La 78ma Mostra del Cinema di Venezia offre oggi l’ultimo degli italiani in concorso, il più misterioso: America Latina dei fratelli D’Innocenzo, che gioca sin dal titolo con l’opposizione tra locale e globale, singolare e universale, periferia e mondo. Fuori concorso, omaggi alla musica di Ennio Morricone (grazie a Giuseppe Tornatore) e Fabrizio De André.
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CONCORSO
EXCL. INTERVISTA AI REGISTI FABIO E DAMIANO D'INNOCENZO
I vostri film sono solitamente ambientati in periferia, una terra di nessuno ai margini della città. Cosa vi affascina di questi spazi trascurati e fatiscenti?
I vostri film sono generalmente ambientati in luoghi periferici o marginali, cosa vi affascina di questo tipo di spazi? La nostra è un’attrazione verso la poesia dei luoghi sbagliati. Amiamo gli errori compiuti involontariamente. C’è molto sentimento in questa ricorrenza. Siamo indulgenti di natura verso ciò che non è riuscito: gli spazi gestiti male, gli abomini architettonici, tutto ciò che vorrebbe essere ciò che in realtà non è. C’è anche un discorso fotografico chiaramente legato ai luoghi fantasma, ai territori di nessuno, ma non è prioritario. Il nostro principale punto di interesse verso i luoghi di confine è strettamente antropologico: abbiamo a cuore i tentativi falliti.
America Latina è ambientato a Latina, a sud di Roma, una città creata negli anni Trenta in quella che era una zona di palude infestata dalla malaria. È difficile pensare a una location meno glamour per un film. Cosa vi ha attratto in particolare di Latina?
Latina è una città che conosciamo bene. Più specificamente i dintorni di Latina, dove abitano i nostri genitori. Abbiamo coltivato a lungo l’idea di girare qualcosa in questi borghi, ma non pieghiamo mai la storia alle nostre volontà. Quando l’anima del racconto era ormai nelle nostre teste ci sembrava chiaro che il territorio dovesse essere quello umido, ignorato e di esclusivo transito come i dintorni di Latina.
Questo è il vostro secondo film con protagonista Elio Germano. Mentre Favolacce era una storia corale, America Latina ruota quasi esclusivamente intorno al suo personaggio. Proprio come in Favolacce, avete nuovamente scelto Germano per un ruolo lontano da quelli interpretati in precedenza. Quali sono quelle sue qualità che vi attirano così tanto?
Elio Germano è un attore meraviglioso. È inutile elencarne le qualità, sono visibili a tutti. Quello che ci unisce è un rapporto umano molto stretto, il più profondo avuto finora con un’altra persona che “facesse cinema”. Un legame che si basa sulla fiducia e sulla sicurezza di non essere mai giudicati. La voglia di piacere è la morte di ogni storia e di ogni prova attoriale. Elio Germano è emotivamente nudo sul set, e noi con lui. Da timidi non ce lo siamo mai detti, ma vogliamo bene alle nostre storture, una a una. Senza esserne compiaciuti, accettiamo quello che siamo e siamo disposti a mostrarlo senza sentirci sbagliati.
Avete descritto America Latina come “una storia d’amore, e come tutte le storie d’amore quindi un thriller”. Vi va di spiegare questa affermazione?
Ogni volta che nominiamo la parola amore tiriamo in gioco paure, fantasmi, disperazioni, inganni e auto-inganni. È nel provare a rendere luminosi questi sentimenti bui che risiede il verbo amare. Ma come ogni altro aspetto della vita è il punto di vista a fare la differenza. Puoi dormire con la persona che ami abbracciata a te e durante la notte lei fa un incubo terribile. La mattina dopo non te lo dice. Qualcosa si è messo in moto. Sei dentro un thriller.
Dei vostri film, America Latina è quello maggiormente influenzato dall'estetica di genere, dai thriller e dai noir. Cosa vi piace di questi linguaggi cinematografici?
Ciò che amiamo del genere è l’obbligo al rigore e alla precisione più assoluta e, contemporaneamente, la seduzione di tradire le regole che il genere impone. Possiamo raccontare un thriller psicologico dal punto di vista di un innocuo dentista di mezza età? Stupendo. Noi amiamo i noir con gli investigatori sotto la pioggia, il polar francese, ma non riusciremmo proprio a raccontare un eroe alla Melville. Perché siamo persone ordinarie. E per noi sono solo le persone ordinarie che vanno messe di fronte allo straordinario.
Sembrate estremamente interessati ai meccanismi della narrazione, al modo in cui le storie vengono raccontate, spesso da punti di vista diversi e con strati diversi. America Latina porta il concetto di narratore inaffidabile anche oltre i vostri precedenti lavori. Si tratta di una strategia intenzionale per turbare il vostro pubblico?
Come dicevamo prima, il fulcro di ogni cosa è il punto di vista. Dove, come, perché e per quanto si guarda. La vita di tutti noi è fraintendibile ma facciamo ogni cosa pur di dimostrare a noi stessi di possederne il controllo. Eppure non si può controllare il punto di vista degli altri. È spaventoso. Ecco perché le testimonianze multiple e contraddittorie sono alla base dei nostri racconti: rispecchiano la nostra paura di rimettere in discussione ciò che abbiamo costruito, le nostre convinzioni, i nostri punti fermi.
I vostri film sono molto distopici, mostrano una società non semplicemente sfilacciata ai margini ma anche in libera caduta morale. La vita nell'Italia contemporanea, da voi descritta, non è sicuramente bella. I vostri film sono anche intrisi di un umorismo molto particolare che sembra una sorta di critica sociale. State cercando di trasmettere un messaggio? E, se sì, qual è?
Assolutamente no. Non abbiamo nessun messaggio. I film si fanno per cercare, non per dichiarare. Chiaramente abbiamo un pensiero molto formato su ciò che non funziona nel nostro Paese, ma non ci interessa la sociologia né al cinema né nella vita. Ci interessa inoltre raccontare storie non locali. L’Italia in questo film ha un ruolo puramente fisico, non incide minimamente nella narrazione. Fin dal titolo prendiamo le distanze con qualsiasi forma di aderenza tra storia e geografia: siamo ovunque. Nei 90 minuti del film quest’ovunque è di tutti.
Per molti versi, America Latina è una storia di soffocamento e claustrofobia. Il vostro linguaggio visivo colpisce. Potete parlarci delle scelte cinematografiche fatte?
Il lavoro con i reparti di fotografia, scenografia e costumi è stato improntato in funzione di una chiave precisa: non è lo spettatore a guardare una mosca intrappolata in un bicchiere bensì è lo spettatore stesso la mosca intrappolata in quel bicchiere. Per tentare di raggiungere questo obiettivo drammaturgico abbiamo adoperato lenti con una scarsa profondità di campo, dipinto le pareti della casa con tinte molto omogenee e forti affinché ci ricordassero sempre la loro presenza, e usato camera-angles disarmonici. Abbiamo combinato l’uso della macchina a mano con linguaggi più statici per non dare punti di riferimento stilistici. Nel disordine non può esistere uno stile, quindi anche noi abbiamo precisamente rinunciato a qualsiasi vezzo formale.
ANTEPRIMA: LE CLIP DEL FILM
LA PAROLA AL REGISTA
"Il film è un’opera corale che cerca di analizzare, attraverso la scomparsa di otto persone, una realtà delle Filippine di cui la stampa non parla mai.
Politici gangster, giornalisti pennivendoli, detenuti assassini: questi folli personaggi si intrecciano nella rappresentazione della radicata cultura dell’impunità e della non responsabilità che caratterizza un paese come le Filippine.
Potrà sembrare paradossale che io trovi la mente criminale estremamente affascinante e, allo stesso tempo, disgustosa. Tuttavia, non voglio mai esprimere giudizi morali. Mi interessa capire che cosa c’è alla base del pensiero di questi personaggi, vedere il loro lato umano, non per glorificarli ma per capire davvero come sono diventati quello che sono" (Erik Matti).
