La 78ma Mostra del Cinema di Venezia è al giro di boa: comincia oggi la settimana che condurrà dritta all’assegnazione del Leone d’Oro. In concorso oggi ci sono un ex vincitore venezuelano e un autore ucraino alla sua prima grande occasione. Molti gli italiani invece nelle sezioni collaterali, dove si nota la presenza dell’ultima opera a cui ha preso parte il compianto Libero De Rienzo.
Recensioni del giorno
Sundown di Alan Smithee // Sundown di EighAndHalf
Illusioni perdute di Port Cros // Illusioni perdute di EightAndHalf
Mona Lisa and the Blood Moon di EightAndHalf
Official Competion di Port Cros // Official Competition di Alan Smithee
Ultima notte a Soho di Port Cros
Il collezionista di carte di Port Cros
--------------------------
CONCORSO
EXCL. LA PAROLA AL REGISTA LORENZO VIGAS
"In Messico, come nel resto dell'Americana Latina, esiste una quantità innumerevole di famiglie smembrate per cui l'assenza della figura paterna è una realtà comune e quasi di routine.
Molti giovani crescono e sono forgiati da questa assenza. Questo tema, così fondamentale nella definizione di un individuo, ha catturato particolarmente la mia attenzione di sceneggiatore. Chi siamo o cessiamo di essere è, senza dubbio, direttamente, francamente e potentemente correlato a chi è stato, o ha cessato di essere, il nostro progenitore. Chi siamo come continente è anche, onestamente, legato a questa assenza. Non a caso l'America Latina è dove fenomeni come il peronismo o il chavismo hanno lasciato un segno sociale, politico e umano davvero profondo: la figura di un leader è arrivata a colmare, dal punto di vista psicologico, quel vuoto e quel bisogno generato da un padre che non è mai stato presente in casa e che cerchiamo disperatamente di ritrovare.
Mi è stato che chiesto se anch'io avessi vissuto la stessa esperienza. No, nel mio caso è stato il contrario. Mio padre, l'artista visivo Oswaldo Vigas, pur essendo uno dei pittori più importanti del Venezuela e pur avendo una vita pubblica molto impegnativa, è stato sempre affettivamente presente. Ho fatto semmai riferimento all'immagine del padre latinoamericano a livello archetipo. Come dice il proverbio: "Non sei tu a scegliere le tue ossessioni ma sono loro a scegliere te".
The Box è il terzo e ultimo capitolo di una trilogia che ho sviluppato sulla figura del padre latinoamericano. Il primo, il corto Gli elefanti non dimenticano mai, ha posto le basi che poi hanno dato i loro frutti con il secondo, il lungometraggio Ti guardo, che ha vinto il Leone d'Oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2015.
Durante la loro adolescenza, molti giovani dell'America Latina sono legati ai loro padri per quanto concerne il lavoro. Cominciano a lavorare quando ancora manca loro quella solidità emotiva che gli permetta di capire che lavoro stanno effettivamente svolgendo, quando sono ancora senza una struttura di valori consolidata che permetta loro di capire cosa è eticamente giusto o sbagliato. Hatzin, il giovane protagonista di The Box, si trova di fronte a questa situazione. The Box è una storia di formazione ma nel contesto latinoamericano acquisisce un particolare peso essendo la maggior parte della popolazione del continente composta da giovani. Una popolazione che determinerà il futuro sociale e politico delle generazioni successive. È un film sulla crisi di identità che ogni giovane attraversa durante l'adolescenza, ma che, raccontato nel contesto di un paese in cui tante persone scomparse vengono trovate nelle fosse comuni, si trasforma in una crisi di identità collettiva.
In The Box rifletto sul tema dell'identità da diversi punti di vista. La storia dell'America Latina è molto giovane. Fino a non molto tempo fa, eravamo ancora colonie europee; stiamo, come continente, cercando di capire chi siamo e dove stiamo andando. Hatzin rappresenta, nella sua seppur accennata adolescenza, un simbolo per avvicinarsi al tema sotto varie prospettive.
La ferita che molti paesi dell'America Latina condividono è la stessa: l'identità del gran numero di persone scomparse a causa delle procedure dittatoriali di estrema destra. Nel caso del Messico, si tratta del risultato di una guerra tra il governo federale e i narcotrafficanti, oltre che della conseguenza della grande quantità di persone che cercano, con mezzi più o meno leciti, di entrare negli Stati Uniti ma che finiscono con il diventare vittime di cartelli o di altre organizzazioni criminali. Nel caso specifico di The Box, si fa riferimento alla misteriosa scomparsa di donne da ogni angolo del Paese, che quando arrivano in città come Juarez stranamente svaniscono. Si calcola che il numero di donne scomparse in questo modo negli ultimi anni raggiunga le migliaia The Box non cerca di spiegare il fenomeno, si basa solo su un dato di fatto documentato.
