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Venezia 2021: Giorno 8
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La 78ma Mostra del Cinema di Venezia procede spedita verso il suo epilogo. Tocca oggi al quarto degli italiani in concorso, il fantasy tante volte rimandato di Gabriele Mainetti. Complice il Leone alla Carriera, fuori concorso si vedrà Jamie Lee Curtis affrontare ancora una volta la sua nemesi storica, Michael Meyers. Ma anche il debutto alla regia di Simona Ventura in piena emergenza CoVid-19 e un piccolo gioiellino nella sezione Biennale Cinema College.

Recensioni del giorno

Qui rido io di Alan Smithee

Reflection di EightAndHalf // Reflection di Alan Smithee

The Box di Alan Smithee

La scuola cattolica di Alan Smithee

Old Henry di EightAndHalf

Illusioni perdute di Alan Smithee

Ma nuit di EightAndHalf

Ariaferma di Alan Smithee

Il paradiso del pavone di Alan Smithee

Life of Crime 1984-2020 di EightAndHalf

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CONCORSO

FREAKS OUT

EXCL. LA PAROLA AL REGISTA GABRIELE MAINETTI

"LA SFIDA

Freaks Out nasce da una sfida: ambientare sullo sfondo della pagina più cupa del Novecento un film che fosse insieme un racconto d’avventura, un romanzo di formazione e – non ultima – una riflessione sulla diversità. Per farlo ci siamo avvicinati alla Roma Occupata del 1943 con emozione e rispetto, ma allo stesso tempo abbiamo dato libero sfogo alla fantasia: sono nati così i nostri quattro freak, individui unici e irripetibili, protagonisti di una Storia più grande di loro.

TU CHE VORRESTI FARE?

Dopo Lo chiamavano Jeeg Robot, con Nicola Guaglianone, ci siamo domandati «e adesso che facciamo, di altrettanto “fico”?». Un sequel era fuori discussione, e così abbiamo iniziato a buttare giù alcune idee, guidati da un’unica, grande domanda: «Tu cosa vorresti fare?». Perché un film deve nascere prima di tutto dalla passione, non da un calcolo.

CE L'HO!

Il primo a pensare ai freak è stato Guaglianone, grande appassionato della materia, che tra l’altro si era appena cimentato nel tema scrivendo Indivisibili. All’inizio non capivo: soprattutto, da grande fan di Freaks di Tod Browning, ricordavo quanto quel film – seppure di una bellezza unica – fosse costato al suo autore, bannato da Hollywood per aver mostrato la “diversità”. Sulle prime, insomma, avevo più di un dubbio.

Non avevo ancora messo a fuoco la visione più “pop” che si poteva dare del mondo dei freak, e come empatizzare con quei personaggi così “diversi”, portando lo spettatore a voler stare accanto a loro.

Nel frattempo, anch’io coltivavo una mia personale ossessione, quella per la prima guerra mondiale. A un certo punto, sul tavolo, c’erano 7 storie, anche molto diverse tra loro (una era il romanzo di formazione di una bambina che doveva trovare se stessa). Come era già successo per Jeeg, li “condensavamo” man mano, finché un giorno con Nicola mi ha detto «ce l’ho: i freak li facciamo con i poteri, nella Seconda guerra mondiale». È lì che ho visto per la prima volta i film, e da lì abbiamo iniziato a immaginare i nostri “eroi”.

I PROTAGONISTI

L’idea dei poteri un po’ mi spaventava: non volevo replicare Jeeg, e soprattutto mi interessava che la forza dei protagonisti nascesse – più che dai singoli poteri – dall’unione di 4 persone speciali. Mi sono sforzato di rendere originali e “cinematografiche” queste loro abilità, ovviamente a modo mio, ma senza mai dimenticare – e anzi esaltando – l’umanità dei personaggi: in questo il modello è stato, oltre a Browning, un capolavoro come La donna scimmia di Marco Ferreri.

Abbiamo sempre pensato ai nostri protagonisti come gente vera, cercando di guardarli senza pietismo perché sono loro stessi i primi a rifiutare ogni (auto)commiserazione, a non viversi come “mostri” ma come persone.

