Alla 78ma Mostra del Cinema di Venezia arriva il giorno di Mario Martone e del suo film dedicato alla famiglia De Filippo, uno straordinario cortocircuito in cui Toni Servillo, complice una sceneggiatura che glielo permette, gigioneggia come non mai prima. Dalla Russia invece giunge una terza opera che promette di scardinare ogni scommessa sul papabile vincitore.
Recensioni del giorno
Happening – 12 settimane di EightAndHalf // Happening – 12 settimane di Alan Smithee
Mona Lisa and the Blood Moon di Alan Smithee // Mona Lisa and the Blood Moon di Port Cros
Il paradiso del pavone di EightAndHalf
The Falls di EightAndHalf // The Falls di Alan Smithee
Inferno Rosso. Joe D’Amato sulla via dell’eccesso di EightAndHalf
Nuestros dias mas felices di Port Cros
-----------------
CONCORSO
LA PAROLA AL REGISTA
"Per tutta la vita il grande Eduardo De Filippo non volle mai parlare di Scarpetta come padre ma solo come autore teatrale. Quando suo fratello Peppino lo ritrasse spietatamente in un libro autobiografico, Eduardo gli levò il saluto per sempre. Venne intervistato poco tempo prima di morire da un amico scrittore: “Ormai siamo vecchi, è il momento di poterne parlare: Scarpetta era un padre severo o un padre cattivo?”. La risposta fu ancora sempre e solo questa: “Era un grande attore”. Qui rido io è l’immaginario romanzo di Eduardo Scarpetta e della sua tribù" (Mario Martone).
EXCL. LE CLIP DEL FILM
EXCL. INTERVISTA AI REGISTI ALEKSEY CHUPOV E NATASHA MERKULOVA
Avete scritto insieme la sceneggiatura. Da dove è venuta l'ispirazione e come lavorate insieme?
NM: L'ispirazione per i nostri film spesso nasce dalle nostre paure. In questo caso, dalla paura della violenza e dell'aggressività, che purtroppo sono alcuni aspetti basici del mondo, sia di ieri sia di oggi.
AP: Quando lavoriamo insieme, abbiamo ruoli ben precisi: Natasha fa da regista e io da primo sceneggiatore. L'incrocio dei nostri punti di vista è ciò che rende fruttuosa la collaborazione.
Il film può essere visto come una riflessione sulla responsabilità morale dell'individuo in un sistema straordinariamente potente e disumano. Allo stesso tempo, usate elementi tipici del cinema di genere - scene di caccia da thriller, polizia ostinatamente al lavoro come nei procedural e richiami ai film horror - per allargare la storia. Cosa motiva queste scelte formali?
NM: Volevamo che il film avesse la stessa energia di una freccia in volo. con tutta l'azione compressa in un lasso di tempo molto breve. Come sfondo per il dramma, ci piaceva l'idea che il protagonista avesse solo 24 ore per risolvere il suo problema e non di più. 24 ore è tanto o è poco? Volkonogov riesce a vivere un'intera vita in quel lasso di tempo. Il ricorso ai generi è stato necessario per far sì che raccontassimo la profonda e complessa metamorfosi a cui va incontro una persona. Ci permettono, per continuare con la metafora, di mantenere in volo la freccia.
Il titolo che avete scelto allude al tema centrale del film: il capitano Volkonogov sa di essere responsabile di molti crimini ma decide di cercare la redenzione attraverso il perdono delle sue vittime o di altri che ha comunque fatto soffrire. Per farlo, deve fuggire dalla sua vita dall'interno del sistema ma può anche sottrarsi alle responsabilità? Cosa pensate che significhi per lui redimersi? Quale fuga cerca davvero? Cosa lo spinge verso la redenzione?
NM: Volkonogov attraversa diverse fasi nel relazionarsi con la redenzione. All'inizio, ha solo paura che, morendo, andrà all'inferno, dove sarà lentamente sventrato: in questa fase, non si è veramente pentito ma è motivato dall'istinto di sopravvivenza e desidera sfuggire alla sofferenza eterna. Ma, mentre comunica con coloro da cui cerca perdono, si rende conto che la vita non può sempre essere ridotta alla dicotomia "dolore/nessun dolore". Quindi, partendo da una motivazione egoistica che lo spinge semplicemente a salvarsi, diventa pian piano una persona capace di sentire anche la sofferenza deli altri e di pentirsi seriamente.
