario trova riscontro alle tematiche trattate nei vari discorsi tenuti da papa Francesco in svariate occasioni nel corso del tempo. Come hai proceduto nelle ricerche e quanto difficile è stato trovare il supporto giusto alle immagini e ai racconti provenienti dalla Missione?
Non è stato facile. Con Luca, siamo partiti sostanzialmente dalle persone chiedendoci chi fossero i presenti al pranzo. Partendo dalle loro storie, abbiamo cercato riscontro nelle parole che Papa Francesco ha pronunciato nel corso del suo pontificato e in che modo ha affrontato e continua ad affrontare quei temi. Il lavoro d’archivio svolto è stato possibile grazie alla disponibilità della tv vaticana (grazie alla disponibilità di Paolo Ruffini). La ricerca è stata lunga ma ho cercato di inserire nel documentario quelle frasi che potevano integrarsi alla perfezione ai discorsi tenuti in occasione del pranzo.
L’effetto è talmente veritiero che sembra che quelle frasi siano state pronunciate in quel contesto e non prima o dopo.
La grandezza di Papa Francesco sta nel fatto che è capace di parlare con le persone. Parla con i commensali, con i poveri, con gli ultimi, come se fosse uno di loro. Ride, scherza, si diverte. Mi ha particolarmente colpito un suo gesto: gli era cascato il tovagliolo per terra. Il fratello accanto a lui, in carrozzina, ha tentato di prenderglielo e lui lo ha fermato. Lo ha raccolto da solo. Un papa che si china per raccogliere da solo qualcosa ti fa capire quali passi in avanti abbia fatto il suo pontificato. Non dimentichiamo che fino a qualche decina di anni fa i papi venivano portati su una portantina: c’era una distanza incolmabile tra il pontefice e il popolo. Una distanza che Francesco ha annullato: sin dal suo arrivo in Missione, abbracciando e baciando tutti.
Diverse sono le storie che emergono nei 54, diciamolo, pochi minuti del documentario. Come le hai selezionate? Qual era l’obiettivo di ogni testimonianza?
Non le ho scelte: erano le persone che stavano lì, al pranzo: erano loro. Siamo partiti dalla composizione della tavola e abbiamo cercato chi era presente. Purtroppo, oggi alcuni di loro non ci sono più.
Il pranzo di Francesco arriva a pochi anni da Biagio, il film che hai dedicato a Biagio Conte. Possiamo dire che in un certo senso è il corollario perfetto per quel film? Oserei dire che è quasi la sua continuazione, in modo per mostrare cosa realmente accade dentro le mura della Missione, troppo spesso oggetto di critica.
È così, è un po’ il seguito, se vogliamo, del film. Questa volta non è più Biagio Conte il protagonista del film ma lo sono le persone accolte nella sua Missione, restituendo il senso della Missione stessa. Chi sono queste persone? Chi è un povero, un carcerato, un malato, un immigrato? Solitamente li vediamo ma non sappiamo niente dei motivi che li hanno condotti fin lì. Sono uomini e come tali hanno una storia dietro che li ha portati a scegliere una strada piuttosto che un’altra. Essere poveri è una delle condizioni più difficili da vivere. Non è facile uscire da una condizione di povertà e di abbandono quando si perde il lavoro, la casa e i figli, la famiglia si sfascia e rimani solo per strada. Il ruolo della Missione è importante per questo: la Missione non solo accoglie gli ultimi ma dà loro anche una possibilità di riscatto per riprendersi la loro dignità e ricominciare una vita diversa da quella di prima. Ognuno di loro si impegna per sé stesso ma lavora anche per gli altri.
La cosa che mi preme sottolineare del mio lavoro, non solo per questo documentario ma in generale in tutti i miei film, è il rispetto che si deve alle persone. Le persone o gli attori non sono degli strumenti nelle tue mani a cui far fare quello che vuoi: hanno una storia, hanno un’anima, hanno delle emozioni. È fondamentale rispettare tutto ciò. È da lì che occorre partire per estrarre da loro le cose che ti interessano, che vuoi raccontare e che vuoi che vengano alla luce.
Lo stesso vale per Papa Francesco. Premetto che sono un laico: la mia fede va e viene, alle volte sento la presenza di Dio, altre volte lo sento lontano, è un fatto che riguarda solo la mia coscienza. Per me, però, questo papa ha una particolarità: il suo messaggio, la sua parola, si rivolge – forse per la prima volta nella storia della Chiesa – non solo ai cristiani, al suo popolo, ma a tutti noi. Lo dice chiaramente: cristiani, musulmani, ebrei, buddisti, non credenti. Parla a tutti perché, come dice anche nel documentario, nessuno si salva da solo.