In The Box, Hatzin, un adolescente di Città del Messico, viaggia per raccogliere i resti del padre, rinvenuti in una fossa comune nella parte settentrionale del paese. Ma l'incontro casuale con un uomo che somiglia al genitore gli fa mettere in dubbio la certezza della morte avvenuta e, soprattutto, gli apre la porta alla possibilità di riallacciare quel rapporto genitore-figlio che tanto desidera avere.
Questo è come il giovane protagonista incontra Mario. Ma Mario è realmente il padre di Hatzin? O il giovane si aggrappa a tutti i costi a quest'idea? L'ambiguità di fondo a cui ricorro come strumento narrativo nel contesto della ricerca della propria identità non avrebbe motivo di esistere se raccontassi una storia di certezze. È l'ambiguità che ci spinge a rimettere continuamente in discussione chi siamo o chi saremmo potuti diventare.
L'attesa della certezza di dove si trovi un componente della famiglia è un'esperienza vissuta da migliaia di latinoamericani. Per loro, non seppellire un parente è come averlo lasciato in un limbo, in uno spazio indefinito tra purgatorio e inferno. Come possiamo sapere chi siamo se non siamo in grado di chiudere il capitolo sulle nostre origini? Anche quando uno è abbastanza fortunato da ritrovare i resti di un parente, il dubbio su a chi appartengano tali resti lo attanaglierà sempre. Molte famiglie dei dispersi, anche dopo averne ritrovato i resti, rimangono con la sensazione che probabilmente il loro caro sia ancora vivo da qualche parte e che tutto sia stato un qui pro quo. Per il Messico, i dispersi rappresentano l'impossibilità di definirsi una nazione libera dal passato: dopotutto, è un paese in cui il passato preispanico si scontra con la vita moderna e la possibilità di convertirsi nel suo vicino a nord".
LA PAROLA AL REGISTA
"Ho iniziato a lavorare a questa storia ispirato da un piccione che si è schiantato contro la nostra finestra, mentre volava ad alta velocità, lasciando un segno allo stesso tempo bello e orrendo. Mia figlia di dieci anni ha visto tutto: l’impronta precisa delle ali, la traccia di sangue lasciata dall’impatto della testa, le piume attaccate al vetro. Nei giorni successivi, eravamo turbati da quanto era successo. Le sue preoccupazioni, domande, attese di risurrezione miracolosa, la negazione dell’irreversibilità di questo evento e i tentativi di comprendere la morte dal punto di vista infantile mi hanno spinto a scrivere una storia sulla relazione tra un padre e una figlia addolorati per la morte di una persona amata.
La morte di uno dei personaggi è connessa alla guerra che infuria nell’Ucraina orientale. Mettendo in relazione l’agiata vita quotidiana nella capitale e la realtà mortale della guerra, si crea un contesto molto intenso per questa storia sulle paure dei bambini e il loro primo incontro con la morte, e si evidenzia l’impotenza degli adulti. È una storia sulla presa di coscienza da parte di un bambino del fatto che la vita umana è limitata. È anche una storia sulle responsabilità degli adulti nei confronti delle persone amate, di sé stessi e del mondo in cui esprimono il proprio potenziale. La bambina e l’adulto si aiuteranno a vicenda a comprendere questo mondo bello e crudele, così simile al segno lasciato dal piccione sul vetro" (Valentyn Vasyanovych).
--------------------------
FUORI CONCORSO
EXCL. LA PAROLA AL REGISTA STEFANO MORDINI
“Trovare un modo per osservare con il necessario distacco questa storia su cui aleggia, inesorabile, l’omicidio del Circeo, un racconto che lentamente si trasforma in dramma e poi in un incubo che ha segnato molti dei nostri ricordi, è stata per me la vera sfida da affrontare quando ho cominciato a lavorare a questo film.
Non ho voluto spettacolarizzare quella violenza, l’obiettivo era seguire il fluire del viaggio dalla città verso il mare, con il desiderio che la storia potesse avere un finale diverso. Volevo investire emotivamente su quella speranza proponendo una lettura dei fatti, in sintonia con il libro di Edoardo Albinati da cui è tratto il film, che vuole ampliare il più possibile la responsabilità di quel che è successo, anche al di là di quella innegabile dei tre autori del delitto.