Con il personaggio del capitano Volkonogov avete messo in scena un protagonista profondamente conflittuale. Si tratta di un torturatore ben integrato in un sistema disumano ma allo stesso tempo non è scevro da autoanalisi e dalla capacità di comprendere quanto i suoi gesti siano atroci. Quando cerca di espiare i suoi peccati, sembra sincero nella ricerca di perdono. Può dunque essere crudele ma è anche in grado di compiere atti di vera gentilezza e sconfinata disperazione. Come siete riusciti a trovare tale equilibrio rendendolo un personaggio sì repellente ma ancora umano?
AC: Non è stato un compito facile. Ci abbiamo lavorato molto e, attraverso un processo scrupoloso, siamo arrivati alla versione finale dopo ben 27 bozze di sceneggiatura. Non è facile quando hai un antieroe per protagonista ma allo stesso tempo hai un grande potenziale a disposizione: ti puoi sbizzarrire nel descriverne i conflitti interiori. Abbiamo adorato l'idea che dentro quest'uomo convivano due potenti forze in guerra: l'istinto di sopravvivenza e l'anima.
NM: Importante è poi stata la scelta dell'attore per la parte. Avevamo bisogno di una persona all'apparenza semplice e senza particolari complicazioni che non sembrasse dapprima incline all'introspezione. Uno dei talenti principali dell'attore Yuri Borisov è la capacità che ha di trasmettere espressioni tra loro diverse con il solo sguardo, dote che ci ha particolarmente colpiti e che ci è tornata utile quando avevamo bisogno di mostrare come cambiava il protagonista divenendo più complesso e crescendo come persona.
Molte delle scene rimangono sospese tra differenti toni. Spesso il grottesco prende il sopravvento anche nelle scene più strazianti. A cosa si deve il mix? Si tratta forse di una sorta di omaggio alla grande tradizione di scrittori russi come Gogol o Kharms?
NM: Amiamo il mix tra tragico e comico e lo abbiamo dimostrato già con il nostro primo film. Del resto, la vita è così. Quante volte piangiamo e ridiamo al tempo stesso?
AC: L'umorismo è uno strumento efficace per affrontare le tragedie.
Anche se è ambientato nel 1938, il film presenta dettagli anacronistici (dai costumi alle scenografie). La città senza nome è senza dubbio San Pietroburgo ma declinata in una versione da incubo. Quali sono le motivazioni dietro questa coraggiosa scelta?
AC: Il nostro film non è un dramma storico... è più una parabola fantasmagorica ambientata nel contesto di un particolare momento storico, gli anni Trenta. La chiamiamo "retro-utopia".
NM: Non volevamo fissarci sull'epoca perdendoci dietro ogni dettaglio perfettamente ricostruito o storicamente accurato. Ci interessava più creare una connessione molto forte tra i personaggi e il pubblico. La nostra priorità non era la ricostruzione storica ma la storia del capitano come persona.
-----------------
FUORI CONCORSO
LA PAROLA AL REGISTA
"Amo i western da quando ero bambino. L’assenza di legge dell’inquieto e selvaggio West è stata idealizzata, dando vita per generazioni a storie di personaggi emblematici, di eroi e di cattivi. Alla base, il bene contro il male. È una storia che ho finalmente potuto raccontare con Old Henry. Si tratta di un “microwestern”, come dice Tim Blake Nelson. Un racconto minore, semplice, ambientato in un tempo alternativo in cui un autentico personaggio storico vive in un mondo fittizio. In fondo, è una storia su un padre e un figlio. Nessuno vuole che il proprio figlio cresca ripetendo i suoi stessi errori. Li proteggiamo e facciamo del nostro meglio per proteggerli dagli errori del nostro passato. È una storia di redenzione e perdono. Racconta come si lasciano andare via i figli sperando di averli cresciuti in modo che sappiano distinguere la ragione dal torto. È una storia fatta di tutto questo… oltre a qualche fantastica sparatoria" (Potsy Ponciroli).
LA PAROLA AL REGISTA
"Nel diciannovesimo secolo, sia C?echov che Flaubert utilizzavano i cliché che sentivano intorno a loro per rappresentare l’essenza della vita umana (nella quale, per entrambi, la stupidità, intesa in senso lato, giocava un ruolo fondamentale). Da allora, un'enorme collezione di un altro tipo di cliché ha invaso la nostra società: i giocattoli. Così ho immaginato un film in cui l’essenza delle nostre vite fosse raccontata non solo con le parole, ma anche con le immagini di innocenti giocattoli. Credo fermamente che il film sia pura cinematografia, perché questi giocattoli sono studiati con gli strumenti della nostra professione (macchina da presa e montaggio) e che il suo significato possa rivelarsi pienamente soprattutto in una proiezione sul grande schermo, in cui le dimensioni di questi piccoli giocattoli cambiano drasticamente" (Radu Jude).