Viviamo in un’epoca che somiglia molto a quella vissuta da Francesco d’Assisi nel Medioevo: ci sono guerre, sofferenze, pestilenze. C’è il mito del denaro che viene prima di tutto. Ma c’è qualcosa che è nuovo rispetto a quell’epoca: siamo quasi a un punto di non ritorno. Stiamo consumando l’unica cosa preziosa che dovremmo avere: il dono del Creato, la Madre Terra. Il nessuno si salva da solo è fondamentale: la ricchezza, ad esempio, non salva la barca dall’affondamento. Puoi essere la persona più ricca del mondo ma affondi anche tu. Il messaggio di unione che cerca di lanciare a tutti dovrebbe essere da monito per tutti noi: non dobbiamo combattere l’uno contro l’altro, ma restare uniti, credenti e non credenti, per cambiare questo mondo e avere una speranza.
Ovviamente, Papa Francesco è cristiano, profondamente legato al Vangelo. Quindi, qual è il suo punto di vista, il suo punto di partenza? Sono le parole del Vangelo. E cosa c’è al centro del Vangelo? Al centro del Vangelo ci sono i poveri, ci sono i malati, ci sono i sofferenti. Gesù dice: “Ogni volta che vedrete un povero, un malato, qualcuno che soffre, io sarò lì”. Salvare il creato non basta. Occorre un punto di partenza: Papa Francesco ci costringe a guardare tutti, cristiani e non cristiani, ai poveri. I poveri devono essere il nostro punto di riferimento: occupandosi degli altri non si fa carità ma ci si occupa di sé stessi. L’occuparsi dell’altro è l’antitesi del nostro occuparci di noi stessi. Solo cambiando il modo in cui si guarda al mondo si può andare alla ricerca, altra parola chiave del pontificato di Francesco, dell’uomo integrale, un uomo nuovo che non è il superuomo di Nietzsche o quello di Hegel o di Marx. L’uomo integrale è un uomo capace di racchiudere in sé la spiritualità (il bisogno atavico di noi uomini di avere una religiosità, di guardare oltre la nostra esistenza terrena) e la sua socialità, la capacità di farsi carico degli “ultimi” di chi soffre, di chi è sfruttato, di chi non ha niente, degli “scarti della società dei consumi”, per usare le parole di Papa Francesco.
Sono convinto che il Papa “che viene dalla fine del mondo” sia l’unico leader mondiale capace di indicare una strada a tutti noi, credenti e non credenti.
Quanto tempo hai impiegato per realizzare Il pranzo di Francesco?
I tempi di realizzazione sono stati lunghi perché c’è stata la pandemia dovuta Covid. La Missione è stata a lungo inaccessibile perché dichiarata zona rossa. È stato un lungo e continuo partire e poi fermarsi, e poi ricominciare ancora.
A proposito del richiamo alla realtà, in Il pranzo di Francesco sono presenti frammenti di video amatoriali che mostrano le violenze subito dagli immigrati prima di partire dall’Africa e una straordinaria ma tragica sequenza tra un gruppo di disperati letteralmente nelle acque del Mediterraneo, che ci restituisce un drammatico faccia a faccia con la lotta che intraprendono tra vita e morte. Da dove vengono e perché hai scelto di mostrarli?
Le immagini del naufragio provengono dalla Guardia costiera, girate dal soccorritore che si è gettato tra le acque per salvare una bambina. Le altre immagini sono state invece fornite da Luca Capponi, il coregista. Allievo del CSC di Palermo, ha vissuto molte esperienze in prima persona imbarcandosi su diverse navi che ancora oggi vanno in giro per il Mediterraneo a prestare soccorso e a salvare i migranti in pericolo. Ho scelto di inserirle perché restituiscono visivamente le esperienze che molti ospiti della Missione, come i due fratelli presenti nel documentario, mi hanno raccontato di aver vissuto sulla loro pelle. Uno dei due, dopo che la barca su cui viaggiava è affondata, ha nuotato per circa 10 km portando sulle spalle un altro disperato. Le riprese non sono altro che le loro parole tradotte in immagini.
Hai citato l’esperienza da direttore generale del CSC di Palermo per un anno. Cosa ti è rimasto di quel periodo e del contatto con i giovani?