In sceneggiatura abbiamo trasformato le parole dello scrittore in voce narrante, sostenendo l’idea di un racconto collettivo dove tutti i personaggi ruotano attorno a un unico asse rappresentato dalla loro scuola, il loro quartiere, la loro classe sociale.
In fase di ripresa ho cercato di seguire con cura i protagonisti, ho ascoltato più che guardato ciò che riprendevo. Sono stato molto in scena, al fianco della macchina da presa piuttosto che dietro, e l’ho tenuta spesso in mano per prendere appunti su azioni che sono nate spontaneamente e che non avevo previsto. La scuola cattolica è veramente un film collettivo, è stato un lavoro molto condiviso e interpretato da tutti, davanti e dietro la macchina da presa, al di là del monitor.
Non sarebbe stato possibile realizzare questo film senza la collaborazione di un gruppo di giovani attori che si sono prestati a un racconto forte, capendo la riflessione sulla violenza che volevamo fare. Essenziale è stato il generoso contributo di attori di esperienza, di cui ho potuto giovare, approfittando della loro amicizia, e che ha dato vita a un confronto tra generazioni che mi ha molto affascinato.
Al processo, i due autori del delitto che sono stati arrestati (il terzo ha vissuto tutta la vita da latitante) hanno dato motivazioni vaghe, deliranti: “Lo abbiamo fatto perché era arrivato il momento di dare un segnale". “Dovevamo far capire che eravamo ancora vivi". “Non potevamo starcene con le mani in mano”. Ho pensato spesso a queste frasi, durante le riprese, ma per la ragione opposta a quella degli assassini. Penso che il cinema sia un’arte straordinaria perché può aiutare a evadere, a immaginare la storia in altro modo, a riflettere su quello che è accaduto o a tenere alta l’attenzione.
Spero che La scuola cattolica riesca in questo intento. Per me è stato così”.
LA PAROLA AL REGISTA
"Il film è un vero e proprio reality poliziesco: per oltre trentasei anni segue Rob, Freddie e Deliris in un viaggio vorticoso tra le strade e le prigioni di Newark, la città più grande del New Jersey. Attenzione: non ci sono filtri. Voi siete lì con loro, e sperimenterete violenza, amore, coraggio, redenzione ed eroismo... la lotta disperata per sopravvivere al nemico più pericoloso che abbia mai attaccato l’America. Tutte le nostre guerre messe insieme hanno causato un milione di morti. Nei quarant'anni del film le droghe hanno ammazzato più di cinque milioni di americani. I tre eroi di questo film erano miei amici, e hanno pagato con la vita i nostri fallimenti" (Jon Alpert).
--------------------------
ORIZZONTI
EXCL. UNA STORIA INEVITABILE
"Quando vedo qualcosa che mi disturba, preferisco non girarmi dall'altra parte", afferma il regista Alexandre Moratto. "Devo affrontarla. Spesso mi chiedono perché tratto sempre argomenti tanto delicati. Rispondo sempre che non posso farne a meno. Fingere di non vedere non è nelle mie corde".
Il trentaduenne Moratto ricorda un momento in particolare in cui non è proprio riuscito a distogliere lo sguardo e che l'ha portato a dedicare mesi allo sviluppo della sceneggiatura originale di 7 Prisoners, il thriller che rappresenta la sua seconda opera cinematografica. Stava guardando un servizio speciale su Globo News, in Brasile, che parlava della schiavitù moderna di decine di migliaia di lavoratori segreti, costretti a lasciare le loro povere case per svolgere contro la loro volontà lavori pericolosi ed estenuanti attirati dai gatos, reclutatori che promettono alti salari per poi trasformare i subordinati in veri e propri schiavi, facendo leva su debiti o altre cose peggiori.
"Una delle immagini che ho visto a San Paolo è quella di un ragazzo incatenato costretto a lavorare con la forza", racconta Moratto. "Stiamo parlando di una città globale del XXI secolo. La cosa mi ha sconvolto".
Così è iniziata la fase di minuziosa ricerca del regista, esattamente come è successo con Socrates, il suo primo film del 2018 molto apprezzato dalla critica che parla di un adolescente di San Paolo costretto a lottare contro povertà, dolore e omofobia. Moratto ha iniziato a leggere dozzine di articoli che ha raccolto in un foglio Excel per poi passare a saggi e reportage. Ha incontrato importanti giornalisti esperti di queste storie che avevano assistito in prima persona alle retate di lavoratori illegali.