I (SUPER)POTERI

Tornando ai poteri, spesso – dopo Jeeg – sono stato raccontato come la via italiana ai “cine-comic”. Il punto, al di là del riconoscersi o meno in una definizione, è che credo che il cine-comic sia, più che un vero e proprio genere, una formula giornalistica che corre il rischio di dare lo stesso nome a opere diversissime, dai film Marvel al primo X-Men di Brian Singer a un grande western moderno come Logan. E non è certo il “potere speciale” di un personaggio a fare un cine-comic, altrimenti sarebbero cine-comic – che so io – Ghost, o Il sesto senso, o Il profeta di Jacques Audiard. Quanto alla mia formazione, io di fumetti ne ho sempre letti pochi, al massimo qualche Dylan Dog (e soprattutto perché c’era dentro un po’ di sesso): sono stato un figlio del mio tempo, per me erano più importanti i cartoni animati (come appunto Jeeg Robot). Poi, da adulto, mi sono avvicinato al mondo dei manga, dove la divisione tra buoni e cattivi non è manichea, basta pensare a Devilman. Insomma, tra Devilman e Spiderman, chi mai sceglierebbe Spiderman?

CATTIVI

Cercare di comprendere, senza giudicare. Anche i cattivi. Credo che la riuscita di un film come questo (o come Jeeg) si misuri anche nella capacità di rendere tridimensionali gli antagonisti. Franz, il cattivo di Freaks Out, incarna ovviamente una delle pagine più buie della storia, ma è anche un perdente totale, il risultato di una frustrazione famigliare e sociale, a cui Franz Rogowski ha regalato a tratti una tenerezza “inspiegabile”. I cattivi che mi spaventano di più, nella storia del cinema, sono quelli che nascondono una debolezza, una sofferenza: il Buffalo Bill di Il silenzio degli innocenti, ma anche il Darth Vader dei primi Star Wars. Per questo ci siamo avvicinati a Franz cercando nel suo vissuto personale le ragioni che possono averlo spinto ad abbracciare il Male. Credo che l’attenzione per le “sfaccettature” dei personaggi, anche le più inaspettate e imprevedibili, si ricolleghi in qualche modo alla tradizione del nostro cinema, che certo non ha il culto dell’eroe “senza macchia e senza paura”: basta guardare alla commedia all’italiana, popolata di figure irresistibili seppure meschine, bieche, persino mostruose.

UN FILM FEMMINILE

Soffrivo molto quando, all’uscita di Jeeg, alcuni che magari non l’avevano ancora visto pensavano fosse un film “maschile”. Al contrario, io l’ho sempre visto come un film profondamente femminile, che ha nell’Alessia di Ilenia Pastorelli il vero motore, una sorta di “mentore” toccata dalla grazia di saper credere in un supereroe (e non certo dei più tradizionali). Allo stesso modo, il femminile è centrale anche in Freaks Out, dove in fondo gli uomini sono tutti – chi più chi meno – un po’ “piagnoni”, ed è Matilde (interpretata da una ragazza che per me è un’autentica rivelazione, Aurora Giovinazzo) a scoprirsi la vera guida del gruppo. Abbiamo raccontato l’ingresso nella vita adulta di una ragazzina ancora pura: non ci interessava inseguire un femminile “falso”, alla Wonder Woman, con le donne che menano come fabbri. Volevamo invece accompagnare una bambina alla scoperta della forza che possiede dentro di sé. Che poi è la forza delle donne, che non ritrovo in me stesso e negli uomini che mi circondano. Ma che ho sempre visto, da quando sono piccolo, nelle donne della mia famiglia, e adesso vedo nella mia compagna".

Aurora Giovinazzo, Giancarlo Martini, Claudio Santamaria, Pietro Castellitto

Freaks Out (2021): Aurora Giovinazzo, Giancarlo Martini, Claudio Santamaria, Pietro Castellitto

 

LEAVE NO TRACES

Excl. INTERVISTA AL REGISTA JAN P. MATUSZYNSKI

Il libro di Cezary Lazarewick che ha ispirato il suo film contiene un'enorme quantità di informazioni dettagliate. Come si è approcciato alla sceneggiatura con un materiale così travolgente a disposizione?

Il cinema è un mezzo molto profondo che permette di costruire tanti livelli contemporaneamente. Si può raccontare una storia particolare e allo stesso tempo riempirla di ogni sorta di informazione generale, su livelli narrativi che in realtà non interferiscono tra loro. Questo è un processo che mi affascina molto. Per quanto riguarda nello specifico il libro, mi sono concentrato soltanto su quello che accade nel 1983 e nel 1984: il lavoro di Lazarewick potrebbe dar vita a tre stagioni di una serie tv! Inoltre, tutto quello che accade dopo il primo processo, potrebbe sembrare ridondante o ripetitivo dal punto di vista cinematografico. Rivedendo il film, penso di aver preso la decisione giusta. Del caso Przemyk mi interessa cogliere quanto perversa fosse la situazione.

Fin dall'inizio è chiaro che Przemyk è morto e che che il film non è teso a smascherare il vero assassino. Cosa lo ha spinto a rivedere la struttura classica del thriller? Non ha avuto paura nel dirigere un film per certi versi d'epoca?

La domanda è: dove ha luogo la maggior parte delle violenze? Mi interessano cose che a prima vista sembrano scontate. E che, quando le approfondisci, si rivelano essere molto più complesse. Da ciò sai che può venirne fuori sempre un buon film: la vicenda era piena di elementi che non potevano essere presi in considerazione. Jurek Popiel, il mio personaggio principale e testimone, ha visto molto ma non ha visto tutto. È lo stesso tipo di prospettiva di Blow-Up di Antonioni: vuoi risolvere l'intero mistero ma è impossibile. Mi ha incuriosito questo aspetto: il concetto di verità, in senso oggettivo, non esiste proprio. In questa storia, ognuno ha la sua verità, per di più manipolabile, e ogni personaggio ha motivazioni completamente diverse per agire.

Nella storia del cinema polacco ci sono molti esempi di film storici agiografici. Non mi piacciono molto: lo scopo di un film non deve essere quello di realizzare un santino ma semmai quello di sviscerare una storia, cercandone ambiguità e temi universali. Leave No Traces è la storia di un sistema oppressivo che, dopotutto, è ancora al potere in troppi posti nel mondo. Ecco come una storia di quarant'anni fa si lega al presente e può essere capita anche oggi, indipendentemente dal tempo passato.

Il caso di Grzegorz Przemyk sembrava destinato a rimanere un mistero. Eppure, come ha sottolineato prima, storie simili accadono tuttora in tutto il mondo.

Molto probabilmente, Przemyk è stato arrestato perché non voleva esibire la sua carta d'identità, anche se - come si è scoperto dopo - l'aveva con sé. Non voleva farlo a causa della sospensione della legge marziale: stava difendendo solo i suoi diritti di cittadino. A prima vista, sembra solo un dettaglio ma non lo è: si tratta di un gesto molto importante e non importa che sia accaduto nel lontano 1983. L'emergere di casi come quello di George Floyd e di almeno altri sette episodi simili durante le riprese mi ha fatto capire che la storia sarebbe stata universale dal momento che gli abusi di potere sono purtroppo ancora all'ordine del giorno. Anche in Polonia di recente c'è stato un caso in cui un uomo è morto dopo l'intervento della polizia con conseguente scoppio di rivolte. L'unica cosa che da regista potevo fare era guardare al fenomeno e raccontarlo senza imporre tesi e senza giudicare i personaggi. Con la prospettiva di oggi, sarebbe facile dire chi era il buono e chi il cattivo negli anni Ottanta.

Nel caso di George Floyd l'omicidio è stato filmato da un adolescente. Przemyk non poteva contare su una cosa del genere, eppure la sua morte ha suscitato proteste a non finire.

Il caso di Przemyk è diventato così noto e scottante per due motivi principali: il testimone, fuggito alla cattura dei servizi segreti, e il ruolo giocato da padre Jerzy Popieluszko, molto seguito dal popolo. È stato anche grazie a lui che la storia ha assunto proporzioni inaspettate. Il triste epilogo della vicenda ha fatto però sì che i responsabili del pestaggio di Przemyk non fossero ritenuti colpevoli della sua morte. Ciò ha incoraggiato le autorità ad agire in modo sempre più violento e aggressivo, cosa che ha portato, tra l'altro, all'omicidio di Popieluszko. Si tratta ovviamente di una domanda senza risposta ma cosa sarebbe accaduto se invece gli assassini fossero stati puniti?

