Una premessa personale
Nel 2001 avevo tre anni e il cinema era ancora di là dal diventare una delle mie passioni principali. Quando poi di anni ne ebbi sedici, fu proprio Mulholland Drive a farmi intuire le potenzialità di un’arte fino ad allora intesa solo come puro intrattenimento. Ricordo di aver sentito menzionare il film in una discussione internettiana di appassionati e incuriosito decisi di comprare il dvd a pochi euro: così Mulholland Drive divenne anche il primo di una serie di acquisti, che mi avrebbero portato ad avviare quella che oggi è la mia ancora limitatissima collezione, in costante espansione. Dunque, non potevo perdermi la possibilità di vedere, per la prima volta al cinema, uno dei film cardine della mia crescita cinefila. L’intento, con cui sono andato in sala il 15 novembre, non è stato però soltanto quello di apprezzare su grande schermo un’opera importante per il cinema contemporaneo, ma anche di verificarne la tenuta, dopo anni dall’ultima visione e a due decenni dall’uscita. Questi i quesiti che mi sono posto durante la proiezione: “Il miglior film del 21° secolo” (così recita lo slogan della nuova locandina) avrà saputo reggere la prova del tempo e il confronto con vent’anni di cinema, venuti dopo di lui? Cosa ha reso Mulholland Drive un’opera significativa all’epoca e ancora oggi?
Innanzitutto, piccola parentesi sulle reazioni degli spettatori in sala con me, molti dei quali alla loro prima visione: qualcuno non ha resistito oltre la metà e se ne è andato, il mio vicino di poltrona ha dormito per un’ora e mezzo abbondante, altri borbottavano contrariati rimpiangendo i loro 7€. In mezzo a simili reazioni del tutto comprensibili, la cosa che mi ha sorpreso di più è stato l’atteggiamento del resto della sala: non un movimento, non un commento, bensì una spontanea curiosità rivolta a ciò che stava accadendo sullo schermo.
Di qui sicuramente il primo pregio del film, che mi sento di dire sia rimasto invariato a distanza di tempo: la capacità di creare un’atmosfera avvincente e ipnotica, accentuata in parte anche dai numerosi inserti comico-grotteschi. Per due ore Lynch gioca al rilancio e accumula personaggi e situazioni, riuscendo nell’impresa di mantenere alta l’attenzione dello spettatore catturato da un misto di attrazione e repulsione. In questo, Mulholland Drive lascia intuire la sua natura originaria di prodotto televisivo: abituati, come ormai siamo, alla tipica struttura seriale – che proprio negli anni del film andava consolidandosi – è facile riscontrare nell’alternanza iniziale di sotto-trame a incastro il classico intreccio da serie tv, che avrebbe di sicuro permesso al regista di portare avanti su più fronti l’ipotetica prima stagione. Non stupisce che un meccanismo simile sia stato poi riproposto ed esasperato fino al parossismo dallo stesso autore in Twin Peaks: The Return.
Proprio come la maggior parte della filmografia di Lynch (se si escludono dal ragionamento The Elephant Man e A Straight Story), Mulholland Drive possiede la natura di oggetto alieno, non classificabile esaustivamente in un singolo genere cinematografico; noir, thriller psicologico, love story sono etichette in cui tutti abbiamo cercato di includere l’opera per darne una descrizione. E questo è solo il primo e più superficiale passo nel tentativo di rintracciare delle coordinate interpretative, al fine di fornire una chiave di lettura del film nel suo complesso: impresa che chiunque, dal critico autorevole all’appassionato fantasioso, ha cercato di portare a termine (con tanto di sito a tema dedicato). Infatti, nel momento in cui si approccia il film, l’attenzione è tutta rivolta alla non facile comprensione degli eventi presentati a schermo: Lynch induce lo spettatore a formulare teorie e ipotesi, sia durante che dopo la visione. E lo fa in maniera straordinariamente ficcante, intervenendo di proposito sulla grammatica cinematografica. Da ciò l’importanza della sala: rivedere Mulholland Drive in grande formato mi ha permesso di toccare con mano l’efficacia della regia e di cogliere tanti piccoli dettagli, sfuggiti nelle visioni precedenti.
