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Piacere, Zorro
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Quando ero piccolo guardavo con interesse Zorro. Mi piacevano Robin Hood e Mandrake. Anche Sandokan, lo ammetto, anche se nel 1976 ero già più grandicello. Per uno strano scherzo della mia memoria pochi giorni fa ho compiuto 57 anni per la seconda volta: fate i vostri conti.

Io intanto ho fatto i miei: due conti, facili facili. Nel 2021 i primi dieci titoli usciti in sala (sinora, ma insomma non manca molto alla fine dell’anno) hanno incassato 53 milioni circa.. Tralasciamo il fatto che sia meno di quanto nel 2020 incassò il solo film in testa alla classifica, Il Re Leone, che portò a casa quasi 57 milioni: nessun paragone è possibile. È anche difficile dire - visto che non abbiamo ovviamente ancora il totale dell’anno - che proporzione ci sia tra l’incasso totale e quello dei primi dieci. Possiamo però vederlo nel passato: sempre nel 2019 il totale fu di 635 milioni, e i primi dieci incassarono 233 milioni: un 35% circa. Secondo me - a occhio - i 53 milioni realizzati sinora dai primi dieci titoli di questo anno sono almeno il 50-60% del totale, se non di più. È un anno orribile per il cinema, peggio del 2020.

Bene. Di questi 53 milioni, ben 22 sono stati realizzati dai film della Marvel usciti quest’anno: Venom, Eternals, Black Widow e Shang-Chi. Quattro titoli Marvel si sono spartiti il 40%. degli incassi dei primi dieci film dell’anno.

Ora sarebbe bello raccontare come la Marvel sia passata nel giro di dieci anni a diventare questo fenomeno mondiale: “In poco più di dieci anni i Marvel Studios hanno costruito una storia composta da più di 20 film e lunga più di 50 ore che ha portato incassi mondiali per oltre 20 miliardi di dollari;” dice Gabriele Gargantini nel suo documentato articolo sul Post uscito un paio di anni fa (i numeri andrebbero aggiornati). Se volete scoprire come ciò sia successo vi rimando a quel pezzo: è una storia interessante e si ricollega ad alcuni percorsi fatti di recente (quello sulla Disney e quello sulla Metro-Goldwyn-Meyer) sul legame tra vicende produttive e dinamiche aziendali e manageriali nelle major. A me qui interessa però altro: mi interessa far notare che si tratta di film di supereroi. Non è una cosa che possiamo far passare sotto silenzio: sono stati molto bravi quelli della Marvel, certo, ma hanno incontrato un pubblico che alle storie di supereroi si interessava. Molto, direi.

Non sono un esperto del mondo dei supereroi, lo ammetto, e so che devo quindi essere molto molto cauto, perché è un mondo complesso, dove saperla lunga conta. Ci saranno tra di voi migliaia di persone molto più competenti di me in materia. Ma ho letto molto in questi giorni e poi, per guardare questa cosa da così lontano e vederla in prospettiva, non serve forse essere tanto addentro.

La prima domanda che mi sono fatto è: ma cosa è un supereroe? L’ho chiesto in giro e la risposta immediata è più o meno sempre stata: uno con dei superpoteri. Però questo non basta: non è che se uno ha un superpotere diventa automaticamente un supereroe. Dipende molto da come lo si usa, quel potere.

Sono un’invenzione nuova i supereroi? Non direi. Guardiamo indietro. Tutta l’epica si è nutrita di eroi, più o meno dotati. Gli dei dell’Olimpo e tutti gli eroi greci hanno molto in comune con i moderni supereroi, e alla Marvel lo sanno benissimo. Anche la mitologia norrena concorda: qui il legame si fa così esplicito che il dio Thor oggi combatte a fianco degli Avengers. Oserei dire che, con tutte le differenze del caso, anche i santi della cristianità stanno dalle quelle parti. In fondo i santi rispondono a un bisogno di reintrodurre nel monoteismo un panteismo in maschera: qualcuno di più vicino a noi del “Padre che sta nei cieli”, con cui contrattare un po’ più alla pari. E poi un po’ di superpoteri li hanno avuti anche loro: io per esempio sono devoto a San Giorgio, che alla fine è stato fatto santo perché sostanzialmente ha ucciso un gran cattivo, il drago. E mi è sempre anche piaciuto San Giuseppe da Copertino, che aveva il dono di volare. Ma permettetemi di dire che anche Zorro, Sandokan, Mandrake o Robin Hood erano a modo loro supereroi. E non solo perché mascherarsi da uno di loro a Carnevale era un’alternativa possibile a indossare il costume di Superman. Avevano a modo loro dei poteri - o quanto meno delle abilità speciali - che fosse maneggiare il fioretto o tirare con l’arco. Erano più o meno in maschera (alcuni di loro avevano proprio la mascherina sugli occhi) e sbaragliavano i loro nemici.

 

È stato scritto molto intorno ai supereroi. E ovviamente anche gli psicologi si sono interessati alla questione. È stato proprio leggendo alcuni articoli di psicologia che ho capito che forse stavo prendendo un abbaglio. Avevo sempre creduto, senza mai rifletterci su a fondo, che i supereroi interessassero soprattutto al loro pubblico adolescenziale (quale che sia l’età anagrafica, in fondo il target è quello) per via della loro “diversità”. L’adolescente - magari ancora alle prese con fantasie del pensiero magico infantile - vive con ansia la propria trasformazione e tendenzialmente si percepisce come diverso: “Fuori di testa, ma diversi da loro” cantano i Måneskin (che nei loro look qualche debito nei confronti della Marvel ce l’hanno: cavoli li ho visti persino vestiti da Capitan America). Il superpotere (e in questo mettiamoci dentro anche l’ultima versione dei vampiri à la Twilight) diventa quindi segno di una diversità radicale dagli altri, di una diversità che va tenuta nascosta, che può anche essere potenzialmente distruttiva. Pensavo alla fine che l’accento, nella parola composta super-eroe, fosse sulla prima parte: che fosse infine sulla diversità/unicità che si giocasse il meccanismo identificativo.

Ma a sentire i tanti psicologi che si sono cimentati, l’accento va posto invece sulla seconda parte, soprattutto quando si guarda, oltre alla relazione con l’individuo, a quella con la comunità. È semmai l’eroismo che conta di più, nel bilancio finale: nel gioco di finzione i cui indossiamo i panni di un supereroe (e il gioco di finzione, il “facciamo che io ero” ha una parte determinante nella formazione del super Io infantile) conta la costruzione di un vocabolario di valori e di emozioni. La maschera, e il superpotere, sono strumentali quindi a una sorta di catechesi laica. Se l’origine del superpotere si deve sostanzialmente a un trauma (Iron Man), al destino (Buffy) o al caso (l’Uomo Ragno) quello che conta è l’elaborazione dell’evento nel personaggio - il superamento del dilemma morale e la scelta finale prosociale - che fornisce modelli di comportamento. A Kyoto si sono messi persino a studiare le reazioni dei neonati di sei mesi, arrivando a dimostrare che l’ammirazione per gli atti di eroismo e quindi il senso di giustizia siano innati.

“Alla fine, le storie di origine dei supereroi ci ispirano e forniscono modelli per affrontare le avversità, trovare un significato nella perdita e nel trauma, scoprire i nostri punti di forza e usarli per un buon scopo. (Indossare un mantello o una calzamaglia è facoltativo).” dice la psicologa Robin S. Rosenberg, che ai supereroi si è molto dedicata.

Alla fine pertanto, forse, non è il superpotere che conta. Conta soprattutto come lo si usa.

Che sia questo allora il motivo del rinnovato interesse collettivo per i supereroi? Che dietro a tutte le scene fantastiche - ai botti e alle botte, alle fiamme, ai raggi laser, alle spade e ai martelli - ci sia un’umanità bambina che sta ancora dibattendosi su questioni base e che debba abbeverarsi a storie che offrono modelli possibili?

 

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