*In Asia, verrà distribuito a partire dal prossimo 12 settembre come serie televisiva in sei puntate sulla piattaforma HBO GO. La Biennale ha invece deciso di mostrarlo come film unico di tre ore, composto dai differenti episodi. Si tratta dell’unico titolo che quest’anno batte bandiera filippina.
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FUORI CONCORSO
EXCL. TRE DOMANDE AL REGISTA YVAN ATTAL
In che modo il romanzo di Karine Tuil, da cui il film è tratto, è arrivato nelle sue mani?
Era appena uscito. Mi interessava la scrittrice. Avevo già letto alcune delle sue cose e il soggetto mi intrigava: un giovane accusato di stupro il giorno dopo una festa. La storia mi ha travolto. Mi ha commosso l'imputato (in cui potevo riconoscere mio figlio) e mi ha commosso la vittima (in cui potevo invece riconoscere mia figlia). Mi sono totalmente identificato con i genitori dei due giovani coinvolti nella vicenda. Ho modificato la struttura della storia - in cui ci sono "lui", "lei" e il processo - in modo che il pubblico avesse il tempo di affezionarsi a loro. Io stesso, ad esempio, volevo sapere da dove venivano, chi erano, come ognuno di loro ricordava la sera prima del dramma, perché lei pensava che quello accaduto fosse uno stupro e lui invece un rapporto consensuale. L'argomento è contemporaneo, i personaggi complessi. E per la prima volta il libro mi ha permesso di allontanarmi dalla commedia e di tornare verso un genere che desse la possibilità di fare un film con elementi con cui non avevo mai lavorato prima: una stazione di polizia, un tribunale, una perquisizione domiciliare e così via.
Oltre al materiale offerto dal romanzo, ha effettuato qualche ricerca personale?
Mentre scrivevo il film, ho incontrato magistrati, giudici, agenti di polizia e avvocati per avvicinarmi il più possibile alle loro aree di competenza e al modo in cui vedono la loro professione. Il romanzo mi ha fornito del materiale drammatico favoloso ma avevo bisogno di immergermi nel sistema, nell'arena in cui ognuno si muove. L'aula di tribunale è ciò che più mi ha colpito, con il suo silenzio e con la tensione palpabile. Non è un teatro. Gli avvocati, ovviamente, a volte "si esibiscono" in maniera teatrale ma il loro obiettivo è quello di colpire in maniera dura e coinvolgente dal momento che la posta in gioco è alta. Ho assistito a un processo per stupro. Non c'erano dubbi sulla colpevolezza dell'uomo. Ci sono però ancora un essere umano al banco e uno dal lato delle vittime. Sono in gioco diverse vite e, nonostante le convinzioni, certezze ed emozioni, ne esci scosso. Leggere il romanzo non sarebbe stato sufficiente. Avevo bisogno di toccare con mano la realtà e di capire quanto tempo dedicare ai miei personaggi, senza indulgere in nulla di superfluo.
Quali sono state le sue priorità da regista?
Attenersi alla sceneggiatura, in primis. Quando scrivo una sceneggiatura, so già cosa si trasformerà in girato, cosa taglierò e cosa modificherò. Non mi piace riscrivere il film sul set o durante il montaggio. Un film è il risultato di una serie di scelte, dall'obiettivo all'inquadratura al ritmo, che fai in anticipo nella speranza che i risultati sperati si trasformino in realtà. Conservo, certo, una dose si flessibilità: se qualcosa appare sbagliata, la cambio. Con questo film sono stato molto fortunato: avevo scelto quasi tutte le location prima che ci fosse il lockdown. Ho poi avuto molto tempo per riflettere sui personaggi e, soprattutto, sul processo. E sui due formati da usare, uno per la festa (quadrato 1/33) e uno per il resto del film (il 16 mm). Volevo dare l'idea che, a differenza di ciò che avviene nell'aula di tribunale dove ognuno dà la sua versione, quella della festa fosse la realtà oggettiva.
EXCL. LA PAROLA AL REGISTA GIUSEPPE TORNATORE
"Ho lavorato venticinque anni con Ennio Morricone. Ho fatto con lui quasi tutti i miei film, per non contare i documentari, gli spot pubblicitari e i progetti che abbiamo cercato di mettere in piedi senza riuscirci. Durante tutto questo tempo il nostro rapporto di amicizia si è consolidato sempre di più. Così, film dopo film, man mano che la mia conoscenza del suo carattere di uomo e di artista si faceva più profonda, mi sono sempre chiesto che tipo di documentario avrei potuto fare su di lui. E oggi si è avverato il mio sogno. Ho voluto realizzare Ennio per far conoscere la storia di Morricone al pubblico di tutto il mondo che ama le sue musiche. Non si è trattato solo di farmi raccontare da lui stesso la sua vita e il suo magico rapporto con la musica, ma anche di cercare negli archivi di mezzo mondo interviste di repertorio e altre immagini relative alle innumerevoli collaborazioni svolte in passato da Morricone con i cineasti più importanti della sua carriera. Ho strutturato Ennio come uno spettacolo che attraverso gli spezzoni dei film da lui musicati, le immagini di repertorio, i concerti, possa fare entrare lo spettatore nella formidabile parabola esistenziale ed artistica di uno dei musicisti più amati del ‘900. E poi mi sono soffermato sul ‘mio’ Ennio Morricone, raccontando anche il metodo molto speciale con cui abbiamo affrontato il nostro lavoro dai tempi di Nuovo Cinema Paradiso sino all’ultimo La corrispondenza, l’argomento preferito dai giornalisti in ogni intervista".
DE ANDRÉ#DEANDRÉ – STORIA DI UN IMPIEGATO
EXCL. LA PAROLA ALLA REGISTA ROBERTA LENA
“Quando nel 2018 mi è stata affidata la regia dell’opera rock Storia di un impiegato mi sono resa conto della potenza e della contemporaneità delle parole contenute nell’album. La storia è una metafora della società di allora ma che sembra un monito al rimanere umani, valido e necessario ancora nella nostra epoca. Nelle gesta dell’impiegato ho ritrovato la parabola di una generazione e un monito per quelle future in un destino umano che si ripete; la violenza come arma inutile e goffa e la necessità ancora oggi di invocare una giustizia sociale in nome di quell’umanità di cui spesso ci riempiamo la bocca qui declinata in parole sapienti, utili a focalizzare concetti di cui riappropriarci. Nella parabola narrativa del personaggio principale, che ho spesso mescolato metaforicamente alla vita di Cristiano, sono compresi conflitti e risoluzioni del carattere umano in cui tutti possiamo riconoscerci. La contemporaneità degli eventi storici in corso durante la messa in scena mi confermava inoltre l’estrema urgenza di riproporre in forma visiva anche per un pubblico cinematografico le parole del grande poeta. Cristiano De André è l’erede di questo patrimonio e in questo passaggio di testimone, uno dei temi principali del docufilm, è insito quel rapporto padre/figlio in cui ognuno può specchiarsi. In una narrazione cinematografica potevo mostrare inoltre cosa significa essere figli di un genio, una domanda che stimola la curiosità dei fans ma non solo. Nel racconto stesso di Storia di un impiegato già si celano le interazioni tra la vita privata del nostro protagonista (Cristiano) e la sua famiglia (La canzone del padre) il tutto inserito in un discorso sociale più ampio (La mia ora di libertà)”.
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ORIZZONTI
LA PAROLA AL REGISTA
"E? difficile dire qualcosa che possa guidare il pubblico o che possa spiegare il film. Ci abbiamo lavorato molto, soprattutto perche? riteniamo che la storia di Tonya, il suo destino e questo periodo particolare della sua vita siano estremamente importanti e purtroppo molto significativi anche per noi oggi. Spero che la storia di questa donna e del suo dolore susciti compassione ed empatia nel cuore degli spettatori. Ne sarei veramente felice. Una cosa e? certa. Tonya e? la vostra vicina di casa: non importa in che parte del mondo viviate" (Vladimir Bitokov).
LA PAROLA AL REGISTA
"Questo è un film sulla natura: la natura della sofferenza, dell’essere e del tempo. Scopriamo la semplicità nella natura paradossale dell’esistenza. La storia esplora il rafforzarsi del legame esistente tra due fasi della vita di una donna separate dal tempo. Mentre il presente sembra un film della vita reale che osservo fin dalla mia infanzia, il passato rappresenta la vivida immaginazione con la quale cerco di fare chiarezza sulle ragioni alla base di quella sopportazione. Pur non essendo la biografia dei miei genitori, forse ho fatto questo film grazie a loro" (Jakrawal Nilthamrong).
LA PAROLA AL REGISTA
"Questo non è un film incentrato su criminalità, omicidi e sparatorie. È la storia di un uomo che ha vissuto un periodo di difficoltà e che ora porta un fardello interiore con il quale sta cercando di fare i conti" (Oleg Sentsov).
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SETTIMANA DELLA CRITICA
EXCL. LA PAROLA AL REGISTA GIANLUCA MATARRESE
"Ho incontrato Bernard in un momento della mia vita in cui ero immerso in una ricerca legata all’esplorazione di me stesso attraverso il corpo. L’ho frequentato per scoprire di più su di lui, su di me, su tante cose che non avrei mai immaginato. Alla fine, ho capito che il sesso non era il mio racconto, ma un veicolo carico di senso: la metafora dello stato interiore del mio testimone principale, la fotografia della sua epoca. Bernard ha sessantatré anni, io ne ho trentotto. Chi sono io per lui? Un figlio?
Un fratello? Il fidanzato italiano che l’Aids gli ha strappato dalle braccia quando aveva la mia età? Bernard trasloca, e dice che vorrà bruciare tutte le foto del suo passato. Bernard non vuole sapere da dove viene, ma sa perfettamente dove vuole finire. Cosa vuol dire ritirarsi dalla vita? Cosa portiamo con noi, che cosa lasciamo? Bernard non appare mai austero, né triste, né trash. È un personaggio luminoso e il suo sguardo sulla vita è tenero come quello di un bambino".
DAL CATALOGO DELLA SIC: "In The Last Chapter, lo spazio del cinema, vale a dire la linea di sguardo che unisce le figure di un film, sfugge al suo autore e diventa il luogo di una reciproca intesa, di uno scambio condotto alla pari. Bernard e Gianluca Matarrese ci sono l’uno per l’altro, sia quando il secondo torna in Italia e ascolta la voce del suo master nei messaggi vocali, sia quando il primo smarrisce uno degli amati gatti nel quartiere in cui si è trasferito e per un attimo rivive il trauma della separazione e dell’assenza. L’ultimo capitolo della vita di Bernard non è dunque una fine, e nemmeno un nuovo inizio, ma semplicemente un insieme di possibilità. Bernard è un sopravvissuto, l’epidemia di Aids l’ha risparmiato, e per lui abbandonarsi allo scorrere del tempo in attesa della morte sarebbe semplicemente impossibile; sarebbe una mancanza d’amore verso chi non ce l’ha fatta. Per questo si dice contento dei rapporti sentimentali del suo giovane amico; per Questo, al tempo stesso, non vuole più legarsi a nessuno. Bernard ha la dolcezza di un bambino, dice Matarrese. E come un bambino si aspetta molto dalla vita. Ancora oggi, a sessantatré anni, dopo la fine". (Roberto Manassero, I confini del desiderio, pag. 93).
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GIORNATE DEGLI AUTORI
LA PAROLA AL REGISTA
"Il film non vuole dare giudizi né morali né sociologici, ma raccontare le emozioni. Roma e la comunità di recupero ai piedi delle Dolomiti sono due mondi antitetici che rappresentano anche il conflitto interiore del protagonista. Da un lato Nic, un ragazzo pieno di talento e sensibilità, dall'altro Lovely Boy, eccessivo e strafottente verso il mondo. Lovely Boy è una classica parabola di caduta e rinascita che racconta la fatica che crescere comporta sempre, a qualunque età, e le ferite che ci si porta dentro anche quando si è diventati, faticosamente, adulti" (Francesco Lettieri).
LA PAROLA ALLA REGISTA
"Figli di Caino è un film intenzionalmente anti-narrativo basato sulla struttura pregrammaticale del sogno. E offre un diverso punto di vista a una vecchia questione sociale albanese. Tratta un tema grave per i bambini e le donne, usando i loro sogni come forma linguistica principale di comunicazione e costruendo visivamente un'atmosfera nostalgica e surreale. Rappresentando i personaggi non come vittime ma come esseri umani creativi, Figli di Caino apre una finestra su aspetti dei percorsi emotivi personali che raramente sono mostrati" (Keti Stamo).
EXCL. LA PAROLA ALLA REGISTA STEFANIA MERESU
"Il desiderio del film nasce dall'incontro personale con Princesa e dalla volontà reciproca di lasciare una traccia, un segno della sua storia e della storia di molte altre donne nigeriane. L'ho conosciuta all'interno di una comunità di accoglienza per vittime di tratta a Cagliari, dopo essere fuggita dalla rete dei trafficanti che gestiscono in Italia il mercato della prostituzione e dello sfruttamento. Nei nostri incontri Princesa appare fugace, imprendibile e assorta in una ricerca che ci vede entrambe coinvolte. La camera è un mezzo di dialogo, uno sguardo bidirezionale che raccoglie frammenti di vita tra la sua realtà e il mio immaginario, usata come una penna per scrivere - la caméra stylo - che esplora un linguaggio filmico a metà tra il documentario e la ricerca visuale e che pratica una regia autoriale libera da scrittura e drammaturgia.
L'utilizzo della pellicola super 8mm e 16mm mi ha aperto a una poetica nuova, a uno sguardo fuori dal tempo, alla leggerezza e flessibilità del filmare consentendomi di tracciare, una mappa visiva e sonora di una possibile storia - per quanto transitoria - intorno a Princesa.
Costruendo un tessuto visivo e sonoro ibrido, il film deposita il suo punctum nelle immagini come oggetti complessi e luoghi del sentire, riportando elementi dalla realtà quando questa non si poteva filmare, rinvenendo le tracce di certe parole mai pronunciate, trasformando i sogni e la memoria in suoni. La necessità espressiva di utilizzare diversi registri narrativi e un materiale stratificato come il repertorio dei filmati d'archivio, la caméra stylo e il documentario di osservazione risponde al tentativo di creare un ibrido cinematografico che contenga gli elementi e le suggestioni raccolte intorno a un fenomeno complesso e inesauribile.
Nel 2018, durante le ricerche per il documentario, viene emanato un editto religioso di importanza epocale da parte del re Oba Ewuare II, capo spirituale e morale dell'Edo State. L'Oba annulla con i suoi poteri i giuramenti praticati dai sacerdoti tradizionali, liberando dal vincolo della maledizione del juju le vittime della tratta in Europa.
Questo avvenimento sposta il mio sguardo su altri terreni, riportando l'immaginario al Mediterraneo e all'isola in cui vivo, terra di riti e credenze popolari e al contempo luogo di approdo di Princesa. Nel film tento di parlare di un luogo sconosciuto dello spirito, che ha diversi nomi e allo stesso tempo è impronunciabile. Un enigma che abita nell'animo, la lotta inconscia in cui si uniscono la sorte con il credo, la ragione con la fatalità, le leggende con le superstizioni.
Il percorso visivo e sonoro del montaggio prende la forma di un testo scritto che si sviluppa senza una narrazione lineare, guidato dai quadri in cui Princesa si muove liberamente nello spazio di ripresa. L'azione della protagonista di fronte alla camera è un’affermazione di identità in mutamento, in quello che è stato nell’arco di produzione del film - ed è ancora nella vita reale - un cammino personale di autodeterminazione come donna, straniera, migrante, stretta dentro gli argini di uno stereotipo.
La testimonianza dell'editto dell'Oba contenuta nella storia pone una domanda sul presente e sul futuro dell’esistenza della protagonista, e in questo interrogativo il film trova la propria dimensione politica e sociale".
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9. Continua
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