Una premessa storica
Per parlare al meglio del film, conviene innanzitutto considerare ciò che lo ha preceduto e seguito: secondo la lettura della critica, questo sarebbe il capitolo centrale di una trilogia dell’inconscio ai cui estremi si collocano Lost Highway (1997) e Inland Empire (2006). Se il primo è una sorta di anticipatore della tecnica narrativa di Mulholland Drive, il secondo è invece l’estensione della riflessione sul cinema e sulla psiche, iniziata a partire dal film del 2001. È facile notare una coerenza interna rispetto ai titoli: tutti e tre si riferiscono a luoghi presenti nelle rispettive pellicole (Lost Highway è il nome di un hotel dove i personaggi si danno appuntamento, Mulholland Drive è la strada sulla collina di Hollywood teatro dell’incidente iniziale, Inland Empire è un’area metropolitana di Los Angeles in cui finisce la protagonista), i quali assumono diverso valore, a seconda della trama. Personalmente, ho sempre considerato Mulholland Drive la perfetta sintesi tra la struttura bipartita, a tratti eccessivamente esasperata, di Lost Highway e il delirio allucinatorio, sperimentale di Inland Empire: nel film la strada perduta è il binario della narrazione, frammentato e apparentemente contraddittorio, che lo spettatore cerca di seguire, mentre l’impero interiore sembrerebbe essere il mondo del sogno, dove regna sovrana la mente instabile della protagonista. Forte della recente revisione, mi sento di poter azzardare un’ulteriore considerazione, che vorrebbe anche essere il pensiero guida di questa riflessione: Mulholland Drive è un film incredibilmente semplice.
Ripartiamo dalle premesse: come già accennato, l’opera doveva essere una serie – in un primo momento addirittura spin-off di Twin Peaks – che Lynch si vide rifiutare dall’emittente televisiva, dopo aver girato il pilota nel 1999. Grazie all’intervento economico di Studio Canal, Lynch si convinse a rimettere mano al progetto rimasto sospeso, ritoccando alcune scene dei 90 minuti già girati e aggiungendo la parte finale per chiudere il film. Nella lettura di alcune dichiarazioni del regista in merito, emerge un particolare importante: la serie avrebbe dovuto introdurre innumerevoli misteri nel corso delle puntate, che però alla fine non si sarebbe preoccupata di sciogliere. In pratica, una risposta di Lynch alla ABC e alla seconda stagione di Twin Peaks, dove il regista fu costretto dai produttori a svelare l’assassino di Laura Palmer a metà, stravolgendo i propri piani e causando il prematuro allontanamento dal progetto. In questo caso invece, l’autore fece marcia indietro dopo l’iniziale abbandono e, a suo dire a seguito di una fulminante ispirazione notturna, scelse di trasformare la sceneggiatura nel modo che tutti conosciamo, dandole una compiutezza.
Credo che questo sia abbastanza indicativo di un fatto, troppo spesso dimenticato da chi approccia Mulholland Drive: il film, in quanto pensato come opera narrativa, possiede una storia. Confusa certo, frammentata senza dubbio, ma la storia c’è. Lo dimostra anche un altro dato non da poco, ossia i tanto famigerati 10 indizi di Lynch; alcuni di essi giocosi, fuorvianti e probabilmente non tutti utili, ma comunque indizi coerenti con quanto viene messo a schermo. Tanto dovrebbe bastare per cercare di placare la foga interpretativa, che ha investito e investe ancora il film. Questo non certo perché il dibattito cinematografico sia qualcosa di negativo, anzi ben venga quando ad esserne oggetto sono film simili; però mi sembra che, così facendo, si vada a cadere in certi errori di ragionamento, spuntati fuori nuovamente in occasione di questo anniversario: ogni interpretazione è lecita, ma dovrebbe quantomeno rientrare nel campo del plausibile. A delimitare questo spazio non è un singolo individuo in maniera arbitraria, ovviamente, bensì l’opera stessa che contiene i confini del proprio significato.
Si è parlato molto di deriva antinarrativa, di esperienza sensoriale senza bisogno di spiegazione quanto di essere vissuta, di surrealismo tout court; eppure, ogni qualvolta si azzarda un’analisi del film, si ricade all’interno di interpretazioni testuali, che volenti o nolenti individuano nell’opera una qualche forma di storia. Questo perché, a mio avviso, il cinema di Lynch imbocca sempre la strada del racconto e sta a dimostrarlo Inland Empire, film sperimentale al massimo grado, dove comunque viene imbastita una trama, confusa e che richiede una partecipazione attiva da parte dello spettatore, ma pur sempre una trama. Anche Mulholland Drive, in maniera più abbordabile rispetto al film successivo, ha la sua storia e Lynch – a differenza di quanto fatto in Lost Highway – dissemina nel corso del film tutte le chiavi per permettere allo spettatore di formulare ipotesi generali, di sicuro non esaustive al massimo, ma almeno plausibili.
È ovvio, inoltre, che nessuna opera possiede un’unica lettura. Nel caso in esame, ad esempio, i piani di decodifica individuati dai critici sono almeno tre: quello metacinematografico (un film sui meccanismi di Hollywood), quello psicologico o per meglio dire psicoanalitico (un film sulle dinamiche del sogno), quello sentimentale (una storia di abbandono e di relazioni tradite). Si consideri però un fatto: ognuna di queste tre letture non è apprezzabile soltanto perché possibile, bensì in quanto plausibile con ciò che il film mostra. Non si può considerare un’ipotesi migliore di un’altra solo in quanto è possibile formularla, altrimenti anche le teorie più improbabili avrebbero cittadinanza (il sogno del barbone, il patto col demonio, la doppia realtà parallela…); bisogna adottare un criterio di plausibilità, implicato nel rintracciare la logica interna al film medesimo.
Di primo impatto, sentir parlare di logica per un film come Mulholland Drive potrebbe apparire atipico, ma è Lynch stesso a indirizzarci a una simile conclusione nell’arco del racconto; da qui la precedente affermazione della semplicità del film che, lungi dall’essere antinarrativo, è anzi narrativo al massimo grado. Il problema iniziale sta tutto nello stabilire cosa intendiamo per “narrazione”: quale tipo di narrazione Lynch sceglie di privilegiare? Non può essere di certo quella degli avvenimenti, siccome alcuni appaiono sconnessi e neppure quella relativa alla successione in cui vengono mostrati, palesemente ingannevole anch’essa. Tuttavia è questo il motivo per cui Mulholland Drive tra il pubblico gode, ad oggi, della fama di film impossibile, dove tutto accade in un flusso quasi casuale e ogni tentativo di ricostruzione sembra inutile. Al contrario, la narrazione è rintracciabile, ma il regista sceglie di non privilegiare quella della realtà, bensì dell’inconscio. Altro aggettivo – usato a sproposito per definire il film – è infatti “onirico”, termine perfetto se non fosse inteso come sinonimo di incomprensibile, criptico. Lynch ci tiene a dire l’esatto contrario: il sogno non è illogico, anzi paradossalmente raggiunge un livello di coerenza e ordine superiore a quello della realtà. Per dimostrarlo l’autore si serve di geniali alterazioni delle regole cinematografiche; non è un caso che questo film abbia vinto il premio per la miglior regia a Cannes, siccome proprio la regia e il montaggio sono i due pregi più evidenti.
Per il momento, quindi, smettiamo di cercare il significato di ogni piccola stranezza e proviamo a guardare l’opera nel suo complesso, a partire dagli elementi macroscopici. Perdere la vista d’insieme per concentrarsi solo ed esclusivamente sul particolare è affascinante (Lynch questo lo sa bene), ma rischia di sviare l’attenzione sul senso del film, in favore di speculazioni gratuite.
Dentro e fuori
La maggiore caratteristica che salta all’occhio è una esasperata dualità, costantemente sottolineata. Anche tra gli esegeti più accaniti è unanime individuare una netta bipartizione nella struttura del film: la prima parte (2 ore) racconta una storia, mentre la seconda (circa 30 minuti) ne racconta un’altra. Questo dato riporta alla mente la medesima idea del già citato Lost Highway, con una variazione significativa: lì è la prima parte a durare di meno, mentre la seconda si estende per tutto il minutaggio restante. Anche il passaggio da una storia all’altra è simile tra i due film, ma non uguale: in Lost Highway il protagonista muta a seguito di un trauma e attraverso una sequenza fin troppo esplicita (la scena in carcere); in Mulholland Drive questo passaggio è più raffinato, grazie al contributo della regia. La famosa apertura della scatola blu è un momento indimenticabile, molto più della trasformazione del Fred Madison di Lost Highway nel suo alter ego. La causa, a mio parere, non è da individuare solo nella migliore costruzione della sequenza, ma soprattutto nel dato più destabilizzante che si porta dietro: nella seconda parte di Mulholland Drive ricompaiono gli stessi personaggi della prima, però non sono gli stessi. O meglio, lo sono solo fisicamente; a cambiare in maniera radicale è la loro personalità. Questo disorientamento in Lost Highway non è altrettanto efficace per due motivi: innanzitutto, perché da spettatori non abbiamo il tempo di familiarizzare con i protagonisti e per così dire abbassare la guardia; inoltre, siccome il personaggio principale cambia anche fisionomia nella sua dissociazione psichica, il nostro legame con lui riparte da zero, quasi come il film. In sintesi: la metamorfosi, prima rappresentata da Lynch attraverso un mutamento esterno, in Mulholland Drive diventa esclusivamente interna.
Proprio l’antitesi interiorità-esteriorità si ricollega alla scena detta prima: l’oggetto simbolo del film è una scatola blu che viene aperta, con tanto di macchina da presa che letteralmente entra dentro di essa e noi con lei. Di cosa può essere metafora (anche abbastanza scontata a dirla tutta), se non della scatola per eccellenza che è la mente? Ma non è l’unica sequenza del film a concludersi con un tuffo nel nero, ce ne è almeno un’altra: quella iniziale, dopo la parte del jitterbug, resa con la soggettiva di un personaggio sconosciuto che affonda il viso in un cuscino. Allora forse l’inquadratura della scatola, arrivata dopo due ore di film, anziché un’immersione è piuttosto un’emersione. Da che cosa? Niente meno che dall’inconscio di Diane Selwyn.
Se si accetta la teoria del sogno di Diane, tutto il resto del film assume dei connotati più definiti. Impossibile analizzare una per una le sequenze; mi limiterò a citare quelle ritenute più significative. Nella prima parte sono pochi i guizzi di regia, in quanto tutto si svolge in un’alternanza di campi e controcampi, dettagli e totali; è piuttosto il contenuto bizzarro delle scene a confondere, fino all’apice del Club Silencio. Ma ci sono almeno due momenti che forniscono indizi sulla reale natura di quanto stiamo vedendo: il primo è la sequenza della chiamata di Betty/Diane a Zia Ruth. Qui Lynch offre un assaggio del disorientamento straniante di cui è piena la seconda parte del film: Betty è stesa sul divano in salotto, quando riceve la telefonata della zia e con essa la prima rivelazione su Rita/Camilla. Da questo momento parte una sequenza in soggettiva che – per il modo in cui è stata costruita la scena precedente a livello narrativo, ma soprattutto per la presenza del voice over di Betty – ci porta a pensare di star osservando la scena attraverso gli occhi di Rita, la quale si muove all’interno della casa per raggiungere l’amica al telefono. Il personaggio attraversa il corridoio e apre la porta di una stanza, che presumiamo essere il salotto. Con grande stupore ci troviamo invece di fronte Rita, seduta sul letto della camera in lacrime: abbiamo guardato attraverso gli occhi di Betty ma non ce ne siamo accorti, a causa della regia usata.
Questa sequenza, più di tante altre, ci mette nella condizione di cominciare a sospettare di quanto stiamo vedendo e soprattutto ci fa dubitare su chi stia guardando cosa. Possiamo fidarci di quello che mostra la macchina da presa? È il regista a raccontarci la storia o la stiamo vivendo attraverso lo sguardo di qualcuno in particolare? Proprio sul tema della vista si innesta un'altra peculiarità del film, di cui la critica ha parlato a lungo, ovvero la presenza delle cosiddette “soggettive senza soggetto”, paradosso suggestivo che indica alcune inquadrature dove i personaggi sembrano essere osservati da un ignoto, la cui identità non viene mai svelata. Un esempio perfetto è la scena dell’arrivo di Betty e Rita al Club Silencio, dove la macchina da presa letteralmente insegue le due donne, a partire da un campo lunghissimo fin dentro il teatro.
Nuovamente, se si interpreta nell’ottica del sogno, anche questa scelta dimostra una coerenza notevole: il soggetto osservante c’è eccome ed è Diane stessa. Lynch evidentemente conosce la psicoanalisi e la letteratura a essa collegata: durante il sogno capita spesso di ritrovarsi a guardare sé stessi al di fuori del proprio corpo, a percepirsi sdoppiati in più persone o addirittura a fare da spettatori di episodi in cui non si è presenti fisicamente. Queste tre possibilità vengono tutte messe in atto più volte dall’inconscio della protagonista, nel corso della prima parte di film: trovano così una giusta collocazione le scene in cui Betty non c’è, ma la sensazione della presenza di qualcuno che stia osservando i personaggi è forte, ad esempio nella sequenza del Winkie’s, dove il dialogo tra i due uomini viene reso tramite inquadrature mobili, per dare il senso di uno sguardo ulteriore sulla scena. Come non parlare poi del personaggio di Rita, che a un certo punto indossa una parrucca bionda, finendo per essere identica a Betty. È immediato ricollegare questa parte alla celeberrima sequenza dello specchio in Persona di Bergman, ma il riferimento di Lynch si spinge ben oltre la semplice citazione cinefila: anche lì viene suggerito un amore fra le due donne protagoniste, anche lì due identità diverse finiscono per sovrapporsi tanto da chiedersi se Alma ed Elisabeth (il cui diminutivo potrebbe essere Betty, curiosa coincidenza) non siano in fondo la stessa persona.
In Mulholland Drive Lynch non scioglie il mistero in maniera chiara, ma offre indizi: ad aprire la scatola blu non è Betty ma Rita, la quale probabilmente è la parte della personalità scissa di Diane, cui la protagonista demanda il compito di ricollegare la sua psiche alla realtà. Anche il modo in cui Rita si concede sessualmente a soddisfare il palese desiderio di Betty è emblematico di come il personaggio si pieghi a un atto troppo improvviso nell’economia della storia. Senza dimenticare che è proprio Betty a dare il via all’amplesso e non il contrario, in una scena tanto passionale quanto stridente a tratti, perché molto repentina nella storia. Quando poi nella seconda parte del film troviamo Rita nelle vesti di Camilla, con un carattere all’opposto rispetto a come la conoscevamo, è plausibile pensare che il personaggio presentato inizialmente altro non sia se non una proiezione della mente di Diane, che nel sogno riplasma i personaggi della realtà in base ai propri obiettivi.
Meccanismi di autodifesa
L’azione di “rifunzionalizzazione” degli elementi reali da parte dell’inconscio è evidente nella figura del regista Adam Kesher, protagonista delle sequenze più grottesche della prima metà: viene presentato come un tipo capriccioso, facilmente irritabile e ridicolo con quella mazza da golf portata con sé dovunque. Come se non bastasse, nel giro di poche scene viene ricattato dalla mafia, licenziato dal produttore, tradito dalla moglie, malmenato dall’amante di lei e minacciato da un cowboy. Il tutto in un crescendo di surrealismo, che da un lato lascia interdetti e dall’altro causa ilarità. Nella seconda parte del film il personaggio non è descritto con altrettanta dovizia di particolari, facendo poco più di una comparsata, ma i momenti in cui appare sono fondamentali per quanto comunicano: Adam è visto da Diane come una minaccia, poiché ha intenzione di sposare Camilla e portarla via da lei per sempre. Naturalmente l’inconscio della protagonista cerca in tutti i modi di punire la persona del regista, immergendolo in situazioni al limite dell’assurdo e alterandone la personalità.
Veniamo in questo modo alla scena che chiarisce la situazione, ossia il non-incontro tra Adam e Betty. Importante nota a margine: la sequenza inizia con una donna in abiti anni ‘60 che canta insieme ad un coro, vestito alla stessa maniera, la canzone d’amore Sixteen reasons. Abituati alle stranezze del film, siamo portati a pensare di trovarci davanti all’ennesima stravaganza, quando una carrellata all’indietro della camera svela un set cinematografico intorno all’allegro gruppo, che tra l’altro sta cantando in playback (“No hay banda! This is all a tape recording”). Di nuovo veniamo ingannati da Lynch, credendo per un attimo di star guardando qualcosa di reale.
Betty viene portata sul set del film dalla casting director Linney James: dato lo svolgimento fin qui della storia, ci aspetteremmo un certo tipo di evoluzione nella trama. Adam sta eseguendo i provini per la scelta dell’attrice protagonista del suo nuovo lavoro, motivo per il quale la mafia lo ha minacciato: se non assegnerà il ruolo alla donna consigliata dai criminali, dovrà subirne le conseguenze. Nel momento in cui Betty si palesa, Adam sembra percepire d’istinto la presenza della donna tanto da voltarsi verso di lei. Il tutto avviene senza che i due si siano ancora presentati. Lynch ci tiene a sottolineare la circostanza e l’indugiare della macchina da presa sui volti dei due personaggi fa supporre un possibile sviluppo: forse il regista andrà contro le imposizioni della produzione, scegliendo Betty come protagonista e lanciando così la sua carriera a Hollywood?
Invece accade l’inaspettato: non solo Adam, dopo un forte smarrimento, prosegue i provini e scrittura la ragazza impostagli dall’alto, ma non ha nemmeno il minimo contatto diretto con Betty, che a un certo punto guarda l’orologio per poi correre via dal set verso casa. Non prima però di aver scambiato un ultimo lungo sguardo con il regista, evidenziato in maniera particolare dalle inquadrature ravvicinate (in sottofondo scorre I’ve told every little star, altra canzone d’amore).
Che cosa è successo? Come mai la protagonista se ne va senza nemmeno svolgere il provino per cui era stata portata lì? Perché nessuno la ferma? A ben vedere, la sequenza sembra molto più surreale di quelle esplicitamente assurde: è inutile in quanto non implica sviluppi nella trama, non apporta modifiche allo status quo dei personaggi, sembra scissa in due segmenti collegati soltanto dallo scambio di sguardi. Poteva non esserci e nulla sarebbe cambiato. Piazzata come è, nel mezzo di un potenziale sviluppo di trama, è fatta appositamente per frantumarlo. Come se le due linee narrative principali, fino a ora parallele, fossero sul punto di toccarsi, ma una misteriosa forza le mantenesse divise in maniera netta. Tutto passa attraverso un’occhiata, sotto la quale intuiamo ci sia qualcosa di molto profondo. Ma è la prima volta che i due si incontrano, oppure no?
La scena, oltre che importantissima, è magistrale nella scrittura: l’inconscio di Diane non può permettere che i protagonisti comunichino perché Adam è la causa della fine del rapporto con Camilla nella realtà. Mettere in contatto i due mondi implicherebbe la conclusione prematura del sogno con il conseguente ritorno alla veglia: Adam non deve assolutamente conoscere Betty, perché vorrebbe dire incontrare anche Rita e rovinare la love story da film che si sta costruendo. Non a caso, da questa scena in poi tutta l’impalcatura del sogno comincia a collassare e le sequenze bizzarre si assommano: nell’ordine abbiamo il ritrovamento del cadavere nell’appartamento, il cambio di acconciatura di Rita, la scena di sesso, lo spettacolo al Club Silencio e infine l’apertura della scatola blu.
Who gives a key, and why?
Tutti i personaggi – dai più importanti, come in questo caso, ai meno rilevanti – vengono trasformati nel sogno e assegnati a ruoli differenti, oppure risultano modificati nei comportamenti per essere dei doppi speculari di loro stessi. Mulholland Drive però non è un film fatto di soli personaggi, ma anche e soprattutto di oggetti; telefoni, lampade, targhette e tazze vengono inquadrati spesso e sembrano fungere da collegamento tra le due parti in cui si muove la narrazione. Questo focalizzarsi sui dettagli di contorno è anch’esso una tipica situazione del sogno: al momento del risveglio noi tutti non riusciamo a ricordare con precisione quanto vissuto nella fase di sonno; le uniche cose a restare impresse sono oggetti, nomi, particolari irrilevanti o stravaganti. La visione complessiva del mondo onirico in cui siamo sprofondati rimane oscura e difficile da ricostruire, perciò ci si serve dei dettagli per tentare un inquadramento generale.
Diane, allo stesso modo, si serve di piccoli elementi per costruire il mondo inconscio: il nome della cameriera del Winkie’s, le tazze del locale, lo stravagante cowboy visto alla festa, la ragazza che bacia Camilla sono elementi reali, che puntellano poi la riscrittura mentale operata dalla donna. Lynch riesce a mettere in scena, con pochissimi elementi, un semplice processo psicologico, esperito a livello più o meno consapevole ogni giorno da tutti.
In mezzo a tanti simboli, c’è un solo elemento che non subisce una rielaborazione radicale ed è l’ennesimo indizio che Lynch fornisce per comprendere il film: la chiave blu. Questo è l’unico strumento a mantenere un’identità precisa in entrambe le dimensioni. Nella realtà è prova dell’avvenuto omicidio di Camilla (“What’s it open?”) mentre nel mondo onirico è il mezzo per aprire la scatola blu e tornare alla realtà. Troppo a lungo ci si è concentrati su quest’ultima invece che sull’oggetto che la apre, rinvenuto tra l’altro nella borsa di Rita. La chiave resta una chiave, così come l’omicidio resta omicidio, non si può scappare da una simile realtà nemmeno nell’inconscio. Una scatola chiusa senza chiave è come un sogno senza uscita verso la veglia: deve sempre esserci un collegamento tra le due dimensioni, altrimenti l’una senza l’altra non può esistere.
Time to wake up
Almeno due parole ora sullo svolgimento della seconda parte, con particolare attenzione alle scelte di Lynch. Come detto, c’è un evidente cambio di ritmo dopo il risveglio di Diane: tanto la prima parte è lenta e lineare, quanto la seconda è invece rapida e sincopata nel montaggio. Gli ultimi trenta minuti del film sono una vertiginosa esperienza sensoriale e vanno a cozzare fortemente con lo stile di narrazione fin lì adottato. Non a caso, la seconda parte del film viene vista da alcuni come il vero sogno, perché la sensazione è accentuata dal modo in cui Lynch decide di raccontare la psiche ormai compromessa di Diane. In rapidissima successione vediamo tornare tutti i personaggi attraverso sequenze – che parrebbero essere ricordi della protagonista – giustapposte tramite splendidi raccordi di montaggio. A predominare è la tecnica dell’ellissi e della frammentazione cronologica: osserviamo dei brevi squarci narrativi, abbozzi di situazioni che suggeriscono eventi, sottintendono legami; i dialoghi sono asciutti, scarni, tutto viene demandato all’espressività e al linguaggio del corpo degli attori. Mentre il sogno riordina e ricostruisce attraverso una narrazione, la realtà al contrario confonde, mescola, sfugge a una qualsiasi catalogazione da parte del soggetto: l’inconscio è più stravagante ma meno caotico della vita.
Succede allora che una frase, detta per commissionare un omicidio, diventi la razionalizzazione di un insuccesso (“This is the girl”). Betty non sfonda a Hollywood perché una potente forza esterna trama contro il suo talento, Diane non ottiene il ruolo della vita perché Camilla la supera. Raccomandazione o vero talento? Non riusciamo a dare una risposta definitiva così come non ci riesce Diane, accecata dall’odio e dall’amore, perché la realtà è criptica. Tanto vale crearsi una spiegazione perfetta nella propria mente.
Personalmente ritengo la seconda sezione di Mulholland Drive il vero capolavoro per la grande lezione di cinema offerta: estremamente suggestivi i raccordi sonori tra le scene (lo squillo del telefono, il rumore dei piatti che si rompono), la messa a fuoco delle inquadrature durante la cena, la presenza o l’assenza di alcuni oggetti per segnalare la sfasatura cronologica degli eventi.
Ma c’è una sequenza in particolare – la più bella del film per quanto mi riguarda – capace in un attimo di comunicare con lo spettatore meglio di qualsiasi dialogo. Diane è svegliata dalla vicina di casa, venuta a riprendersi alcune cose prestate alla donna; sbrigata la faccenda, va in cucina e si ferma sul lavabo dando le spalle alla camera, che si sposta di tre quarti. La scena è composta da pochissime inquadrature dalla durata molto dilatata, così da accentuare l’angoscia e la pesantezza che opprimono il personaggio. All’improvviso, come ridestata da qualcosa, Diane si volta con sguardo incredulo tra le lacrime, chiamando il nome di Camilla: nel controcampo vediamo proprio Camilla in piedi, sorridente. Segue di nuovo il campo della protagonista che piange e ride disperata; ma il sollievo dura solo un attimo, prima di trasformarsi in orrore puro. A questo punto ci aspetteremmo di trovare, nel medesimo controcampo di prima, o di nuovo Camilla o almeno cosa ha fatto spaventare così tanto Diane. E invece adesso siamo noi a sgranare gli occhi increduli: al posto di Camilla c’è Diane, mentre sembra fissare la sé stessa dell’altra inquadratura. Segue la lenta preparazione del caffè, prima di un totale che mostra Diane sola in cucina. La follia della donna ha ormai raggiunto il culmine; inizia una lenta discesa verso il definitivo decadimento psichico. E ora lo sa anche lei.
L’impatto della scena è dirompente; senza alcun tipo di effetto speciale, solo tramite una trasgressione delle regole cinematografiche, Lynch fa eco alla celeberrima affermazione freudiana: “L’Io non è padrone in casa propria”.
Fin dall’inizio si è parlato di struttura bipartita, doppiezza nello stile narrativo e nella costruzione dei personaggi, sogno e realtà; discorsi interessanti certo, ma tutti collaterali rispetto al più importante: la prima cosa ad essere scissa è la nostra psiche, alleata preziosa e al contempo nemica. La mente attraverso l’inconscio, il rimosso e la negazione salva Diane da una realtà grigia, triste e infelice, dove la donna ha perso l’amore della sua vita insieme all’occasione di diventare attrice di successo. Ma, come tutta la prima parte del film, questa è solo un’illusione (“There is no band”): la salvezza è temporanea, più che a un’evasione assistiamo all’ora d’aria del carcerato, che sa di dover rientrare in cella prima o poi. Quando il sogno diventa troppo bello e articolato, tornare indietro può essere traumatico. Non bastano più le parole per riannodare il filo dell’esistenza ormai spezzato; l’unica soluzione rimasta è un colpo di pistola. Del resto, il sonno senza sogni è quello della morte. Lo spettacolo può terminare. Giù il sipario. Silencio.
Una conclusione
Il 15 novembre, una volta uscito dalla sala, mi sono trovato preda di sensazioni contrastanti: da un lato emozionato per l’esperienza della visione, dall’altro invece il film mi ha fatto un’impressione che non mi sarei mai aspettato. Quello che ai miei occhi di sedicenne era apparso come un film perfetto ha invece mostrato il fianco alle criticità. Ho avvertito una certa mancanza di eleganza in alcune sezioni del film, specialmente nell’accumulo di situazioni della prima parte. Mulholland Drive è risultato doppio anche nella mia percezione: a finissime intuizioni degne di un maestro, si affiancano momenti per me di cattivo gusto, che ho mal digerito. Mi viene in mente la scena di Mr. Roque in carrozzella, il colloquio abbastanza ridicolo con la medium, Billy Ray Cyrus nel ruolo di Gene, la sequenza del caffè dei fratelli Castigliani: sono scelte del tutto giustificabili, se lette nell’ottica dell’assurdità del sogno, ma che comunque mi dicono qualcosa sui modi e sul gusto di Lynch.