Tomasz Zietek

Leave No Traces (2021): Tomasz Zietek

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FUORI CONCORSO

HALLOWEEN KILLS

LA PAROLA AL REGISTA

"Siamo stati entusiasti dell’accoglienza che nel 2018 Halloween ha ricevuto in tutto il mondo, per cui abbiamo deciso di espandere il nostro racconto con Halloween Kills, facendo un film più grande, più cattivo e più folle del precedente. Dopo tutto si intitola Halloween Kills, quindi ci siamo dovuti assicurare che fosse all’altezza delle aspettative. Questo è il film più d’azione che mi sia capitato di girare. Non c’è una scena tranquilla, è pieno di angoscia, pugnalate, incendi e cose che vengono distrutte, ed è diverso da qualsiasi altro film di Halloween che i fan abbiano mai visto prima. Siamo onorati che la Mostra del Cinema di Venezia sia il luogo della nostra presentazione internazionale. Non avremmo potuto scegliere una città migliore, o più bella, per dare inizio al nostro regno di terrore" (David Gordon Green).

scena

Halloween Kills (2021): scena

 

VIAGGIO NEL CREPUSCOLO

LA PAROLA AL REGISTA

"Sono persuaso che la nostra parte razionale sia quella meno autentica. Credo che la nostra dimensione onirica racconti molto di più che non le apparenze e la nostra supposta identità. Viaggio nel crepuscolo indaga gli anni Sessanta-Settanta partendo da quattro film di Marco Bellocchio. Li utilizzo come uno strumento investigativo con cui dissezionare la mentalità, la società e alcuni episodi chiave dell’Italia. Gli artisti, intellettuali, pensatori protagonisti del nucleo documentaristico non appaiono mai dal vero ma in versione animata con tecnica neopittorica 2D, perché la ricerca della bellezza, della verità poetica e storica è un’impresa avventurosa, una missione adatta a esploratori che non si spaventano dell’ignoto" (Augusto Contento).

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PROIEZIONI SPECIALI

LE 7 GIORNATE DI BERGAMO

LA PAROLA ALLA REGISTA

"Decine di ore di girato nel marzo 2020, realizzato proprio durante i sette giorni della costruzione dell'ospedale Covid alla Fiera di Bergamo, per poi tornare con la troupe nel maggio 2021, proprio nei giorni in cui la struttura veniva smontata.

Gli ambienti che hanno accolto centinaia di malati, consegnati allo spettatore in due momenti diversi con in mezzo 15 mesi di lavoro e con le testimonianze del personale sanitario e dei volontari, Alpini, Artigiani e Atalantini che hanno reso possibile tutto questo.

Un tavolo come espediente narrativo e una struttura del racconto puntuale ma leggera con un finale carico di ottimismo" (Simona Ventura).

Simona Ventura

Le 7 giornate di Bergamo (2021): Simona Ventura

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ORIZZONTI

IL CIECO CHE NON VOLEVA VEDERE IL TITANIC

LA PAROLA AL REGISTA

"Nella primavera del 2019 chiesi al mio amico Petri se gli sarebbe ancora piaciuto recitare. Mi confesso? che era ancora il suo sogno, e promisi di scrivere una parte per lui in un cortometraggio. La parte e? diventata quella di protagonista e il cortometraggio e? diventato un lungometraggio.

La sclerosi multipla di Petri e? cosi? aggressiva che avevamo fretta di girare il film. Petri mi disse che, sebbene cieco e in grado di muovere solo la mano destra, viaggiava ancora da solo. E? cosi? che e? nata l’idea. A ogni modo, non volevo fare un documentario su un attore disabile. Volevo lavorare con Petri, un attore che si da? il caso sia anche cieco e su una sedia a rotelle. Il nostro protagonista ha la stessa malattia di Petri, ma la sceneggiatura e? immaginaria" (Teemu Nikki).

Petri Poikolainen

Il cieco che non voleva vedere il Titanic (2021): Petri Poikolainen

 

INU-OH

LA PAROLA AL REGISTA

"Un attore chiamato Inu-oh è esistito realmente seicento anni fa. Fece tremare il mondo ma quasi non ne è rimasta traccia. Lo scrittore Hideo Furukawa, affiancandolo a Tomona, ha raccontato la storia di due giovani che sfidano il fato per dare forma ai propri destini. È però una storia moderna: o ci si adatta al fato e alle mode per raggiungere la gloria o si rinuncia ai riconoscimenti per vivere secondo i propri principi. I due offrono una ricompensa agli sconfitti raccontando la propria storia. Questo film offre la stessa cosa, ma sostiene anche chi soffre per aver vissuto secondo i propri principi. Forse, come gli OOPArt, Inu-oh e la musica di Tomona sono veramente esistiti. Ci sono storie che non conosciamo, ma questo film testimonia la loro" (Masaaki Yuasa).

scena

Inu-oh (2021): scena

 

THE OTHER TOM

LA PAROLA AL REGISTA

"Il film tratta un tema di grande attualità, ossia l’uso smodato di psicofarmaci nei bambini. E lo fa con un tono intimista, in cui il legame tra una giovane madre e il suo bambino emerge come il nocciolo emotivo della storia. Il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività, una diagnosi che si traduce in uno stigma e un farmaco che controlla, che calma, ma alla resa dei conti non cura" (Rodrigo Pla, Laura Santullo).

scena

El otro Tom (2021): scena

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BIENNALE CINEMA

LA SANTA PICCOLA

LA PAROLA ALLA REGISTA

"Tutto ciò che riguarda questo film ha qualcosa di miracoloso. La sua realizzazione in piena pandemia sembrava impensabile, così come ai personaggi di questa storia sembra impossibile credere che la vita possa cambiare, offrendo qualcosa di inaspettato. Eppure, da quando La Santa Piccola è stato selezionato per Biennale College Cinema sono successi tanti piccoli miracoli. Con una squadra che ci ha messo il cuore per superare le difficoltà, abbiamo abbracciato Lino per confortarlo e dato un nuovo respiro a Mario per farlo nascere davvero; abbiamo creduto nella piccola Annaluce, ascoltato i silenzi di Assia e cercato di dare speranza a Perla. Questo film è una strada che finalmente viene percorsa dopo averla cercata e sperata per anni. È la vita che con i suoi schiaffi ci spinge a trovare il nostro posto nel mondo, aprendoci vie inaspettate" (Silvia Brunelli).

Sofia Guastaferro, Vincenzo Antonucci, Francesco Pellegrino

La santa piccola (2021): Sofia Guastaferro, Vincenzo Antonucci, Francesco Pellegrino

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SETTIMANA DELLA CRITICA

DETOURS

EXCL. LA PAROLA ALLA REGISTA EKATERINA SELENKINA

"Molti di quelli che lavorano come treasuremen sono giovani, alcuni sono minorenni. Spesso vedono il loro lavoro come un gioco, una missione. Al tempo stesso, le leggi russe contro la droga sono brutali. Il film presenta questo aspetto giocoso del sistema, mentre mette in luce il fallimento delle politiche antidroga dello Stato.

La violenza e l’oppressione portano soltanto a modi più fantasiosi per evitare di essere presi.

Detours utilizza una struttura narrati[1]va insolita: la storia del treasureman è costantemente interrotta da scene apparentemente non correlate, ampliando la nostra prospettiva a tutta la città. Così il film si concentra sui sistemi piuttosto che sugli individui. Disegna il complesso ecosistema urbano, mappando i molteplici percorsi di significati che una città possiede.

La maggior parte delle scene sono ricostruzioni di eventi successi a Mosca in cui attori non professionisti interpretano se stessi".

DAL CATALOGO DELLA SIC: "Detours non illustra e non spiega il con[1]testo socio-politico, ma lo crea dalla somma dei particolari, dall’accostamento di inquadrature e scorci di paesaggio urbano che rimandano a immaginari noti e creano per questo un effetto di straniamento: la linea narrativa principale, che segue il protagonista nelle sue azioni quotidiane non sempre decifrabili, si spezza e si disperde in decine di scene singole, in cui figure anonime riprese a distanza, immerse nei toni impressionisti della fotografia di Alexey Kurbatov, trasfigurano la città con la loro presenza.

I gesti con cui giovani uomini e giovani donne consumano relazioni personali ed economiche (appuntamenti, contrattazioni, incontri) o le semplici chiacchiere indistinte svelano tattiche e abitudini, superano ostacoli come piazze troppo larghe, angoli troppo stretti o muretti troppo alti per affermare, oltre il tallone di ferro del sistema, un principio d’esistenza individuale o di gruppo. Nel vuoto di ambienti spersonalizzanti e spersonalizzati, Detours offre all’immagine vuota l’occasione di veder germogliare al suo interno la vita: i piani fissi diventano piani vivi, i dettagli si tramutano in racconto, lo spazio si fa storia, l’architettura si apre all’intimità" (Roberto Manassero, Tra prede e predatori, pag. 53).

scena

Detours (2021): scena

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GIORNATE DEGLI AUTORI

IL SILENZIO GRANDE

EXCL. LA PAROLA AL REGISTA ALESSANDRO GASSMAN

"Nel 2019, mentre recitavo sul set della seconda edizione della serie tv I bastardi di Pizzofalcone, incontrai l'autore dei libri da cui è tratto il film, Maurizio De Giovanni, e lo esortai a scrivere un testo teatrale legato a Napoli e alla sua aura sotterranea di mistero.

