
Sono giorni complicati per il nuovo amministratore delegato della Rai Carlo Fuortes, figura fortemente voluta dal Presidente del Consiglio Mario Draghi e insediatosi da poco, a luglio 2021, con il poco invidiabile incarico di aggiustare il bilancio delle tv pubbliche in uno scenario competitivo di grande complessità. Vediamolo insieme questo scenario, perché nel panorama ci siamo anche noi, con il nostro fondamentale ruolo di spettatori e contribuenti.
Come la maggior parte delle aziende che operano nel campo dei media anche la Rai deve fare i conti con le tipiche variabili che incidono sul bilancio. Ci sono gli investimenti, ossia i soldi che ogni anno devono essere stanziati per adeguare, ad esempio, le infrastrutture alle richieste del mercato, ci sono i costi di produzione dei programmi che fanno parte del palinsesto, ci sono i costi di acquisizione dei diritti televisivi di film, serie tv ed eventi sportivi, ci sono i costi strutturali fissi (stipendi di dirigenti, quadri e personale) e infine ci sono i ricavi, che nel caso della Rai provengono da due fonti, la pubblicità e il canone.
La pubblicità dipende principalmente da due variabili di cui una è la grandezza (e anche la composizione) dell'audience - ossia noi che guardiamo e che componiamo il target - e l'altra è la quantità di spazi pubblicitari che possono essere piazzati prima, dopo e all'interno dei programmi che guardiamo. Su entrambe le variabili la Rai ha due grandi problemi, il primo riguarda il fatto che la televisione, chiamiamola tradizionale, perde spettatori anno dopo anno, quindi il bacino di utenza si restringe, quindi gli spazi pubblicitari hanno meno valore o perlomeno una concorrenza sempre più spietata. Il secondo problema riguarda il fatto che le norme europee che regoleranno l'affollamento pubblicitario del prossimo triennio (ossia il rapporto tra programmi e spazi pubblicitari) prevedono sostanziali riduzioni percentuali su determinate fasce orarie, quelle più pregiate, il che significa meno spazi pubblicitari da vendere e ricavi in sofferenza.
Se sul fronte della pubblicità non c'è molto da fare, salvo invocare deroghe di difficile attuazione a regolamenti europei, l'unica componente di ricavi sul quale sarà possibile lavorare riguarda il già abbastanza inviso canone televisivo di 90 euro che dal 2017 viene pagato, in rate trimestrali, direttamente all'interno della bolletta elettrica. Sui ricavi derivanti dal canone tv, quindi, si giocherà la maggiore partita Rai dei prossimi mesi.
Nel corso di una audizione presso la commissione di vigilanza Rai, infatti, l'amministratore Carlo Fuortes ha presentato pochi giorni fa un quadro molto specifico e piuttosto fosco in cui, con pragmatismo estremo, mette in evidenza alcuni punti fondamentali che riguardano i ricavi del canone. Il primo punto riguarda il fatto che da sette anni una consistente fetta degli introiti derivanti dal canone (1,7 miliardi di euro annui) viene trattenuta dallo stato come concessioni governative, pagamento dell'Iva e per alimentare il fondo per l'editoria, la somma delle trattenute complessive esercitate dallo stato in sette anni ammonta a circa 2,4 miliardi di euro. La richiesta di rinunciare a queste trattenute ha già provocato reazioni scomposte da parte della Federazione Italiana Editori Giornali che vede in pericolo i fondi destinati a sostenere l'editoria, già in affanno in un mercato non esattamente florido. Per inciso non capisco per quale motivo il fondo per l'editoria - al netto del dibattito sulla sua reale utilità così come è strutturato - debba essere alimentato direttamente dal canone Rai, non vedo proprio quale debba essere il vincolo tra un canone pagato per sostenere il servizio televisivo pubblico e un fondo statale per sostenere quotidiani e periodici.
Il canone inoltre, prosegue l'amministratore delegato, andrebbe adeguato agli standard europei e quindi aumentato per allinearsi a quello inglese, francese, tedesco. E qui a scomporsi invece sono stati i personaggi politici specializzati nella difesa delle "tasche dei cittadini" pur di guadagnarsi qualche titolo di giornale a suon di virgolettati roboanti. L'ultimo punto che affronto è anche quello che ha ottenuto maggiore visibilità e che probabilmente, in varie forme, potrebbe essere arrivato anche alle vostre orecchie: la possibilità che il perimetro di applicazione del canone Rai possa essere esteso anche al mero possesso di tablet e smartphone. Ed eccoci qui, al punto nodale che affronto qui, dopo un po' di spiegazioni (troppe?), non per semplice snobismo, non perché voglia differenziare questo testo da tanti altri che hanno invece usato questo pezzo di informazione fin da subito perché tocca con maggiore immediatezza tutti, ma perché penso che rappresenti al meglio l'ultimo nodo da sciogliere, cosa che include la possibilità che le domande e le risposte siano nelle pieghe di tutti noi, principalmente per la nostra qualifica di spettatori, prima ancora che, volgarmente, di contribuenti.
Perché se mi è chiaro che il servizio pubblico televisivo modella il suo palinsesto sulla morfologia di una audience consolidata in specifiche fasce anagrafiche, penso anche che a tendere queste fasce rischino di non essere più sufficienti per sostenere la grande macchina di un'azienda che per forza di cose deve fare i conti con la concorrenza rappresentata dalle piattaforme e da consumi che si spostano anche solo banalmente di "stanza" e quindi di device di riferimento. L'assioma "consumiamo la Rai anche da smartphone e tablet quindi anche il possesso di smartphone e tablet deve entrare nel perimetro di chi paga il canone" è valido solo in funzione di investimenti che vanno pianificati per catturare specifiche audience. Questo non significa aspettarsi che un servizio pubblico debba, ad esempio, forzatamente allinearsi su una televisione di stampo giovanilista, ma che potrebbe lavorare per rendere "uniche" e "indimenticabili" anche scelte semplici come quelle di programmare film e serie, laddove arricchite da ospiti, presentazioni, contributi originali, approfondimenti, che diano un nuovo, nel senso di innovativo, senso al termine "servizio pubblico". Se volete i soldi del canone sugli smartphone, almeno presentate un bel piano di sviluppo strategico di RaiPlay (che peraltro è un gioiello e sulla quale sarebbe possibile investire in termini di qualità con costi contenuti), basterebbe anche un banale "se ci date i soldi del canone sugli smartphone noi potremmo realizzare questo e quello". Se poi questo lavoro innovativo fosse fatto in sintonia con l'inserimento strutturale del cinema come materia di studio - o sostegno allo studio - nelle scuole e nelle università allora ecco che tutto avrebbe più senso. Perché in altri paesi il cinema nella scuola secondaria si fa eccome (per una volta ad ispirarmi non è stato mio nonno ma mia figlia, ha!). E tra servizi pubblici potreste anche darvi una mano, su, da bravi.
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