"Eppure sentivo di non aver fatto ancora abbastanza", spiega Moratto. Per questo decide di accompagnare un'amica impegnata a intervistare le vittime del traffico di esseri umani per conto delle Nazioni Unite e del Ministero del lavoro del Brasile. "Sono stato la sua ombra per un'intera settimana durante le interviste", ricorda. "Ho preso appunti infiniti, ma al di là delle informazioni, ho potuto guardare le persone negli occhi, vedere le espressioni dei loro volti e interagire con loro. È stata un'esperienza estremamente rivelatrice".
La missione di Moratto come regista è quella di portare alla luce le ingiustizie. "È importante", spiega. "Mi sono sempre molto interessato al sociale, non necessariamente al lato politico della cosa, ma all'aspetto umano, alle persone e a ciò che li costringere a prendere determinate decisioni".
Così la sceneggiatura ha iniziato a prendere forma. Si concentra su un ragazzo che viene sfruttato assieme ad altri a San Paolo, città a lui sconosciuta. "Purtroppo per i poveri il rischio di finire in loschi traffici è maggiore", lamenta Moratto. "È un dato di fatto e ho sentito di voler fare un film dalla loro prospettiva".
Per la sceneggiatura il regista si affida al talento e all'intuizione di Thayná Mantesso, con cui ha collaborato per Socrates nell'ambito di un programma finanziato dall'UNICEF mirato a promuovere le giovani voci delle comunità a basso reddito.
"Quando abbiamo iniziato a lavorare per Socrates, Thayná aveva 18 anni", ricorda Moratto. "Non aveva fatto grandi studi, ma aveva una propensione naturale per la sceneggiatura. Cosa puoi insegnare a un talento simile? Inoltre, ci tenevo a lavorare di nuovo con lei perché è una cara amica dotata di grande genio artistico, ma anche perché è una giovane donna nata e cresciuta proprio nelle comunità di cui volevo parlare. Poteva offrire una visione dall'interno e sapevo che sarebbe stata in grado di rendere giustizia a questi personaggi".
Mantesso e Moratto hanno iniziato a scambiarsi bozze e proposte di scene, lavorando insieme in Brasile e poi in America grazie a una borsa di studio per la scrittura di sceneggiature offerta dal San Francisco International Film Festival. Infine, arrivò il momento di inviare la storia a due produttori molto speciali, entrambi registi affermati, che hanno fatto di Moratto il loro protetto emergente.
SIMBOLISMO DIETRO AL FILM
Le riprese di 7 Prisoners sono state girate a San Paolo con telecamere digitali RED e sono durate 32 giorni per concludersi un giorno prima che il lockdown per il COVID-19 rendesse impossibili simili produzioni, soprattutto in un Brasile duramente colpito. Nonostante qualsiasi correlazione tra una pandemia globale e le idee del film risulti essere involontaria, il pubblico si avvicinerà al film con quest'ottica. Moratto lo sa bene.
"La pandemia ha definitivamente peggiorato le disuguaglianze sociali", constata il regista.
"Dobbiamo rispettare il distanziamento sociale, ma ritengo che siamo dei privilegiati, voi, io e la maggior parte delle persone perché possiamo starcene seduti a lavorare a casa usando Internet, mentre ce ne sono altre che svolgono attività che non lo consentono e che sono quelle maggiormente colpite".
Moratto ricorda una scena del film in cui Luca indica i cavi che portano elettricità alla città, quegli stessi fili da cui Mateus e i suoi compagni prigionieri tolgono incessantemente il rame e prosegue: "All'improvviso, viaggiamo insieme ai cavi, scopriamo così che portano l'energia elettrica per alimentare i sistemi di trasporto usati dalle persone in città e per illuminare tutta San Paolo. Non volevo che il film scadesse in facili condanne, ma siamo tutti complici. Vogliamo tutti risparmiare, ma spendere meno ha il suo prezzo".
Convinto che la pandemia abbia messo nuovamente in evidenza una più ampia interconnettività sociale, anche il produttore Bahrani la ritiene una sequenza fantastica e aggiunge: "Penso che il mondo stia vivendo una sorta di trauma condiviso, soprattutto le persone della classe operaia, vale a dire la stragrande maggioranza degli individui sul nostro pianeta. 7 Prisoners è una storia globale che susciterà l'empatia degli spettatori di tutto il mondo".