Maurizio lo scrisse in soli 20 giorni e quando lo lessi, pensai subito che fosse un'opera che rivelava forti radici e potenzialità per un film che mi sarebbe piaciuto dirigere. Lo spettacolo che abbiamo allestito ci ha regalato emozioni indimenticabili fin dal debutto in scena avvenuto due anni fa al Festival del Teatro di Napoli e poi durante una stagione di repliche di grandissimo successo interrotta per il Covid a febbraio del 2020.

Il silenzio grande racconta la storia di una famiglia che in qualche modo somigliava alla mia, con un grande capofamiglia molto colto e molto noto, e accanto a lui sua moglie, la governante di sempre della casa e due figli ventenni. Una storia segnata da conflitti, equivoci, confronti, luci ombre, silenzi ed esplosioni di parole, risate e angosce di una famiglia tanto eccezionale quanto, nel suo intimo, caotica e disfunzionale, dove tutti parlano e nessuno veramente ascolta.

Parliamo di legami familiari, di cambiamenti inevitabili, del tempo che passa, e lo facciamo alla metà degli anni Sessanta a Napoli, a Posillipo. Un grande e celebre scrittore di fama internazionale, Valerio Primic, per motivi misteriosi è a corto di ispirazione e non scrive più libri da dieci anni per cui lui, sua moglie Rose e i suoi due figli ventenni, Massimiliano e Adele, non potranno più permettersi di continuare a vivere nella splendida villa in cui abitano, un tempo lussuosa dimora, ora scricchiolante magione che sembra uscita da un racconto di fantasmi. La casa è stata messa in vendita da Rose per necessità: una decisione dolorosa che provoca forti reazioni nei figli che perderebbero così l'involucro dorato che li avvolge, nella fedele governante Bettina che si dispera per la prospettiva di non avere più una casa in cui vivere e in Valerio che scoprirà di non aver mai davvero conosciuto i suoi cari e, forse nemmeno se stesso, fino a raggiungere l'amara consapevolezza che vivere non significa essere vivi.

In particolare i figli e la moglie decidono di raccontare allo scrittore cose difficili: la ragazza gli rivela di essere incinta; il ragazzo, che si sente schiacciato da un padre che eccelle così straordinariamente in tutto, finisce col rivelargli la propria omosessualità e si sorprende quando scopre che il padre non si sconvolge e anzi avrebbe voluto che gliene avesse parlato prima; la moglie gli dice che la vendita della villa è stata finalmente perfezionata e che i nuovi proprietari sarebbero arrivati presto. Il finale imprevisto capovolgerà il punto di vista dello spettatore e servirà a giustificare le tante stranezze emerse nel corso del racconto.

Si tratta di una vicenda incentrata sui sentimenti e sugli affetti familiari che abbiamo scelto di ambientare nel 1965 per raccontare un'Italia e un modo di parlare ormai scomparso: a quell'epoca nel nostro Paese e nel mondo eravamo tutti più vicini, la parola, la comunicazione e il contatto erano molto più importanti mentre invece oggi si parla sempre meno perché si preferisce scrivere gli sms sui cellulari… C'era una certa forma che accompagnava i rapporti tra le persone, improntati comunque ad un maggiore rispetto, attenzione e ascolto, qualcosa che è andato completamente perduto in una società in cui si ascolta molto meno e questo è un aspetto che coinvolge anche i più giovani, a loro volta puniti dalla mancanza di attenzione e di ascolto da parte dei genitori.

C'è stato subito un forte interesse per il progetto da parte di Isabella Cocuzza e Arturo Paglia di Paco Cinematografica che hanno in seguito coinvolto come partner produttivi Amazon, Sky e Rai Tre. Il film è teatrale, l'impianto è claustrofobico perché restiamo sempre all'interno di una villa (abbiamo girato lo scorso inverno in una Napoli "in zona rossa" per il Covid) ma abbiamo cercato di lavorare sulla misura, sulle intenzioni rarefatte degli attori, senza spingere troppo verso la risata o la commozione come spesso succede nei film italiani. Cercavo una bella forma e così ho scelto di avvalermi della fotografia di Mike Stern, un direttore della fotografia polacco che avevo conosciuto e apprezzato a Trieste sul set del film Non odiare, mi piaceva l'idea di una fotografia particolarmente sobria ed elegante, la Villa Kern di Posillipo in cui abbiamo girato diventerà per chi vedrà il nostro film il luogo in cui sognerà di poter vivere. Molto importanti si sono rivelate anche la colonna sonora di due musicisti che amo molto come Pivio e Aldo De Scalzi e la sceneggiatura scritta da Andrea Ozza, il supervisore della seconda serie di I bastardi di Pizzofalcone, oltre che da Maurizio De Giovanni e da me.

L'idea è venuta in mente quasi contemporaneamente a Maurizio e a me ma la struttura è tutta opera sua, io ho sviluppato il suo testo sia in teatro che al cinema a mio modo rispetto a come lo aveva scritto ma lui mi ha fatto tanti complimenti dicendomi che aveva visto nel mio lavoro qualcosa che andava più in profondità rispetto a quello che lui aveva immaginato.

I giorni delle riprese hanno rappresentato per me un viaggio paradisiaco grazie ai miei attori che già ammiravo tanto e che non esito a definire sublimi. Sono molto soddisfatto per tanti motivi, a partire dal fatto che gli interpreti principali incarnano personaggi diversi da quelli per loro abituali. Massimiliano Gallo ha avuto finalmente l'opportunità di recitare finalmente per il cinema un ruolo da protagonista per cui ha dimostrato di essere pronto e maturo rivelandosi un attore di categoria ed eleganza superiore. Gli ho chiesto di usare misura e compostezza e lui, anche se portava sulle sue spalle l'intera storia, lo ha fatto in maniera sobria e misurata, al punto da sembrare in scena quasi un attore… scandinavo. È un uomo con una bellissima faccia e gli occhi azzurri, in certi momenti appare bellissimo e in altri soprattutto buffo. Di lui ho sempre apprezzato la fantastica ironia. Rappresenta il motore comico del film, insieme a Marina Confalone riesce a far ridere anche se sposta solo un sopracciglio e poi incarna un personaggio che lo tocca molto in profondità perché è figlio di un grande artista molto amato e molto speciale, il cantautore napoletano Nunzio Gallo. Ha vissuto il suo personaggio in maniera molto personale e intensa, ha fatto un gran lavoro "in levare" rispetto a quello fatto in teatro, riproponendo il suo personaggio in maniera molto diversa: nonostante gli applausi e le risate sicure sperimentate in palcoscenico ha "tolto" tutto e ora fa ridere ancora di più.

Per quanto riguarda poi Margherita Buy e Marina Confalone, ho pensato subito a loro, sono entrambe due grandi attrici e sapevo che sarebbero state ideali per i rispettivi ruoli. Margherita ha accettato subito volentieri l'impegno con me, nonostante io non sia un regista di fama… era l'interprete che conoscevo meno e che temevo di più perché in genere è molto severa, soprattutto con se stessa. Si è rivelata invece sorprendente e commovente, l'ho ammirata moltissimo perché ha "domato" la sua nevrosi già molto sfruttata al cinema per dar vita ad una donna che ha la sua vera età ed è pervasa da una vena di straziante malinconia, emotivamente molto coinvolgente. Quando ha visto il film pronto era molto contenta, ma quando mi ha detto di essere convinta che avrebbe potuto recitare ancora meglio io le ho risposto subito che meglio di così non si poteva…

Marina Confalone, invece, è da tempo la più grande attrice napoletana in circolazione, un vero e proprio fenomeno, e sono stato felice di aver potuto contare su di lei per un personaggio di grande tenerezza, qual è la governante Bettina, che porta avanti il meccanismo comico della situazione. La conoscevo perché è da tempo una delle migliori amiche di mia moglie Sabrina, lei ha sempre apprezzato molto il mio teatro, le era piaciuta molto anche la versione teatrale, così ha accettato subito di prendere parte al film e in scena fa quello che ti aspetti da un'artista sublime come lei.

Infine, Antonia Fotaras ed Emanuele Linfatti, i due giovani rispettivamente di 20 e di 24 anni che interpretano i due figli, sono fantastici, li ho scelti dopo tanti provini notando con grande piacere che il livello degli attori giovani in Italia è oggi molto più alto rispetto all'epoca in cui avevo io la loro età".

Massimiliano Gallo, Marina Confalone

Il silenzio grande (2021): Massimiliano Gallo, Marina Confalone

 

GIULIA

EXCL. LA PAROLA AL REGISTA CIRO DE CARO

"Volendo estremizzare la mia idea di cinema, e quindi quella che c'è in Giulia penso di poter utilizzare 3 parole: Verità, rigore e leggerezza.

Nella sceneggiatura, scritta a quattro mani con Rosa Palasciano, abbiamo deciso di raccontare qualcosa di sottile e provare a fotografare qualcosa di impalpabile raccontando dei personaggi inafferrabili oramai assuefatti ad una condizione che manderebbe in crisi chiunque sia abituato a condurre una vita fatta di certezze e scandita da tappe prestabilite e che invece loro vivono con una certa leggerezza.

Questi mondi a volte si scontrano, fanno qualche scintilla ma poi c'è una parte che risputa via l'altra come se ci fossero degli invisibili anticorpi sociali che tengono lontano ciò che è diverso che, dopo qualche momento di rabbia e umiliazione, ritorna serenamente e orgogliosamente al limbo dove si sente a proprio agio.

Può succedere però che si è costretti ad uscire da questa "scomoda zona confortevole", che ci si ritrovi letteralmente per strada e a quel punto, con la stessa naturalezza, ci si può ritrovare in pochissimo tempo a vagabondare e a iniziare a costruirsi una nuova zona confortevole anche se la situazione è ancora più scomoda.

È quello che accade a Giulia che è costantemente divisa tra il bisogno di sentirsi a casa e amata da qualcuno e una selvaggia e sacrosanta voglia di libertà.

Come regista, dunque, mi sono posto di fronte a questa storia con lo scopo di raggiungere un risultato che restituisse realismo, naturalezza e verità e questo mi ha portato a fare una serie di scelte forse rischiose ma che, come prima cosa, mi hanno consentito di mettere gli attori nella massima libertà possibile, gli ho chiesto di far vivere un personaggio reale, non costruito e di spingersi anche oltre i confini della sceneggiatura. Ho voluto liberarli da una serie di cose che potevano allontanarli da questa ricerca della verità, per esempio non ho voluto un reparto trucco e un'altra serie di cose che secondo me avrebbero contribuito a rendere tutto un po' più finto.

Mi interessava trovare in ogni scena e in ogni ciak un momento unico e vero e per questo ho chiesto a Manuele Mandolesi (direttore della fotografia) di ridurre le attrezzature al minimo, di essere discreto e rigoroso nelle scelte e di catturare la scena con lo sguardo di chi è sorpreso da ciò che accade.

Abbiamo percorso questa strada anche al montaggio, utilizzando un linguaggio che esula dagli standard del cinema più classico e che Jacopo Reale ha interpretato percorrendo una linea sottile senza concedere né qualcosa alla stranezza fine a se stessa né alla comodità di scelte facili e collaudate.

Per continuare su questa strada di rigore e verità ho deciso che nel film non dovesse esserci neanche una nota di colonna sonora a commento, l'unica musica che c'è proviene dalla verità della scena perché si tratta o di un brano che ballano oppure cantano i personaggi.

Questa è una scelta che spesso lascia perplessi, ma è la mia idea di cinema e la musica mi porterebbe lontano dal realismo che cerco.

Tutto questo rigore spero sia servito (paradossalmente) a realizzare un film leggero, godibile proprio perché vero e sincero, e a raggiungere il difficile obiettivo di fare un film dove si ride mentre c'è un dramma che viaggia a fari spenti, si insinua nello spettatore che se ne rende conto quando è troppo tardi e gli resta appiccicato addosso per un po'".

Rosa Palasciano, Fabrizio Ciavoni

Giulia (2021): Rosa Palasciano, Fabrizio Ciavoni

 

CORIANDOLI

LA PAROLA ALLA REGISTA

"Sono nata e cresciuta nelle Vele di Scampia e in quei palazzoni bianchi ho voluto raccontare una storia vera. La storia di una bambina a cui hanno tolto il tempo dei giocattoli. Ho voluto raccontare la criminalità dall'interno, accendendo la telecamera nei sobborghi dell'anima di una famiglia decaduta, fatta a pezzi dalle assenze. I protagonisti di questo film sono gli allievi della mia scuola di recitazione: La Scugnizzeria. Li ho visti crescere fisicamente e attorialmente. Questo film, dopo la vittoria del Nastro d'Argento con il mio precedente film Sufficiente, è una pugnalata, un cazzotto, una ferita, una poesia cruda" (Maddalena Stornaiuolo).

scena

Coriandoli (2021): scena

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8. Continua

 

Venezia 2021: Giorno 1

Venezia 2021: Giorno 2

Venezia 2021: Giorno 3

Venezia 2021: Giorno 4

Venezia 2021: Giorno 5

Venezia 2021: Giorno 6

Venezia 2021: Giorno 7

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