In queste parti ho percepito molto forte la sensazione di trovarmi davanti alla versione 2.0 di Twin Peaks, sicuramente suggestiva ma povera di fascino. Per assurdo anche la sequenza del Club Silencio mi è parsa parecchio invecchiata e ha confermato l’impressione di aver a che fare con un regista dalle grandissime idee, alcune geniali, ma non tutte eseguite con la stessa cura. Come ho già detto, ciò che fa spiccare il salto di qualità al film è la seconda parte: lì la visionarietà di Lynch va di pari passo con la resa cinematografica, innalzando l’opera verso vette di perfezione. Poco male, perché alla fine è questo il bello della revisione di un film a distanza di tempo: guardarlo con gli occhi di un periodo differente della vita è sempre utile per ridimensionare o riscoprire cose su cui si credeva impossibile cambiare idea.
Negli anni ho letto e apprezzato numerose recensioni e approfondimenti su Mulholland Drive di illustri critici, formandomi un’opinione chiaramente influenzata da persone ben più titolate del sottoscritto. Ma c’è un motivo se ho tenuto fuori dalle riflessioni tutte le altre giustissime chiavi di lettura del film a eccezione di quella psicanalitica: trovo che quest’ultima sia la più potente e il motivo cui far risalire il successo della pellicola.
Mulholland Drive è riuscito a rappresentare meglio di altri la nostra condizione postmoderna. La pericolosità delle zone più profonde della mente, la riflessione condotta intorno al tema dell’integrità psichica dell’individuo, lo smarrimento dell’uomo contemporaneo in una realtà senza saldi appigli sono argomenti che il film affronta in maniera più o meno velata e sentiamo tutti molto vicini. Nel parlare di malesseri attuali, Lynch sceglie di raccontare una storia semplice tramite il mezzo filmico: quale modo migliore per trattare il tema dei sogni infranti se non attraverso il luogo della finzione per eccellenza? Da un simile punto di vista siamo davvero attori sul palcoscenico della vita, gli uno nessuno e centomila di pirandelliana memoria. Naomi che interpreta Diane che interpreta Betty e Laura che interpreta Camilla che interpreta Rita sono maschere come quelle indossate da noi tutti nella vita quotidiana. Ma ritengo che la disperazione emanata dal film abbia una via d’uscita e una lezione morale si può trarre: liberarsi delle paure, uscire dal rifugio confortevole ma alla lunga mortifero del proprio io, affrontando la realtà, è l’unico modo per tornare a vivere davvero. C’è sicuramente molta spiritualità in una visione simile che penso non sia del tutto una sovrainterpretazione, fosse solo per quell’assidua frequentazione dell’autore con la pratica della meditazione trascendentale.
Lo stesso Lynch, che non ha mai davvero chiarito nulla del film, su questo argomento ha di recente speso alcune parole: “(Il film) parla dell’ego e della sofferenza nel paragonarsi agli altri. Penso che per essere davvero liberi e felici occorra uccidere l’ego: secondo la mia visione è questo il significato del cadavere nel finale. Ma, come ho detto, è un viaggio che lo spettatore stesso deve compiere nella propria mente. Non verrà servito su un vassoio d’argento.”
Ma quindi, alla fine di tutto, Mulholland Drive è davvero “Il miglior film del 21° secolo”? Forse no. Senza dubbio però è uno dei più importanti.
PER APPROFONDIRE:
Sito dedicato al film: http://www.mulholland-drive.net/home.htm
Video
Pilota televisivo originale: https://www.youtube.com/watch?v=kcXt3ufaLgc&t=4658s
Roy Menarini - Il ritorno di Mulholland Drive: https://www.youtube.com/watch?v=hkEVCFdgUHU&t=1210s
Intervista a Mary Sweeney e Peter Demming: https://www.youtube.com/watch?v=VF5fhzPbcjk&t=4537s
David Lynch e Naomi Watts su Mulholland Drive: https://www.youtube.com/watch?v=e_BjbaBEyb4
Interviste agli attori: https://www.youtube.com/watch?v=0VAZa1itYk4&t=9s
Alcuni libri
Paolo Bertetto - David Lynch
Thierry Jousse - Maestri del cinema: David Lynch
David Lynch - Io vedo me stesso
Veronica Pravadelli - Dal classico al postmoderno al global
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