Santoro vede il film sia su un piano microscopico sia su un piano macroscopico. Si augura che possa aumentare la consapevolezza delle condizioni di sfruttamento non solo in Brasile, ma in tutto il mondo perché, sfortunatamente, è un fenomeno che si verifica quotidianamente ovunque. L'attore fa notare inoltre che il film esplora il lato oscuro della natura umana e le conseguenze che ne derivano.
"Il potere corrompe", chiosa il produttore Meirelles. "Alex sta raccontando il genere umano. Basta guardare Il Signore degli Anelli. È la stessa storia. Le idee e l'anima di un bravo ragazzo sono all'improvviso corrotte da un anello. In fin dei conti credo si tratti di un film sul potere".
Scosso dall'esperienza di interpretare Mateus, Malheiros spera di riuscire a fare la differenza. "Faccio l'attore perché penso che i film possano cambiare il mondo", confessa. "Il cinema in Brasile è molto più che mero intrattenimento. Riveste un ruolo sociale e getta luce su ciò che la società vuole lasciare nell'ombra. Questo film ha proprio questo potenziale e vogliamo che le persone si sentano trasformate dopo la sua visione. La schiavitù esiste e non è molto lontana da noi".
LA PAROLA AL REGISTA
"Se Phnom Penh sembra cambiare giorno dopo giorno, i nostri ricordi rimangono. Lo sfratto dallo storico White Building, subito dalla mia famiglia nel 2017, ha permesso la costruzione di un nuovo casinò: come la generazione dei miei genitori ha sofferto per il travagliato passato della Cambogia, così la mia generazione porta con sé i traumi del presente. I giovani come Samnang, protagonista del mio film, sognano qualcosa di meglio in una nuova Cambogia. Le decisioni più importanti però non dipendono ancora da loro, e genitori come quelli del mio protagonista rimangono testardamente legati alla tradizione. Il film però mi ha dato di nuovo la possibilità di immaginare. La finzione libera Samnang dalla strada percorsa da me: lui si sveglia da un lungo sonno, rievoca il passato ma progetta il proprio futuro" (Kavich Neang).
LA PAROLA AL REGISTA
"Il film è il culmine dei sentimenti e delle emozioni che provo per Calcutta e i suoi abitanti, una città impegnata nel tentativo di stare al passo con un mondo in rapida evoluzione. Utilizzando personaggi reali ed eventi effettivamente accaduti, il film è il mio tentativo di eliminare i vari strati della città un tempo comunitaria, per rivelare una condizione umana tragica ma, allo stesso tempo, piena di speranza e di gioia. Il film evidenzia le aspirazioni e gli sforzi di persone che annaspano in una metropoli in continua espansione. Ho cercato di dare agli spettatori un vero spaccato delle acque torbide di Calcutta, attraverso dei personaggi vivaci che cercano in ogni modo di ritagliarsi un loro spazio, senza affogare" (Aditya Vikram Sengupta).
--------------------------
SETTIMANA DELLA CRITICA
EXCL. LA PAROLA AI REGISTI HELENA GIRON E SAMUEL M. DELGADO
"Siamo da sempre affascinati dal mistero del passato, Soprattutto per l’universo di possibilità, azioni, idee ed esperienze che implica l’immaginarlo da un punto di vista contemporaneo. Il film è ambientato nel 1492, un anno che rappresenta l’inizio del progetto occidentale di dominio globale. Da questa data in poi, la caccia alle streghe, il traffico degli schiavi e la conquista delle Americhe sono stati la base per stabilire e articolare il moderno sistema capitalista del quale siamo tutti discendenti. They Carry Death è un film sul lutto, sulla morte dei nostri cari, dei nostri amici, dell’immagine che abbiamo di loro nella nostra memoria. Ma anche di coloro che non abbiamo mai incontrato, delle idee e memorie che sono state sepolte lungo il cammino e che in qualche modo sono rimaste vive dentro di noi, come una fiamma inestinguibile".