LA PAROLA AI REGISTI
"Con questo film abbiamo voluto al tempo stesso omaggiare un grande regista del passato (Sergio Corbucci) e un grande regista contemporaneo (Quentin Tarantino), raccontando con la sensibilità di oggi una grande stagione del nostro cinema. Abbiamo lavorato sulla memoria, cercato materiali inediti, dato spazio al racconto e alla passione. Abbiamo voluto raccontare un’epoca senza nostalgia, ma con affetto e con lo stesso senso del divertimento che è caratteristico dei due registi da noi omaggiati". (Steve Della Casa, Luca Rea).
-----------------
ORIZZONTI
LA PAROLA ALLA REGISTA
"Ma nuit affronta il dolore e il modo in cui esso trasforma, e distorce, la nostra visione del mondo. Per ritrarre una ragazza di diciotto anni e la Parigi di oggi, ho scelto la forma del viaggio sia interiore sia fisico. E? come una lontana versione dell’errare mitologico, in cui gli eroi si perdono, si affrontano, alla ricerca di uno scopo stabilito da eventi esterni che loro non riescono a controllare.
La notte di Marion a Parigi diventa il riflesso di una generazione che sente di aver perduto per sempre la sua spensieratezza, abbandonata in un mondo spezzato. La ricerca della liberta?, o piuttosto il senso di liberta? di una generazione che vive nella paura, e? il tema centrale di Ma nuit" (Antoinette Boulat).
LA PAROLA ALLA REGISTA
"Mia madre Vera aveva trentacinque anni quando divorziò da mio padre. Cresciuta nella Jugoslavia socialista, credeva nel sistema giudiziario. Per garantire la nostra eredità, si batté duramente in tribunale ma ne uscì sconfitta. Fu questa la prima volta in cui, misurandosi con i limiti di una società di cui desiderava far parte, capì che il sistema legale seguiva una dinamica fortemente patrilineare che, avendo storicamente discriminato le donne in merito a questioni come il diritto alla proprietà, le costringeva per tutta la vita alla dipendenza economica dagli uomini. Mi interessava sfidare il tradizionale tema dell’eroe maschile, personaggio il cui arco di trasformazione spesso non corrisponde all’esperienza delle donne e di altre figure emarginate. Allo stesso tempo ho cercato di non replicare il tropo della donna repressa e priva di obiettivi.
Il destino di Vera mette in luce una spietata società postbellica invischiata nella corruzione, in cui le donne possono essere solo un danno collaterale di uno sviluppo che non vuole ostacoli. Mi vedo come un’intima e curiosa osservatrice della vita di Vera; intenta a metabolizzare il dramma interiore della sua esperienza quotidiana.
La sottomissione di Vera mi mette a disagio e mi commuove allo stesso tempo perché sia il cinema che la letteratura hanno raramente, se non mai, ritratto le donne della sua generazione. Innumerevoli stereotipi vengono rappresentati nel loro nome ma come afferma Zadie Smith: La prima generazione fa quello che la seconda non vuole fare, così la terza è libera di fare quello che preferisce" (Kaltrina Krasniqi).
LA PAROLA AL REGISTA
"Io e mia moglie siamo entrambi registi. Uno dei nostri passatempi è passeggiare nelle foreste fuori Vilnius e prendere appunti su location che reputiamo interessanti per i nostri futuri progetti. Quattro anni fa ci siamo imbattuti in una strada che ci ha fatto ricordare un’inchiesta giornalistica su un’auto bruciata con una ragazza all’interno del baule. Avendo seguito la vicenda da vicino, ne avevo tratto un cortometraggio. E pur nella consapevolezza che non ci trovavamo sull’effettiva scena del crimine, gli occhi mi si sono riempiti di lacrime immaginando lo stato d’animo delle persone vicine alla vittima nel momento in cui si fossero trovati nel luogo esatto in cui la tragedia si era consumata. Sebbene a mia moglie fosse sfuggita la ragione del mio turbamento, ho deciso di narrare una storia incentrata su quella sensazione" (Laurynas Bareisa).
-----------------
BIENNALE COLLEGE
LA PAROLA ALLA REGISTA
"L’impatto della guerra sui bambini si complica ulteriormente quando sono loro a commettere violenza. Questa è la vera tragedia dei bambini soldato. Volevo analizzare chi essi diventino da adulti, come elaborino le atrocità di cui sono stati testimoni o autori. Si tratta di un aspetto della guerra poco trattato. Ambientando Our Father, the Devil in un luogo neutro, ho avuto l’opportunità di analizzare il tema da una prospettiva singolare e anche di realizzarne un intimo commento sociale" (Ellie Foumbi).
