Arriva in sala, prodotto e distribuito da Eagle Pictures, Ancora più bello, sequel di Sul più bello, con protagonista Ludovica Francesconi nei panni di Marta, giovanissima senza genitori affetta da una grave malattia. Mentre nel capitolo primo cercava di conquistare il ragazzo pèiù bello della scuola per scommessa, in questo secondo capitolo Marta va incontro a due esperienze cruciali: il primo vero grande amore e il trapianto che potrebbe cambiare per sempre il resto della sua vita. Accanto a lei, ancora una volta c’è la sua scombinata “famiglia”, composta dai fluidi Jacopo e Federica.
I toni scanzonati del primo capitolo trovano conferma in questa seconda parte che rappresenta una bella anomalia nell’asfittico panorama produttivo italiano per cinema per i giovani. Secondo di tre film, Ancora più bello non ha paura di osare sfidando tematiche contemporanee e introducendo nuovi personaggi che la regia di Claudio Norza presenta senza snaturare la natura del racconto iniziale.
Esordiente al cinema, Norza ha alle spalle una lunga carriera nella serialità. Ha infatti alle spalle la regia di serie come Un medico in famiglia, Compagni di scuola e Distretto di polizia, ma anche di prodotti dal respiro internazionale come Penny on M.A.R.S. per la Disney e Marta & Eva, reperibile su RaiPlay.
Con lui abbiamo parlato, in esclusiva, del film, dei suoi personaggi e della sua lavorazione.
Come hai lavorato a quello che è a tutti gli effetti un progetto anomalo per il cinema italiano? Ancora più bello e il prossimo Sempre più bello sono stati girati insieme e poi suddivisi.
Venendo dall’esperienza della serialità televisiva, non ho avuto grandi difficoltà. La difficoltà sta tutta nella direzione degli attori. La priorità era data dalle location: una volta in una location, giravamo tutte le scene previste dai due film. Si trattava dunque di tenere e mantenere sempre la stessa tensione emotiva nell’attore rispettando quello che era il momento del secondo o del terzo film. Occorreva fare attenzione principalmente agli stati d’animo dei personaggi in scena: tra secondo e terzo capitolo cambiano molto dal momento che gli accadimenti sono diversi. Per gli attori non era una passeggiata ma il cinema ti dà un po’ più di tempo per ragionare ed esplorare le scene.
Tu provieni appunto dal mondo della serialità televisiva, girando molto con protagonisti giovanissimi. Come ti sei approcciato all’esperienza cinematografica? Immagino esistano differenze con il mezzo televisivo.
Direi che è la mia specialità quella di lavorare con i giovani. Ho sempre tentato in maniera un po’ presuntuosa di lavorare alle serie come se fossero cinema. La mia grande passione è il cinema ma trovo che le serie ti diano la possibilità di raccontare una storia in più ore, approfondendo personaggi e tematiche. È chiaro che le serie hanno un linguaggio diverso essendo più esposte alla programmazione televisiva mentre il cinema ti permette di raccontare qualcosa in maniera più profonda, lasciando più spazio anche alle immagini: le leggi sono diverse. Entrando al cinema, il film lo vedi. Se stai a casa, invece, con il telecomando dopo trenta secondi puoi anche cambiare canale. La produzione è dunque diversa, anche se ormai mezzi e linguaggi tendono ad avvicinarsi sempre di più, a volte anche in peggio.
Quale è stata la tua formazione?
Sono un autodidatta. Ho cominciato facendo l’assistente operatore, poi l’operatore e il direttore della fotografia in documentari e ricostruzioni fiction. Nel 1988 ho diretto un primo cortometraggio autofinanziato con cui è iniziata la mia avventura con le fiction: l’ho mostrato a Raitre e da lì è cominciato il percorso che mi ha portato fino a oggi. Sono stato abbastanza fortunato.
Sono cresciuto negli anni Settanta e sono stato testimone dei cambiamenti che i vari decenni hanno apportato. Mi piace nel mio lavoro far riferimento alla cultura pop che mi ha accompagnato: mi diverto a ricontattare un po’ tutta la mia vita. Non mi sento l’età che ho e non perché voglia fare il ragazzino o il giovanilista. Semplicemente, ho ancora un certo fermento e cerco di tener vive tutte le esperienze vissute: tenendole vive nella tua memoria emotiva, puoi lavorarci e tirar fuori un sacco di cose molto interessanti. Ti tornano utili anche per condurre gli attori a raggiungere certi stati d’animo o certe emozioni che hai già vissuto in prima persona. In forme diverse, certo, ma che ti aiutano.
Anche visivamente ti accorgi di quanto il mondo è cambiato. Di conseguenze, le esperienze visive giocano un ruolo alquanto importante. Facevo il liceo negli anni Settanta e da allora ho visto trasformarsi il mondo e l’ho visto tornare indietro. È divertente: rivedi il tuo passato che torna in qualche modo ed è più facile rappresentarlo.
L’esperienza ti dà sicuramente maggior autorevolezza sul set, considerando che lavori con attori giovanissimi, spesso alle primissime esperienze.
A me piace lavorare in armonia con gli attori ma anche con tutta la troupe. Mi piace lavorare e ascolto, indagando ovviamente su ciò che ho in testa e che serve per il film o la serie. Quello che mi interessa più di tutto è il lavoro emotivo, emozionale. Penso che quello che conquisti il pubblico è la stessa cosa che conquista me come spettatore: mi piacciono i film che emozionano. Di conseguenza, come regista, cerco con i miei lavori di trasmettere e regalare emozioni.
Nel caso di Ancora più bello ci sei riuscito. Ti confesso che in un primo momento ero prevenuto nei confronti del film. Il cancer movie o comunque il film di malattia è oramai diventato un genere a parte: ti aspetti sempre che vada in un determinato modo. Invece, guardando il tuo film, non si pensa mai alla malattia: c’è, è lì ma non diventa mai ciò attorno a cui ruota il racconto. Si tratta del secondo capitolo di una trilogia e tu entri in medias res ritrovandoti per la prima volta alla regia e a prendere in mano le sorti di personaggi che sono molto diversi dal primo capitolo. Quali sono state le tue scelte e le tue ridefinizioni? La protagonista Marta, ad esempio, cambia tantissimo rispetto a Sul più bello.
La fortuna è quella di avere un’ottima sceneggiatura su cui lavorare. Quando alla base c’è la coerenza, ti rendi conto di come i personaggi riescano a rimanere fedeli a se stessi e allo stesso tempo a cambiare, ad andare in un’altra direzione. La coerenza narrativa è fondamentale, è una delle cose più importanti del cinema. Con una sceneggiatura coerente, è tutto più semplice. Gli attori, inoltre, avevano ormai assunto consapevolezza rispetto al primo film: sono molto talentuosi e affezionati ai loro personaggi. Ciò, seppur nella difficoltà, ha reso tutto più facile.
In Ancora più bello ritroviamo Marta, Jacopo e Federica, che già conoscevamo. Ma c’è anche l’innesto nella storia di un nuovo personaggio, Gabriele, a cui spetta un compito difficile: far dimenticare Arturo. Com’è stato introdurlo nella storia? Pensi sia facile fargli sostituire nell’immaginario dello spettatore colui che è stato l’amore di Marta nel primo film?
Non ci si può non innamorare di Gabriele così come non ci si può innamorare di Giancarlo Commare, che lo interpreta. Porta una purezza nel personaggio che è straordinaria e porta una ventata di amore. Gabriele porta in Marta il desiderio di aprire il suo cuore: Arturo era un capriccio, il bel figo della scuola che la studentessa vuole raggiungere. Con Gabriele, invece, si parla di cuore e di sentimenti veri, che Giancarlo è stato bravo a esprimere, con tutte le difficoltà sull'amore che il personaggio ha a causa dei suoi vuoti, della sua incapacità di essere sereno, di quel cassettino che non ha ancora messo in ordine e della sua fragilità. Ci si innamora dei personaggi nel momento in cui cadono o sbagliano: il personaggio che non sbaglia mai non interessa nessuno. Si entra in empatia nel momento dell’errore. Giancarlo è stato bravo nel raccontarci le fragilità di Gabriele e le sue emozioni negative.
Rimane pulito anche quando nella storia fa un gesto che non dovrebbe fare ma che arreca “danno” a Marta.
Si, perché è un gesto che è frutto della fragilità e della difficoltà che sta vivendo. Non è cattivo nel fare ciò che fa, non c’è malafede: come proprio accade nella vita di tutti i giorni, spesso si sbaglia perché si è fragili. È semplicemente disperato, geloso e lontano. Non riesce a gestire la situazione in cui si ritrova e d’impeto commette un gesto orrendo, di cui si rende conto nel momento in cui si torva a confronto con Marta. È stato bello condurre il personaggio fino a quel punto: non era facile mostrarne la fragilità.
Così come non era facile raccontare la scena successiva, quella della telefonata tra i due ragazzi e il litigio che ne scaturisce e ribalta le prospettive, trasformando le vittime in carnefici e viceversa. Abbiamo tutti sposato la prospettiva di Gabriele, la capiamo e la giustifichiamo anche prima di venire catapultati nella prospettiva di Marta e vedere la storia con tutt’altra ottica.
È terrificante. Ci si rende conto della violenza e della violazione della sfera intima. Da aggredita Marta diventa colei che aggredisce ma in maniera intelligente, mettendolo di fronte alla realtà del suo gesto, alle conseguenze che scaturisce.
E il tutto avviene in maniera molto reale. Il bello del film è che, sebbene sia alla fine una favola, presenta situazioni verosimili in cui è facile riconoscersi perché appartenenti alla vita di tutti i giorni. Penso nello specifico ai personaggi secondari, Jacopo e Federica, alle prese uno con la dipendenza da app e l’altra con i problemi legati all’universo del lavoro.
Si tratta di uno degli aspetti che più apprezzo del film: racconta con leggerezza realtà profonde e molto drammatiche, come le molestie sessuali, l’incapacità di trovare l’amore o la dipendenza dai social. Sono tutte facce di una quotidianità che tutti viviamo. Abbiamo toccato le questioni con una certa leggerezza, senza andarci dentro o sfiorare la morbosità, ma facendo in modo che lasciassero il segno.
Leggerezza che inevitabilmente interessa soprattutto Marta, interpretata magistralmente da Ludovica Francesconi. Soffre di una malattia terribile, necessita di un trapianto ai polmoni, eppure vive la vita con molta leggerezza, come si intuisce anche dal rapporto quasi di sfida che ha con il nuovo medico che si occupa delle sue cure. Tutta la sua leggerezza viene però a mancare in uno specifico momento: per la prima volta, vediamo Marta crollare, indifesa e piccola. Si leva quasi la maschera e lo fa in presenza di coloro che sono come la sua famiglia.
Di coloro che sono il suo cuore, le persone con cui si può permettere veramente di gettare la maschera e tirare fuori quella che è la sua fragilità. Questo è l’aspetto che più mi piace di Marta in questo secondo film: piano piano, scopriamo chi è realmente e quali sono le sue paure più profonde. Ho esplicitamente chiesto che il tutto avvenisse gradualmente. Il rischio di cadere nel patetico era alto e per tale ragione ho voluto che fosse tutto in progressione, come se pian piano si aprisse uno spiraglio teso a far luce sul suo vero stato d’animo, sul suo dolore. Così facendo abbiamo mantenuto la tensione drammatica ma abbiamo evitato che apparisse fuori luogo.
Tra l’altro, a rendere l’idea della progressione è quello che avviene la notte prima, quando sbloccando il contatto telefonico di Gabriele comincia ad aprirsi.
Quello è il momento in cui si ricontatta. È il momento della sua verità.
In Ancora più bello c’è un cammeo delizioso di Loredana Berté. Com’è stato averla sul set e, soprattutto, dirigerla? Per la prima volta, Loredana non interpreta se stessa ma recita.
Loredana è stata fantastica. È stata meravigliosa, me-ra-vi-glio-sa. È come una bambina: è come avere a che fare con una bambina cresciuta. Con purezza e candore, è arrivata sul set con molta modestia, senza atteggiamenti da primadonna. Al contrario, si è messa al servizio della storia con molta umiltà. “Non è il mio lavoro, per cui aiutatemi, guidatemi”: è stata deliziosa. È in una scena in cui si ristabilisce un certo ordine delle cose ed era divertitissima dall’interpretare il personaggio di Delfina. Dobbiamo a lei l’idea delle borsettate al personaggio di Giorgio Lupano.
Il personaggio di Giorgio è impietoso. Lui è abituato al ruolo del buono della storia mentre qui si ritrova a dover interpretare il cattivo della situazione lavorativa che vive Federica, ed è stato molto bravo e credibile. Anche perché la natura del suo personaggio non si svela subito, rimane legato a un’incertezza di fondo che trova poi spiegazione un attimo prima dell’entrata in scena della Berté. Mi piaceva giocare con l’ambiguità e la sospensione: da spettatore non sai mai come stiano le cose e dove andrà a parare il personaggio.
E ti ha permesso anche di giocare con i generi cinematografici, con lo spy movie in primis.
È stato divertente. Facciamo questo lavoro anche per divertirci.
Così come avete giocato con il fumetto nei titoli di testa.
E anche con l’ironia. Abbiamo toccato tutti gli aspetti in maniera ironica, senza voler a tutti i costi andare a fondo su tutto.
L’uso dell’ironia è evidente grazie anche a personaggi come quello di Rebecca, influencer ammirata da tutti, e Giacomo, il nerd della situazione, che servono a stemperare la tensione nei momenti un po’ più tragici, come insegna la tradizione. Non si può non notare un certo peso quasi sociologico a uno dei frangenti in cui Rebecca si ricorda di dover postare qualcosa.
Servono al cosiddetto alleggerimento. Ho trovato Jenny De Nucci molto brava ed emozionante nel momento in cui decide di rendere pubblica la natura del legame della sua Rebecca con Giacomo. È stata molto vera, oltre che credibile nel restituire l’immagine delle influencer di oggi, con una vita infamissima fatta di orari e contenuti da postare. Devono continuamente fare storie e produrre contenuti: se mancano i contenuti, finisce la loro carriera. È inquietante.
Uno dei pregi del film è dato dal fatto che nessun personaggio è trattato in maniera secondaria. Di ognuno, vediamo e sappiamo il punto di vista, cosa pensa e come vive il momento. Molto spesso della stessa situazione abbiamo diversi punti di vista. Penso alla scena del karaoke, in cui sono presenti in scena quattro prospettive.
Sappiamo sempre le posizioni di tutti. Ed è stata la cosa più difficile, soprattutto nel caso delle scene corali, dove devi centrare i fuochi di tutti i personaggi. Ricordarseli tutti è lo sforzo maggiore, richiede un impegno mentale notevole. Devi ricordarti sempre le posizioni emotive dei personaggi e come devono rispondere alle varie situazioni. La scena che citi è geniale perché mostra come possa ribaltarsi in un attimo la posizione di chi, volendo essere al centro dell’attenzione, si ritrova invece a essere l’escluso (e viceversa).
Immagino avete girato seguendo le disposizioni e le limitazioni anti-CoVid. Com’è stato?
Siamo stati fortunati a non aver avuto interruzioni sul set. Che dire? Ormai è diventata la normalità vivere con la mascherina, fare tre tamponi a settimana e stare attenti a ogni gesto, limitando molto la vita sociale e riducendola quasi a zero per preservarsi da ogni rischio contagio. Occorreva essere molto responsabili e capire che il film era molto più importante che andare a cena con gli amici: sono stati sacrifici ma ci hanno dato la possibilità di iniziare e finire il film senza interruzioni.
Avete girato a Torino e a Parigi. Ci sono state particolari differenze dal punto di vista dei protocolli sanitari da seguire?
Quando siamo stati a Parigi, non c’era più l’obbligo delle mascherine all’aperto. Per cui è come avessimo avvertito un senso di totale liberazione: finalmente potevamo camminare senza mascherina e molte delle scene sono state girate in esterna. È stata come una boccata di speranza, come se qualcosa stesse cambiando in positivo. È stata una bella sensazione. C’era la volontà di dare un respiro internazionale alla storia, la volontà di far vedere Parigi e com’è viverci.
Il film, tra l’altro, andrà incontro a un destino internazionale. Proprio a giorni il primo capitolo, dopo l’esclusiva su Amazon Prime Video, sarà distribuito globalmente da Netflix. Aspettative?
Che dire? L’emozione è tanta. Quando hai lavorato sereno e con il cuore in mano cercando di raccontare il tutto con onestà emotiva e con una certa purezza, è quasi normale dirsi: “Io ce l’ho messa tutta, vediamo ora se la gente lo sente”.
Durante le riprese, eravate consapevoli della sortita non solo italiana della trilogia?
No, in realtà la notizia è arrivata dopo. Quindi, non ha influito nelle riprese.
Eppure, si ha la sensazione che sia un film con un certo budget.
No, non è un film ad alto budget. La differenza in questo caso è data dal come sono stati spesi i soldi a disposizione. Il budget deve essere usato come un valore aggiunto: occorre sapere dove puoi risparmiare o deve devi spendere qualcosa in più per accrescere la qualità del prodotto.
Ho appena finito di vedere Ancora più bello e posso dirti di essermi commosso. Anche se, siete stati sadici. Interrompete il racconto, è il caso di dirlo, sul più bello.
Eh, certo. Al cinema, le trilogie prevedono un finale aperto per i capitoli che la compongono. Forse sì, c’è un certo sadismo ma c’è anche l’intento di lasciare lo spettatore chiedersi: che succederà? Come finirà? Voglio vedere anche il terzo. Da sceneggiatura, era già netto il finale: ovviamente, serve un po’ anche a rilanciare il terzo capitolo della trilogia.
Il cast all'anteprima del film
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