Dopo essere stato presentato come evento alla Festa del Cinema di Roma, E noi come stronzi rimanemmo a guardare è approdato come evento speciale nelle sale di tutta Italia il 25 ottobre per rimanervi fino al 27 prima di andare in onda sui canali Sky Cinema.
Targato Wildside, il terzo film da regista di Pif racconta la storia di Arturo, ritrovatosi per colpa della tecnologia e dello spauracchio “algoritmo” a essere licenziato, a perdere la fidanzata e a trovare occupazione come rider per conto di una multinazionale. Quello che doveva essere un lavoro in grado di cambiare in meglio la vita di Arturo si trasforma presto in un incubo vero e proprio che accentua la sua solitudine e il suo bisogno di contatto umano. Contatto che un’ulteriore app sviluppata dalla stessa multinazionale per cui lavora gli garantisce tramite un ologramma.
Definito come un esempio di cinema politico 2.0, E noi come stronzi rimanemmo a guardare ha permesso a Pif di cimentarsi con tematiche che nel Terzo Millennio dovrebbero alimentare il dibattito pubblico e che invece vengono stranamente prese sottogamba. L’attenzione per mondo del lavoro, il progresso tecnologico e l’avanzata senza ostacoli della “disumanizzazione” trattati in maniera comica, con sprazzi di surrealtà e grottesco, rendono il film una sorta di manifesto in grado di offrire una lucida lettura sul nostro oggi, sebbene la storia sia ambientata in un futuro prossimo non meglio precisato.
È lo stesso Pif a raccontare la genesi e il significato del suo lavoro.
Visionario, coraggioso e folle: E noi come stronzi rimanemmo a guardare nasce da un concept del collettivo I Diavoli, Candido e la tecnologia, che rimanda senza nascondersi al personaggio di Voltaire e al suo racconto filosofico, ripreso anche da Leonardo Sciascia. Vivere nel migliore dei mondi possibili era il messaggio originario. Qual è invece quello del tuo film? Davvero “un domani le cose potrebbero essere peggiori”, come dice uno dei personaggi prima del finale?
La prospettiva è quella. Succederà, se non facciamo niente. La tecnologia e il suo progresso non hanno nulla di negativo: il cattivo è l’uomo che usa la tecnologia nel mondo del lavoro in maniera sbagliata. Il progresso della tecnologia viene presentato sempre come una gran figata e dal punto di vista dell’utilizzatore lo è. Si è a casa, si guarda un bel film in televisione, si ordina una pizza che ci verrà consegnata: è comodità assoluta, non si deve nemmeno tirare fuori il portafogli. Si deve solo premere un tasto. Però, spesso, dall’altra parte, per offrire tali servizi, è in atto un vero e proprio sfruttamento: fighi per noi consumatori, i servizi non lo sono per chi si adopera per portarli a termine.
Il simbolo di questo sistema è diventato ormai il rider, che già a partire dalla sua immagine non lascia adito a dubbi: ha sulle spalle un cubo che metaforicamente indica il peso del lavoro che è chiamato a compiere. Il protagonista di E noi come stronzi rimanemmo a guardare è un rider perché il rider è il moderno simbolo dello sfruttamento del lavoro. E non è lontano da noi: è sotto casa, lo vediamo tutti i giorni.
La tecnologia, ci facilita la vita, ma bisogna mettere dei paletti. Ci sono, invece, molte aziende che non vogliono alcun paletto. Non voglio fare il comunista ma ci sono intercettazioni di aziende, condannate in tribunale per sfruttamento del lavoro, in cui si dice esplicitamente di non rivelare all’esterno di aver creato “un sistema per disperati”. Siamo partiti dallo Stay hungry, stay foolish di Steve Jobs, dall’avere una visione e guardare al futuro con un pizzico di follia, per arrivare a un sistema per disperati. Si parla di gig economy ma la traduzione dovrebbe essere “sistema per disperati”.
Come sei venuto a conoscenza del concept e quali modifiche sono state apportate in fase di sceneggiatura?
Il film è molto diverso dal concept. Il collettivo I Diavoli fa un ottimo lavoro: ha un blog in cui racconta cosa succede, soprattutto, cosa succederà nel mondo. Ci è stato utile per capire l’andazzo, che direzione sta prendendo il tutto. Il resto della storia è tutto lavoro originale.
Per la prima volta non sei il protagonista di una storia da te diretta ma ne sei testimone partecipe. A cosa si deve tale scelta? Cosa ti ha spinto a scegliere Fabio De Luigi e ad assegnare a lui il ruolo del protagonista Arturo, un quarantottenne chiamato a confrontarsi con le difficoltà che il mondo del lavoro contemporaneo riserva a chi oramai per i suoi standard non è più giovane?