-----------------
SETTIMANA DELLA CRITICA
EXCL. LA PAROLA AL REGISTA ARSALAN AMIRI
"Ricordo la prima volta che sentii parlare del Jinn (genio). Da piccolo, dubitavo dell’esistenza di una creatura soprannaturale invisibile fatta di fuoco, ma non avevo il coraggio di parlarne. Mi costringevo a crederci, non volevo che di notte i geni mi punissero. Ho superato questi racconti e queste paure. Anni dopo, mentre cercavo una storia unica per il mio primo film, mio padre mi raccontò di uno dei nostri avi che catturò un genio attaccandosi una spilla ai vestiti! Era puro realismo magico e, sorprendentemente, mio padre ci credeva. In quel momento, trovai il mio film. Il tema della “credenza” non mi ha mai lasciato dall’infanzia sino ad ora. Ho capito che non siamo nulla se non quello in cui crediamo o scegliamo di credere. Allo stesso tempo, ogni tanto dobbiamo rivedere i nostri valori, lasciare che il dubbio e l’incertezza giudichino le nostre idee più rigide. Questo può portare ad una vita migliore, o forse alla tragedia! E la tragedia è consapevolezza".
DAL CATALOGO DELLA SIC: "Zalava è ambientato nel 1978, prima della Rivoluzione, in un villaggio del Kurdistan dove gli abitanti sono particolarmente agitati perché credono che tra loro ci sia un demone. Per scacciarlo viene chiamato un esorcista che viene arrestato da Massoud, un agente di polizia, con l’accusa di frode. Il poliziotto non crede a quello che sta accadendo. Una sera in caserma però l’uomo sta per aprire un barattolo dove potrebbe esserci rinchiuso il demone. E una sera a casa di Malileh, la dottoressa che ha sempre amato, l’atmosfera è strana. C’è un continuo contrasto tra fede e ragione. La natura selvaggia, brutale dell’individuo crea un accostamento immediato con il recente Border. Creature di confine (Gräns) diretto dal cineasta svedese di origini iraniane Ali Abbasi. Le tracce dell’horror però in Zalava agiscono sottotraccia". (Simone Emiliani, Demoni e paure, pag. 72).
-----------------
GIORNATE DEGLI AUTORI
LA PAROLA ALLA REGISTA
"Questo film è stato realizzato per andare alle radici del trauma di una donna. Un percorso che attraversa vari livelli di dissociazione, da quello personale e famigliare a quello religioso e coloniale; un caleidoscopio di identità frantumate e sogni infranti. You Resemble Me è un invito a ripensare il nostro concetto di verità assoluta; è una sfida a sollevare quei veli che ci impediscono di vedere noi stessi negli altri" (Dina Amer).
Tra il diario intimo e la confessione filmata, Vorrei sparire senza morire è un percorso che inizia e finisce in due diversi cimiteri, passando per Bologna, il castello di Rocchetta Mattei, gli uffici romani della DueA e gli studi di Cinecittà. Il cinema, che è lo sfondo di tutto, lascia il posto a un sentimento della vita, una riflessione sulla morte, una malinconica rievocazione delle stagioni dell’amore. Con la sua calda umanità, ma anche la sua consumata autoironia, Avati si concede alla videocamera dei giovani filmmaker dell’Università IULM con una sincerità a tratti quasi commovente. E conferma di essere non solo uno dei maestri del cinema italiano, ma anche un uomo che ha vissuto il suo (e il nostro) tempo con un’immersione e una dedizione totali.
LA PAROLA AL REGISTA
"Il nome di Filippo Dobrilla mi giunse alle orecchie per puro caso quando, in un paesino delle Alpi Apuane, due cacciatori mi parlarono di una statua scolpita nel cuore della montagna che sovrasta il paese. Non sapevano cosa raffigurasse perché realizzata troppo profonda e inaccessibile, ma erano certi della sua esistenza. Pensai che si trattasse di una leggenda della zona, scoprii invece che la statua esisteva, così come il suo creatore: Filippo Dobrilla. Incontrandolo, sono rimasto immediatamente colpito dal suo magnetismo silenzioso. Seguendolo per più di quattro anni, la nostra relazione artistica si è gradualmente trasformata in una sincera amicizia, tanto che Filippo mi ha permesso di accedere al suo mondo interiore e di seguirlo nel suo viaggio finale, quello della malattia che ha causato la sua scomparsa. Caveman - Il gigante nascosto è la storia di un uomo il cui mistero rimarrà custodito nel fondo di un abisso, il tributo a un artista eccezionale e a un essere umano complesso" (Tommaso Landucci).
-----------------
7. Continua
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta