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Come decide chi decide? (e anche: chi decide chi decide?)
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Io ammiro la mia portinaia. Sto in un grande palazzo di otto piani, due scale, un grande cortile piantumato, i box. Tutte le mattine, quando arrivo nel mio studio, lo immagino come una grande nave e penso a lei come il suo comandante. Non so quali titoli abbia e come sia arrivata al ruolo, ma di certo è la persona giusta al posto giusto. Ha tutto sotto controllo, dalle sale macchine al rapporto con i fornitori, dalla gestione della quotidianità (le pulizie, la valanga di sacchi d'immondizia) al rapporto con la clientela: i condomini, gli inquilini. È qualificata e gentile e guida con sicurezza questo vascello immobile da - credo - quindici/vent’anni.

È quasi lo stesso periodo tempo durante il quale Bob Iger è stato al comando di Walt Disney Company, Disney per gli amici. Salito in sella nel 2005 con la carica di amministratore delegato (per gli anglofoni CEO, Chief Executive Officer: quello che decide, il capo dei capi) se ne è andato ufficialmente il febbraio del 2020 (tempismo perfetto: un attimo prima della pandemia), ma nella sostanza ha accompagnato il suo successore, Bob Chapek, praticamente fino all’altro giorno.

Questo avvicendamento che segna la fine di un’era - mi ha motivato a guardare un po’ alla storia della Disney: la storia dell’azienda, le fasi che ha attraversato, le scelte che sono state fatte. Potremmo dire che in sostanza i suoi quasi cent’anni di storia (è nata nel 1929) si sono divisi sin qui in quattro fasi, quattro grandi regni. Il primo è stato quello che è andato dal 1929 al 1971: sono gli anni dell’inizio e dell’espansione. A guidarla furono naturalmente loro, i due fratelli fondatori: Walt Disney, genio creativo e Roy Oliver, che si è sempre occupato della gestione degli affari, con il titolo di CEO, appunto.

Dal 1971 al 1984 c’è stata un po’ di maretta: i CEO che si sono succeduti alla morte di Roy O. (Walt era già morto nel 1966) furono tre, Donn Tatum, Card Walker e Ron W.Miller. Già il fatto che durarono tutto sommato poco dà l’idea che le cose erano agitate, come spesso nelle aziende quando cessa la conduzione dei fondatori/visionari e subentra quella dei manager. Le azioni, in crescita fino al 1972, persero due terzi del loro valore. E se fate caso, dando un’occhiata alla timeline, in quegli anni non uscì davvero nulla di memorabile. Il vuoto creativo, totale, culminato nel mezzo flop di Tron (1982).

Nel 1985 la svolta: prende il timone Michael Esner, durato fino al 2005. Esner arrivava prima dalla ABC poi dalla Paramount, aveva le idee chiare. I suoi anni furono quelli della cosiddetta Disney Renaissance: la rinascita. E dopo la parentesi buia degli anni ’70 la vena creativa della società si rianimò, tornando a fare grande animazione. Bastano una manciata di titoli per farsi un’idea: La sirenetta (1989), La Bella e la Bestia (1991), Aladdin (1992), Il Re Leone (1994) Pochaontas (1995) e ancora Mulan (1998) e Tarzan (1999). Si moltiplicarono inoltre i parchi a tema (voce importante del bilancio aziendale).
Esner resistette a lungo, alla fine però se ne andò sbattendo la porta: contestato dal consiglio di amministrazione - fronda guidata da Roy E. Disney, figlio di Roy O. - e accusato di una gestione troppo verticistica, Storie di soldi e di potere, diciamo.

Fu così che nel 2005 arrivò Bob Iger: come il suo predecessore con una solida carriera alle spalle nella televisione, presidente della ABC (anche quando questa fu acquisita proprio da Disney). Il regno di Iger è stato appunto all’insegna delle acquisizioni, dell’espansione. Sotto di lui la Disney si è presa la Pixar (7 miliardi) di dollari, la Marvel (4 miliardi), la Lucasfilm (4 miliardi), la Fox (71 miliardi). Una crescita premiata dagli incassi e dalla borsa: nel suo periodo il valore delle azioni Disney (DIS:NYSE, quotata dal 1957) è cresciuto da 48 a 257 miliardi di dollari.

Ora Iger ha finito il suo ben remunerato compito (circa 40 milioni di dollari all’anno, 157 mila al giorno) e di lui la CNN ha detto che se ne va “la seconda persona più importante nella storia della Disney dopo Walt”. Del resto più di una volta qualcuno ha parlato di lui come di un possibile candidato alla Casa Bianca.

Di Bob Chapek, il suo successore, sappiamo che è un uomo ossessionato dai numeri, dai “big data”. È cresciuto occupandosi di distribuzione e dei parchi a tema, facendo investimenti mostruosi (24 miliardi, più di quanto intanto Iger aveva speso per prendere Pixar, Lucasfilm e Marvel messi assieme). Sappiamo che ha sempre tenuto poco da conto la questione delle proprietà intellettuali e che si è subito messo in una brutta storia con Scarlett Johansson, che ha fatto causa alla Disney per una questione legata ai compensi di Black Widow, anche se poi alla fine qualche giorno fa si sono messi d’accordo. Non a caso si parla in questi tempi di una brutta fuga di creativi dalla società: che ci stanno a fare in una compagna che, come ha detto Chapek, sarà “data-driven” (e cioè governata dai numeri)?

Se guardiamo quindi a queste quattro fasi - con la quinta che è appena iniziata - potremmo trarne uno schema.

1) La nascita e il primo periodo, guidata da creatività e visione.
2) La crisi in seguito alla morte del fondatore.
3) L’industrializzazione dei processi, la rinascita sotto un management illuminato.
4) L’espansione, l’acquisizione dei concorrenti.

Sarebbe bello e facile legare questi periodi alle opere che sono state prodotte, ma non ne abbiamo lo spazio. Mi piace far notare che i grandi successi del periodo di Iger sono però in buona parte dovuti alle acquisizioni. I film sui supereroi Marvel, la ripartenza della saga di Guerre Stellari, i bei film Pixar. Alla creatività si sovrappone la sequenzialità: più che di nuove idee, parliamo di monetizzazione seriale e industriale di idee già collaudate.

La domanda che mi faccio ora è: che ne sarà di Disney? Cosa uscirà nel prossimo decennio? E soprattutto: si può guidare un’azienda che dovrebbe essere una fucina di creatività guardando ai numeri?

 

Quello sopra è il biglietto da visita di Walt Disney, prima che fondasse l’azienda. Cartoonist: è ben chiaro quale fosse il suo mestiere. I suoi successori invece sono tutti stati manager: uomini di marketing, di strategie, di finanza. Alcuni hanno saputo fare la cosa giusta, ma in qualche modo - quando le cose gli sono andate bene, molto bene anche - hanno solo ripetuto schemi accrescendone la scala o diversificando e aprendo nuovi mercati. Hanno anche avuto dalla loro enormi mezzi. Ma inventare, inventare davvero è un’altra cosa.

Non è una questione che riguarda solo la Disney. È una questione che investe tutta la società capitalistica: chi - anche avendo il talento - può fare oggi quel che fece Walt Disney? Come si fa a far nascere e crescere un progetto, se non venendo scelti/cooptati da chi è già grande (e per di più quindi rispondendo ai suoi criteri, guidati dai numeri)? Il mercato non sembra più accessibile: l’ascensore sociale è bloccato anche nel mondo dove ciò dovrebbe contare davvero è la creatività. Quanto a lungo potremo andare avanti ricucinando sempre le stesse ricette con gli stessi ingredienti?

La riposta non ce l'ho. Forse una tassa di successione che allo scadere di una generazione ridistribuisca quanto accumulato, evitando che i pesci grossi si facciano sempre più grossi, dettando legge nei secoli senza averne merito. Nel dubbio chiederò anche alla mia portinaia, che è donna di buon senso.

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