Dopo In guerra per amore, il mio secondo lungometraggio, ho capito tante cose, tra cui che non riesco a fare il protagonista e il regista soprattutto per film così impegnativi. Ero partito dall’idea di dover essere io il protagonista ma, ricordandomi della fatica che ho fatto per In guerra con amore, mi sono fermato. La domanda successiva è stata: Chi prendiamo?. Potevo prendere un attore molto diverso da me ma, forse, sarebbe cambiato molto. Alla fine, ho pensato a Fabio De Luigi perché abbiamo in comune una cosa che a me diverte e piace molto, i personaggi che interpretiamo subiscono e non aggrediscono. I protagonisti dei film che ho girato finora sono tre che annaspano cercando di rimanere a galla e non hanno un atteggiamento aggressivo: sono gli eventi della vita che, un po’ in ritardo rispetto agli altri, fanno capire loro che strada prendere. Fabio incarnava molto bene Arturo.
Ilenia Pastorelli è Stella, un ologramma. Facile pensare aHer di Spike Jonze, dove però il tutto ruotava solo intorno a una voce. Come hai lavorato sulle analogie e sulle differenze per raggiungere un risultato sorprendentemente originale?
Her è stato utile per vedere come deformare una realtà. La vera fonte di ispirazione è Playtime di Tati, ne distribuivo dvd a destra e a manca: è un film clamoroso. Her è stato un modello per capire come rappresentare un futuro prossimo. Di film con un protagonista che si innamora di un ologramma o di qualcosa di artificiale ce ne saranno venti miliardi. Playtime, invece, è stato molto più di ispirazione.
Raffaello, il tuo personaggio, è un professore di filologia romanza che “arrotonda” con un mestiere alquanto di moda: l’hater. Dalle lingue neolatine passa abilmente alla lingua dei social, un linguaggio 2.0 fatto di slogan, luoghi comuni, parolacce e strafalcioni, a cui tenta di dare una certa nobiltà. Da dove nasce l’accostamento così antitetico e, se vogliamo, surreale?
Raffaello nasce per evidenziare che viviamo in un momento in cui, nonostante gli sforzi per studiare, la società non riconosce il tuo valore e i tuoi studi. Quindi, anche le persone che fanno degli studi nobilissimi sono costrette alla fine a scendere a compromessi. È la società che ti spinge a non dare valore allo studio, all’impegno o alla fatica.
Fuuber e i suoi derivati fanno chiaramente riferimento a tutte le moderne applicazioni che, nella sfera solitaria dell’uomo moderno, sopperiscono a bisogni ed esigenze con un solo clic. Siamo così schiavi della tecnologia e così poco attenti alle privazioni che comportano?
Si. Anche se adesso non sono così catastrofico. La questione privacy ce la siamo oramai ampiamente giocata. Diamo fin troppa fiducia alla tecnologia e meno a noi. Sono tanti gli esempi concreti. Quando dobbiamo cercare una strada e il navigatore non ci dà la risposta facendoci vagare, è solo dopo tanto tempo che ci fermiamo per chiedere indicazioni a qualcuno. Quando è nata mia figlia, non capendo all’inizio il motivo dei pianti, mi sono affidato a un’app (che ho anche comprato, aspetto che irrita perché l’app deve essere gratis!) che, avvicinando il telefono alla bambina, a secondo di come piangeva mi diceva se aveva fame, sete o altro. In realtà, è una stupidata: solo l’esperienza e fare secoli da papà danno le risposte. Questo è il vero atteggiamento pericoloso: se perdi la fiducia in te stesso e nell’uomo affidandoti completamente alla macchina, ti ritrovi di fronte a queste ridicolaggini.
Nel tuo film la ribellione del protagonista nasce da un motivo particolare. Da dove dovrebbe partire la ribellione quando, come si evidenzia nel film, siamo stati noi stessi ad aver regalato le nostre vite?
Dovrebbe nascere da una presa di coscienza. La tecnologia viene applicata in maniera subdola anche nel mondo del lavoro. C’è un deterioramento dei diritti del lavoratore. Non è che prima del diffondersi dell’uso della moderna tecnologia non ci fossero gli sfruttati ma c’è stata un’amplificazione del problema. Da consumatori, ci si sente al sicuro, si risparmia tempo e si acquista in comodità. Il lavoro del rider, simbolo di tutti gli altri, viene venduto in maniera accattivante: “sei manager di te stesso, lavora quando vuoi”. All’estero il cosiddetto “lavoretto” di consegna lo fa lo studente, in attesa di quella che sarà la sua effettiva occupazione. In Italia, invece, la situazione è più drammatica: viene svolto da gente che magari dovrebbe godersi la pensione. Non si lavora “quando si vuole” ma quando decide l’algoritmo sviluppato da coloro che ti offrono il lavoro: il tutto diventa più vigliacco perché messo in atto nei confronti di chi non ha altre alternative. Molte aziende (non tutte, fortunatamente) sanno di avere davanti lavoratori senza scelta e sfruttano la situazione. Ecco perché è “un sistema per disperati”.
Politica, ambiente, sociologia e filosofia del lavoro si mischiano nella tua opera offrendo innumerevoli spunti di riflessione. Hai anticipato la solitudine dell’uomo dell’era CoVid, un universo in cui tutti siamo stati e continuiamo a essere ologrammi senza possibilità di contatto. Nel tuo film, il contatto è essenziale. Come sei riuscito, girando prima che la pandemia cambiasse le nostre vite, ad avere una visione quasi profetica dello status quo di oggi?
Quando abbiamo scritto il film, pensavamo a un futuro che sarebbe arrivato tra trenta o quarant’anni. Con il CoVid, il futuro previsto si è accorciato. Arturo, il protagonista del film, ha una relazione a distanza senza possibilità di contatto, ha un datore di lavoro a distanza e non incontra nessuno. È una solitudine che abbiamo vissuto tutti durante la pandemia: la tecnologia ci ha permesso di rimanere in contatto con gli altri ma nella pratica eravamo soli.
Del resto, si tratta di argomenti che affronti anche in Il testimone, la serie di documentari inchiesta la cui nona stagione è appena partita su Sky. Preferisci il racconto da fiction, dove puoi orchestrare una messa in scena che spazia da un genere all’altro citando Tati, Jeaunet, Andersson e persino Hair o Willy Wonka, o quello del reale, senza filtri, sporco, nudo e crudo?
Non ho una preferenza, mi piacciono entrambi i tipi di racconto. Il testimone e quel modo di fare televisione li percepisco come un’opportunità per raccontare la realtà. Non riesco ancora a pensare o scrivere film che siano ambientati nel presente. La mafia uccide solo d’estate affrontava varie epoche, dagli anni Settanta al 1992, In guerra per amore era situato negli anni Quaranta e E noi come stronzi rimanemmo a guardare proietta in avanti. Non riesco a concepire il cinema come racconto della realtà. Il reale, il presente, è raccontato a Il testimone, che è più immediato e ancorato all’attualità. Dovrei cominciare a imparare a fare film che raccontino il contemporaneo.
Io ce l’avrei un soggetto, la storia delle sorelle Pilliu, di cui hai raccontato le kafkiane vicende in Io posso, libro scritto con Marco Lillo. Cosa ne pensi dell’idea di farne un film?
È una storia che si presta molto. Quando scrivo libri, scrivo soggetti di film. Nella mia testa, un libro è un soggetto di film. C’è stato anche un interessamento da parte del mio produttore e non escludo di girarlo. Però voglio farlo quando la loro storia sarà definitivamente finita. Ancora è troppo presto: lo farò il giorno in cui riuscirò a ricostruire quelle casette (che ancora oggi appaiono come ruderi nel paesaggio della Palermo moderna, ndr).
Per la prima volta, non giri in Sicilia.
È vero: è la prima volta che non giro in Sicilia. Ci è stato un momento in cui c’era l’ipotesi di farlo. Mi servivano però delle ambientazioni un po’ moderne, che la Sicilia non tanto offre. Ho finito con il girare un po’ a Torino, un po’ a Milano e un po’ a Roma. Ufficialmente la storia si svolge a Roma ma le riprese si sono svolte nelle tre diverse città. Volevo creare un quartiere un po’ eco friendly, dove non entra il motore a scoppio, anche per una sorta di paradosso: i ricchi sanno i danni che provocano le macchine ma chi può permetterselo vive in una zona “pulita”.
Non ora e non qui: è il tempo del racconto del tuo film, ambientato in una Roma che potrebbe tranquillamente essere anche un’altra città. Qual è invece il qui e ora di Pif?
Ho 49 anni e comincio a capire che, non voglio farla drammatica, la creatività di un artista non dura tanto. Ci sono casi eclatanti, certo. Ho pensato quindi che non ho molto tempo e devo fare tanti film perché ho molte cose ancora da dire. Fare un film richiede tempo da quando lo si scrive a quando lo si finisce. Per questo ho impiegato tre anni: arrivando a cinquant’anni non c’è più tempo per prendersi tutto questo tempo. Quante cose avrò ancora la lucidità di raccontare?
Voglio cambiare il mio approccio alla vita. Non hai più il lusso di prenderti troppo tempo. È importante quello che a parole si dice sempre: godersi il momento. Essere diventato papà mi ha fatto capire quanto è importante esserci in quel momento anche per mia figlia. È il periodo in cui sto segnando i ricordi di infanzia di mia figlia e sappiamo quanto sia importante da adulti avere buoni ricordi. La paura di non essere creativo come voglio e la responsabilità dell’essere padre, un ruolo non facile dato che qualunque cosa fai segni la vita dei tuoi figli, mi stanno rivoluzionando.
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