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Un, due, tre... stella
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Quattro voti. Sono quelli, fino ad ora, che accompagnano la scheda qui su filmtv.it di Squid Game, la serie che questa settimana ha conquistato milioni di spettatori a tutte le latitudini diventando in pochi giorni la serie Netflix più vista negli Stati Uniti e probabilmente, a breve, la più vista al mondo.

Sono sempre piuttosto sospettoso quando Netflix sceglie di condividere i propri dati di visualizzazione, cosa che ha iniziato a fare da poco con maggiore costanza, perché nella posizione di dominio nella quale si trova e non essendo possibile confrontare quel che annuncia con parametri oggettivi e tanto meno con fonti esterne, ci vuole poco perché Netflix faccia diventare una serie mediamente vista quella più vista solo con la semplice imposizione delle mani, ossia solo "facendola" entrare nelle sue classifiche delle top ten sui mercati che gli interessano e poi aspettare e vedere cosa succede. Quindi generalmente non lascio che siano queste classifiche a determinare il mio grado di interesse ad un prodotto o ad un altro.

Questa volta invece è successo. È successo perché sono stato investito da una miriade di piccoli segnali sotto forma di articoli più o meno accattivanti, ed anche perché è arrivata una segnalazione pesante (grazie a E.) che ha fatto traboccare il vaso. Quindi stamattina di buon'ora mi sono gettato a capofitto nei primi due episodi di Squid Game e ne sono uscito solo perché dovevo riservarmi del tempo per scrivere se no l'avrei probabilmente inghiottita intera, in un binge watching letale.

La cosa buona è che averne visto solo due episodi farà in modo che la quantità di spoiler che sarò capace di riversare qui dentro saranno limitati e mi salverò così dal purgatorio destinato agli spoileratori seriali, quelli che pur incorrendo in un peccato capitale si salvano dall'inferno solo perché sono animati dalla buona intenzione di condividere un prodotto meritevole di attenzione. Un paragone che mi fornisce su un piatto d'argento la parola chiave che mi permette di entrare nel vivo di Squid Game: inferno.

Chiunque viva in questa società capitalistica sa che, nel migliore dei casi, prima o poi dovrà fare i conti con la quantità di denaro di cui dispone. Nel peggiore dei casi, invece, saranno le sue fondanti scelte esistenziali - come decidere su quali studi puntare, a quale lavoro mirare o come mettere a frutto le proprie capacità per ottenerne - ad esserne pilotate. Senza sottovalutare, ovviamente, la regola base della domanda e dell'offerta, perché se no sarebbe troppo facile. È inevitabile, quindi, che prima o poi, nell'esistenza di tutti noi, arrivi il momento in cui si è costretti a domandarsi cosa saremmo disposti a fare per averlo, lui, il denaro.



Molto pragmaticamente la risposta a questa domanda dipende spesso dal grado di disperazione delle nostre esistenze, non c'è da sorprendersi quindi se le premesse di Squid Game sono che esistono persone - prima ancora che personaggi - che, per i più svariati motivi, tutti mediamente validi, sono disposte a partecipare ad un vero e proprio gioco di sopravvivenza che arriva al massacro pur di entrare in possesso di una somma che li risolva una volta per tutte, questi problemi.

E così nel primo segmento del primo episodio di Squid Game, sullo sfondo di una piovosa Seoul tinta in una palette dai colori cupi - sui quali brillano solo i neon che promuovono prodotti e commerci - il focus viene saggiamente messo sulle premesse che muovono i personaggi ad agire, sulla loro appartenenza a questa grande, sfigata, tribù chiamata umanità. In uno scenario sociale che il mondo intero ha imparato a conoscere grazie a Parasite (perché l'inferno dei sobborghi che vediamo a Seoul assomiglia a quelli di Atlanta, Berlino, Marsiglia, Bangkok, Milano o Latina) gli abitanti che vi si agitano e che tentano di sopravvivervi in maniera degna nonostante stiano pagando errori propri, ereditati o semplicemente "sistemici", hanno fin da subito tutta la nostra empatia, che è cosa ben diversa dalla semplice simpatia che, a volte, film e serie riescono a evocare negli spettatori.

E poi, una volta che siamo entrati in questi scampoli di vite, che abbiamo risuonato con le loro sfighe, con i loro grandi errori, con le loro mezze bugie, arriva la mazzata. Ossia il momento in cui questo manipolo di inconsapevoli guerrieri urbani senza arte né parte, armati solo della propria disperazione, si fa irretire dai reclutatori dello Squid Game ed entra in una specie di mini universo parallelo che del mondo capitalistico esterno è una specie di, affatto sublime, sublimazione astratta e in cui i partecipanti scoprono sulla propria pelle che i semplici giochi di tutta una vita come Un, due, tre, stella possono essere letali. E forse lo sono sempre stati fin dall'inizio, ma nessuno se ne era reso davvero conto. In fondo, come cantava Bennato: Il vuoto e poi, Ti svegli e c'è, Un mondo intero, Intorno a te, Ti hanno iscritto, A un gioco grande, Se non comprendi, E se fai domande, Chi ti risponde, Ti dice "è presto", Quando sarai grande, Allora saprai tutto, Saprai perché.


C'è un filo (non) sottile che lega questo testo a quello della settimana scorsa scritto da Bruno intitolato "V per Vaccino". E no, non è il Coronavirus quel filo anche se, a ben vedere, potrebbe essere considerato anche questo un virus al quale non è stato trovato ancora alcun rimedio né una valida alternativa. Intanto c'è Squid Game a ricordarci che questo gioco molto competitivo a cui siamo iscritti e al quale partecipiamo assomiglia molto ad un gigantesco Truman Show, che davanti ai nostri occhi, anzi sopra le nostre teste, vengono sventolate costantemente moltissime carote e soprattutto che quelle scale che dovrebbero elevarci assomigliano tragicamente a quelle di un quadro di Escher. Cose che a qualche livello sappiamo tutti molto bene e che sicuramente sono anche gia state dette e declinate cinematograficamente altrove in maniera Hollywoodiana (The Hunger Games ad esempio) ma che in Squid Game fanno decisamente molto ma molto più male. Perché questo oggetto cinematografico che prende ben più del suo semplice titolo da un antico gioco coreano (il gioco del calamaro) riesce ad essere molte cose insieme ma di certo non è un giocattolone Usa per adolescenti. Una lunga serie di sberle in faccia, quello sì.


Se qualcuno l'ha vista (tutta) può andare a rimpinguare i voti sulla relativa scheda (io aspetto di vederla tutta).

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