Tutto appare relativo dopo le parole di Gabriele Muccino e anche nel mentre, quando blatera in un flusso di coscienza straniante e stranito di evoluzione della specie e dell’homo sapiens e di come la natura umana non sia cambiata molto nel corso dei secoli (uomo cacciare/donna organizzare casa) e di come la famiglia (normale, allargata, quella che ti pare) rimanga il nucleo sociale di tutti i conflitti e invece, pensa un pò, se la famiglia fosse uno spazio armonico tutti questi conflitti finirebbero e si vivrebbe molto, ma molto meglio e lui, purtroppo, non ha incontrato lungo il suo cammino registi alla sua altezza e dio mio quanto ne avrebbe avuto bisogno e poi arrivano la tragedia e la commedia e Chekhov e Shakespeare e anche Bergman, che ci sta sempre bene e usiamo questo aggancio per tornare a parlare di cinema, che lui, Muccino intendo, la televisione non la voleva fare ma ha accettato di girare una serie (ben otto episodi, quasi la durata di quattro lungometraggi!) perché avrebbe usato il suo linguaggio filmico, il suo stile, senza scendere a compromessi con il format televisivo, certo qualche primo piano in più ma poi solo la sua maniera di girare e poi ancora l’importanza degli attori, presenti in sala, mentre qualcuno se ne esce con il concetto di uomo/donna mucciniano/a ovvero un essere in cui le emozioni si centrifugano a velocità incredibile, in cui tutto viene sconvolto dalle passioni e questo ti fa crescere anche fuori, nella vita reale e poi non so da dove arrivano le parole di una produttrice di Sky che ripete come un mantra aziendale i termini talento, contemporaneità e un altro che non ricordo perché ero già fuori dalla sala anche se il mio corpo rimaneva seduto, ascoltando, quasi in stato di trance, ipnotizzato e disgustato dall’ego trip di chi avevo davanti, ho applaudito alla fine o le mie mani lo hanno fatto o quelle di un altro me stesso e poi me ne se non andato.
I monologhi di Gabriele Muccino sono comunque degni di nota.
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