DAL CATALOGO DELLA SIC: "Helena Girón e Samuel M. Delgado, cineasti ma anche artisti visuali, raccontano una dimensione incessantemente materica fatta di rocce e vento, acqua e lava incandescente. Dentro il racconto visivo delle imprese disperate di tutti - i disertori, i marinai di Colombo, la donna in cerca di una curandera che sappia compiere miracoli - Girón e Delgado incastonano come reperti fossili immagini di archivio da filmati anni Cinquanta, recuperano fotogrammi graffiati come pitture rupestri, citano un testo ottocentesco sulla nascita delle streghe, alternano la narrazione rea[1]lista a visioni allucinatorie. La loro è una ricerca filologica prima ancora che iconografica, che si inserisce bene nel percorso collettivo del Novo Cinema Galego, tra Lois Patiño e Oliver Laxe, nella riflessione sul rapporto fra uomo e paesaggio e nel racconto di eventi magici e stregonerie. La cura con cui imbastiscono la tessitura visuale e sonora di They Carry Death rivela una tradizione pittorica che strappa le figure umane al buio modulando la luce e recupera un’identità artistica artigianale mai edulcorata. Fin dalla prima scena, in cui la vela viene sottratta alle onde, i registi ci immergono in una dimensione sensoriale che impedisce ogni distanza, facendoci sentire sulla nostra pelle tutta la gravitas dell’avventura umana" (Paola Casella, Erranze parallele, pag. 22).
--------------------------
GIORNATE DEGLI AUTORI
LA PAROLA AI REGISTI
"Avevo 18 anni quando sono finita in riabilitazione. Ero sorpresa, stavo bene in quel posto. Nel mio ambiente borghese ero quella corrotta. Là, in mezzo agli altri tossicodipendenti, ero vista come una speciale. Da adolescente insicura, ho abboccato immediatamente alle lusinghe. L'immagine che gli altri hanno di noi può sedurci al punto da identificarci con essa, finché non ci rendiamo conto dolorosamente che si tratta di un'illusione pericolosa" (Monica Stan).
"Leggendo la sceneggiatura di Monica sono stato attratto dalla relazione tra il continuo chiacchiericcio e il desiderio dolorosamente concreto di vicinanza. Per dirla in altri termini, le parole creano un velo ingannevole di intricate dinamiche di potere e di genere in contrasto con i corpi che si attardano, a volte abbandonati in un'unione calda e totalizzante" (George Chiper-Lillemark).
LA PAROLA ALLA REGISTA
"Fellini e l'ombra è un film insolito che mescola la finzione all'animazione e al documentario, per sondare l'inconscio creativo di un genio assoluto. È un viaggio nella vita interiore di Fellini, guidato dalla sua voce più intima, tra memoria e sogni, disegni e immagini cinematografiche, foto e backstage che mostrano il lato più segreto del grande regista" (Catherine McGilvray).
EXCL. INTERVISTA AL REGISTA ALESSANDRO CAPITANI
Come definirebbe il suo film?
Lo definirei un fantasy neorealista. Ci sono i grandi temi: il lavoro, la casa, la violenza sulle donne, ma è anche un po’ fantasy. C'è una dimensione brillante e gioco con i generi, li mescolo…. Forse è un po’ più com'era la commedia all'italiana in cui si ride e si piange e il dramma si mescola al sorriso. Come nella vita vera, insomma.
Si direbbe che in questo film lei si rifletta perfettamente, come se fosse la vera opera prima.
Lo sento un po’ come il mio film d'esordio, anche se non lo è stato... Sul primo lungometraggio, In viaggio con Adele, sono salito in corsa. È stata un'esperienza molto formativa e ne sono grato alla produzione, a Nicola Guaglianone, ad Haber. Ma questa è una storia tutta mia, imparentata con il mio corto Bellissima, in cui pure giocavo con i generi. Qui ho aggiunto la magia, un mondo in cui ti sembra di vedere una cosa, mentre in realtà si racconta altro. Qualcosa che spero arrivi in maniera ‘precisa’, riuscendo a toccare nel profondo lo spettatore.
Come nasce I nostri fantasmi?
Il soggetto nasce dalla mia esperienza televisiva quando lavoravo con Domenico Iannacone alla trasmissione I dieci comandamenti per Rai 3. Una puntata della serie era dedicata agli sfratti e ho visto in maniera diretta cosa vuol dire perdere all'improvviso la casa, sentire suonare alla porta l'ufficiale giudiziario in compagnia del fabbro e dei carabinieri. Un'esperienza sotto molti punti di vista scioccante. Molte persone avevano perso tutto, anche la speranza. Da lì mi è venuta l'idea di raccontare la storia di un padre che resta nella casa da cui è stato sfrattato.
Il cast è bene assortito, non banale. È stato difficile trovare gli attori giusti?