Sono stato parecchio indeciso sull’accettare o meno. Quando si accetta un incarico del genere, lo si deve portare avanti con il massimo delle energie. Si corre però il rischio di allontanarsi da quello che in realtà è il proprio lavoro. È stata sostanzialmente una bella esperienza, nonostante tutti i problemi connessi con il mondo della scuola. Mi ha messo in contatto con una generazione di ragazzi che amano l’idea del cinema del reale, un genere che supera i confini del semplice documentario. Il loro mito, come era giusto che fosse, era Francesco Rosi con la sua capacità di raccontare la realtà trasfigurandola in narrazione con un linguaggio che si avvicina di più al cinema tradizionale. È durata solo un anno perché ho capito che devono scegliere tra quel lavoro e il mio: c’è chi ci riesce, e anche bene, ma io non riuscivo a conciliare le due cose.
Questo spiegherebbe anche perché eri fermo dal 2017, da Balon. Immagino che per te, che hai sempre fatto dell’indipendenza il tuo valore aggiunto, non sia facile andare da un produttore a presentare un nuovo progetto.
Non vado da un produttore. Non l’ho mai fatto e non lo farò mai (ride, ndr). Abbiamo una società di produzione, l’Arbash, con cui produciamo non solo i miei lavori ma anche quelli di giovani autori. Quando possiamo, ci piace dare una mano ai giovani autori. Io parto da me, anche se poi posso cercare un coproduttore o trovare delle fonti di finanziamento, tra Rai Cinema, Ministero della Cultura o Film Commission regionali, per completare il budget. Il pranzo di Francesco è prodotto ad esempio dalla Arbash con Rai Cinema e da un contributo della Sicilia Film Commission. Costruiamo in un certo senso il budget: indipendenza non significa che si debba necessariamente fare tutto da soli. Indipendenza significa che parti da una tua idea, la metti in piedi e cerchi le condizioni economiche grazie a cui poterla trasformare in qualcosa di concreto. Così facendo, ti rimane in mano la tua libertà creativa senza che incidano gli interventi degli altri sulla tua idea di cinema.
L’attenzione alla realtà e alla Storia ha da sempre segnato il tuo lavoro. Anche quando ti sei concesso la parentesi verdiana con Rosso Malpelo o Malavoglia, hai parlato del presente e delle conseguenze che il passato ha ancora oggi. Quanto ha influito la tua formazione personale?
Tanto. Ho una laurea in Storia contemporanea. Da ragazzo, ero appassionato di cinema, ovviamente, ma lo vedevo più come un sogno. La mia formazione culturale è quella dello storico, sono andato a Firenze a studiare storia ma, nel momento in cui stavo per laurearmi, ho capito perché mi interessava la materia: la Storia non è altro che la ricerca dell’animo degli uomini e non quella dei documenti. Il mio cinema è contraddistinto dal capire in che modo l’anima, travagliata, di un contadino come Placido Rizzotto (il protagonista dell’omonimo film diretto dal regista e presentato al Festival di Venezia, ndr) vissuto e morto più di settant’anni fa possa aver influenzato la mia vita, possa aver dato uno stimolo alla mia esistenza, influendo anche sul presente. Io guardo alla Storia come normalmente si dovrebbe guardare alla Letteratura: perché ti interessa leggere i lavori di Omero, Dante, Leopardi, Dostoevskji o Verga? Perché dentro ci trovi qualcosa che non è solo di un’epoca ma è tua. Le emozioni che vivono quei personaggi sono le tue stesse identiche emozioni. A volte, te le risvegliano anche. Nella Storia si cerca l’anima degli altri per trovare la propria di condizione umana: non sempre le risposte si trovano nel tempo in cui si vive. Prima parlavo del Vangelo: quante risposte si possono trovare lì? Le parole di Gesù sono astoriche: vanno oltre il loro tempo e diventano universali, utili per te, utili per un singolo popolo, utili per una singola realtà. La grandezza della Letteratura, della Storia, della Teologia, sta nel parlare a te. Lo stesso vale per il Cinema quando è Arte.
Non ti immagino fermo. Noi siciliani non sappiamo stare con le mani in mano. A cosa stai lavorando in questo periodo?
Stiamo lavorando a un film che ha per protagonista la figura del giudice Cesare Terranova, ucciso assieme al suo fedele collaboratore Lenin Mancuso, dalla mafia nel settembre del 1979. Il primo giudice che ha avuto il coraggio di indagare sui corleonesi. Sarà un film epico, non documentaristico, che ripercorrerà la lotta tra il giudice Terranova e il suo antagonista, Luciano Liggio, il vero capo dei corleonesi.
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Pietro Cerniglia per Mondadori Media S.p.A.
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