No, non è stato difficile. Michele Riondino è mio coetaneo e sentivo che per la parte più personale mi rappresentava. Oltre ad essere bravissimo è anche padre di due bambine, azzeccatissimo. Hadas Yaron è un'attrice israeliana straordinaria, di rara intensità, perfetta per raccontare una donna in fuga. Con Alessandro Haber ormai è nato un rapporto di stima e amicizia che travalica il set e portarlo su questo film è stato per me un onore. Paolo Pierobon non lo conoscevo ed è stato subito amore a prima vista: è un attore duttile con il quale un regista si può solo divertire a lavorare insieme. La vera sorpresa però è il piccolo Orlando Forte, un bambino di 7 anni di cui sentirete parlare.
Ha influito l’esperienza del Covid sullo stare prevalentemente nella casa?
In realtà ci sono moltissimi esterni. Il Covid ha portato solo vantaggi a questo film. Giravamo in una zona rossa quindi per strada non c'era nessuno che passava con la mascherina sul viso. È stato più facile gestire gli spazi esterni ed in più non c'era traffico e spostarci da una location all'altra era molto meno oneroso in termini di tempo.
Sembra di capire che oltre a proporre idee davvero moderne, non le dispiaccia fare un cinema anche ‘classico’, influenzato da certo cinema italiano e magari da Hitchcock.
La mia formazione è stata al Centro Sperimentale di Cinematografia e al Dams di Bologna: tante letture, tanti film. Sì, ho assorbito molto e mi ha influenzato. Con Daniele Ciprì poi ci siamo visti tanti film horror, volevamo capire quale fosse il modo migliore di raccontare l'inizio del film, questo per consentire allo spettatore di immergersi in un mondo che poi risulterà ribaltato, che capirà che è tutt’altro.
La relazione tra genitori e figli è centrale nel film.
I figli rispondono in modo avulso da qualsiasi stereotipo o condizionamento. La loro risposta è pura. I genitori non riescono o non vogliono affrontare i loro problemi. E qui il titolo calza perfettamente: I nostri fantasmi sono quelli che abbiamo dentro, che non sappiamo affrontare, di cui non ci liberiamo. In questo film gli adulti sono bambini e i bambini adulti. Carlo, per esempio, capisce da solo la verità. Il bambino che lo interpreta, Orlando Forte, ripeto, è un vero fenomeno.
E la bimba?
La bimba ha solo un anno e mezzo, non potevamo pretendere che facesse quello che volevamo. Perciò giravamo in base all’umore del momento. Va detto però che come spesso si fa in questi casi abbiamo preso due gemelle per girare un po’ più a lungo. I due bambini hanno familiarizzato: c'è una scena nel film in cui stanno sul divano e lui le dà un maccherone. Be’ non glielo avevamo chiesto, lo stava facendo spontaneamente.
EXCL. LE CINQUE STORIE
La morte addosso di Michele Placido: Come il personaggio in L'uomo dal fiore in bocca, pièce teatrale di Luigi Pirandello adattata dal suo racconto La morte addosso, Michele Placido esce di casa una mattina, per vedere cosa trova sulle strade di Roma durante il lockdown. Nel corso della sua passeggiata, filmata con il suo cellulare su un arco di diversi mesi, divaga a più riprese. Visita Firenze e Milano e osserva ciò che accade nel mondo dell'arte; in arti diverse dalla sua, la musica, l'opera, il ballo. Li trova a lottare per resistere, pesantemente colpiti dal virus. Come se l'arte fosse essenziale alla vita come l'aria che respiriamo.
Two Fathers di Julia von Heinz: Il giorno precedente all'inizio del lockdown, che ha paralizzato la Germania, muore inaspettatamente il padre ottantenne di Julia von Heinz. La regista poi scopre che era segretamente omosessuale e che aveva condotto una doppia vita. Viene sepolto il 29 maggio a Murnau in Baviera. Il padre elettivo di Julia ormai da molti anni è Rosa von Praunheim, eroe del cinema indipendente ed icona del movimento gay. Nella corrispondenza via mail con lui e tramite diversi altri contributi audiovisivi, Julia von Heinz si immerge a fondo nella vita del padre. Egli come Rosa è figlio della Seconda guerra mondiale, una circostanza che ha lasciato una forte impronta per tutta la loro vita. Un'esplorazione sullo sfondo dell’attualità quotidiana della crisi Covid, che sta mostrando alla nostra generazione cosa significhi vivere una crisi paragonabile alla guerra.
Liberty, Equality, Immunity di Olivier Guerpillon: "Come sono sopravvissuto alla strategia svedese è un saggio filmico basato sul montaggio di diversi materiali audiovisivi. Si inserisce nella tradizione di Mekas, Marker e Godard, con un tono umoristico e una buona dose di ironia. Attraverso telegiornali, estratti di social media, immagini dell'anno passato e ricorrenti citazioni cinematografiche dai film che mi hanno tenuto in vita durante la mia quarantena (volontaria), il cortometraggio espone come e perché la Svezia ha scelto un approccio difettoso alla pandemia, il che porta ad una riflessione sui fondamenti etici e morali di una società. Fin dove possiamo spingerci come gruppo per salvare i più fragili tra di noi? Possiamo fare e meno e sentirci comunque in pace con la coscienza? La riflessione è sovrapposta a quella sulla mia identità come cineasta francese in esilio, che sente una crescente alienazione in un paese adottivo, che ha imparato ad amare, mentre la popolazione attorno a me si lascia andare ad un più assurdo attacco di nazionalismo: la difesa ad ogni costo di una politica sanitaria nazionale fallita e del suo architetto, un incolore epidemiologo di dubbia competenza, inaspettatamente assurto al rango di icona nazionale".
Mourning in the Time of Corona Virus di Jaco van Dormael: "Viviamo in parallelo il dramma privato di Michèle Anne, la moglie di Jaco, il cui padre è morto di Coronavirus senza che lei potesse nemmeno vederlo un'ultima volta, e il dramma collettivo della pandemia entrato nelle case attraverso la televisione. "Melodramma", twitta il Ministro della Salute quando i dottori lanciano i primi allarmi. A marzo 2020, le case di cura vengono chiuse ai visitatori. Michèle Anne fa recapitare a suo padre un iPad, in modo che possano vedersi e parlarsi. Le case di riposo sono poco equipaggiate, il personale lavora senza mascherine e rischia la propria stessa salute. Il Ministro della Salute dichiara che "indossare la mascherina non ha senso da un punto di vista scientifico". Il padre di Michèle Anne risulta positivo al Covid-19. Viene isolato in una stanza con altri pazienti infetti. Un mese dopo, muore. Michèle Anne gli dà l'ultimo saluto tramite l'iPad. Il corpo viene sigillato in un doppio strato di plastica. Michèle Anne può solo vedere la bara in un parcheggio, prima che sia caricata su un furgone. I funerali sono sbrigativi. Sei maggio. Il Primo Ministro annuncia in tv il primo allentamento del lockdown. Fare kayak è consentito".
Isolation di Michael Winterbottom: "In tutta l’Europa, durante il lockdown, ci siamo ritrovati chiusi nelle nostre case, sperando di sopravvivere. Impossibilitati a lavorare, a vedere i nostri amici e le nostre famiglie. In un limbo che è durato per settimane. Per i richiedenti asilo, un limbo simile può durare anni. Come accaduto a noi durante l'epidemia, i rifugiati hanno dovuto rinunciare alla loro vita precedente. Possono tenersi in contatto con i loro parenti solo via telefono o Skype. Non possono lavorare. Attendono una chance di iniziare una nuova vita. La speranza è che quanto abbiamo vissuto con il Covid-19 ci spinga a dare più peso e valore ai concetti di comunità e solidarietà. Esserci ritrovati nei panni di coloro che hanno perso tutto a causa di una guerra, della fame, di una dittatura o della povertà, forse ci spingerà a concedere loro quella speranza che abbiamo cercato per noi. La speranza di una nuova vita".
LA PAROLA AL REGISTA
"Un aspetto del nostro cinema mi ha sempre un po' frustrato, come spettatore: il non riconoscermi molto nei personaggi che rappresenta. Raramente ci trovo raffigurato il mio habitat sociale coi suoi riferimenti culturali, i suoi tic linguistici. Non è che devo rispecchiarmi esattamente nei personaggi, sia chiaro: è che non assomigliano a nessuno che conosco. Mentre c'è uno sguardo, in certo cinema francese o nelle commedie mumblecore americane che ritrae la vita - con le sue storture, il suo mix di spiacevolezza e lampi di ironia feroce e dolcezza e goffaggine - in maniera più verosimile, non consolatoria, non approssimativa: specifica. E quella specificità toglie barriere alla sospensione dell'incredulità del pubblico e ha come conseguenza una forte presa empatica, almeno su di me" (Stefano Sardo).
--------------------------
6. Continua
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta