Sono ben tre i film in concorso che offre l’unica domenica della 78ma Mostra del Cinema di Venezia, due dei quali firmati da giovani registe con sensibilità tra loro agli antipodi. Fuori Concorso c’è modo di ricordare il genio di Ezio Bosso, prematuramente scomparso, mentre alle Giornate degli Autori arriva l’irruenza di Sabina Guzzanti.
Recensioni del giorno
Il buco di EightAndHalf // Il buco di Alan Smithee
Official Competition di EightAndHalf
Ultima notte a Soho di EightAndHalf
La ragazza ha volato di Alan Smithee
The Salamander di EightAndHalf // The Salamander di Alan Smithee
Land of Dreams di Alan Smithee
Il potere del cane di Port Cros
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CONCORSO
LA PAROLA AL REGISTA
"Il romanzo di Balzac rivela la matrice del mondo moderno, il momento in cui un’intera civiltà era sul punto di cedere alla legge del profitto. Volevo prolungare quel gesto grazie al cinema, prendendomi, rispetto al testo originale, delle libertà che mi permettessero di esprimerne lo spirito" (Xavier Giannoli).
LA PAROLA ALLA REGISTA
"Crescendo in America, ho sempre avuto la consapevolezza di essere un outsider. Venendo da un altro luogo e parlando una lingua diversa, è stato difficile ambientarmi. I film fantasy che amavo da bambina avevano la capacità di dare potere all’outsider: gli eroi che trovavo in quei film mi facevano uscire dall’ombra e alimentavano la mia ricerca di libertà personale. Nei miei film l’antagonista assoluto è il sistema, il modo in cui ci costringe ad assumere certi comportamenti, incidendo sulla visione che abbiamo gli uni degli altri e sul nostro senso di appartenenza a un luogo. Con Mona Lisa, volevo creare un nuovo tipo di eroe che affronta i problemi di una realtà moderna e distorta. Una favola-avventura per esplorare ciò che la libertà personale rappresenta all’interno di una società caotica, in cui è difficile sentirsi liberi" (Ana Lily Armipour).
EXCL. INTERVISTA ALLA REGISTA AUDREY DIWAN
Cosa l’ha spinta ad adattare il romanzo di Annie Ernaux?
Conosco da tempo il lavoro della scrittrice, la forza del suo pensiero e la purezza del suo stile. Sono però arrivata tardi al romanzo. Mi ha colpito la dicotomia tra l’aborto clandestino e la realtà concreta della procedura. I miei primi pensieri sono andati alla giovane protagonista, al suo corpo e a cosa deve aver sofferto nel momento in cui le hanno detto che era incinta. E al dilemma che ha dovuto affrontare: rischiare la vita e abortire o avere il bambino e sacrificare il suo futuro? Corpo o mente? Non avrei saputo scegliere. Tutte queste domande sono sollevate concretamente già nel libro. Io ho provato a tradurle in immagini mettendo in atto un processo carnale che mi ha permesso di rendere la narrazione un’esperienza fisica, un viaggio che spero vada oltre le considerazioni inerente al periodo della storia o al genere.
Ha discusso del suo approccio al romanzo con Annie Ernaux?
Sì, sin dall’inizio. Volevo sia rispettare il libro sia trovare una chiave di lettura personale, un sentiero sì stretto ma essenziale. Per prima cosa, abbiamo trascorso un giorno insieme durante il quale la scrittrice ha accettato di rivedere ogni dettaglio. Ha fatto chiarezza sui passaggi per me più oscuri del testo spiegandomi meglio il contesto politico in modo da capire quale paura attanagliasse le donne nel momento in cui prendevano una decisione così forte. Quando poi è arrivata nel punto in cui ha dovuto rivedere il suo aborto, ho notato che gli occhi le si sono riempiti di lacrime mentre ricordava ciò che la società le ha imposto quando era poco più che ragazzina. Ero sconvolta dall’intensità del suo dolore. Me lo sono ricordato spesso mentre scrivevo la sceneggiatura. Mi ha aiutato a trovare l’approccio più onesto possibile, un approccio che ha guidata anche durante tutto il making of come una linea guida da seguire. E, appena prima delle riprese, Annie Ernaux mi ha mandato una citazione di Cechov: Sii precisa, il resto verrà a tempo debito.
Perché adattare il romanzo oggi?
Sospetto che questa domanda mi verrà fatta spesso, cosa che devo dire mi stupisce. Dubito che si ponga tale domanda a chi realizza un film in costume che affronti una questione sociale o politica del passato. E quando uso la parola “passato” non prendo in considerazione tutti i Paesi in cui non esiste ancora una legge che regoli l’aborto. Happening – 12 settimane si sofferma su un periodo della nostra storia recente che raramente viene raffigurato. Ma, per come la vedo io, un film non può limitarsi al solo soggetto. Se fosse così, sarebbe meglio fare un documentario. Con il mio lavoro, volevo sondare i sentimenti e concentrami su una suspense intima che aumenta man mano che la storia va avanti. Con il passare dei giorni, l’orizzonte si restringe e il corpo diviene una prigione. L’aborto, però, non è l’unico argomento di cui si parla. Anne, la mia protagonista, è una che infrange le regole sociali. Viene dalla classe operaia ed è la prima della sua famiglia ad andare all’università. L’ambiente della facoltà è molto più borghese con un’etica molto più ristretta e severa. Anna va avanti e indietro da un mondo all’altro custodendo un segreto che potrebbe annientare ogni sua speranza. A vent’anni, sta già cercando il suo posto nel mondo. Cosa fare quando il futuro è continuamente messo in pericolo?
Ha scelto Anamaria Vartolomei come protagonista. È presente in ogni sequenza del film e molto spesso in primissimo piano.
Sin dai primi provini, Anamaria aveva il fisico giusto per il personaggio. E poi c’era in lei qualcosa di molto misterioso e potente: la sua pelle diafana e la sua visione interiorizzata del mondo, difficili da decifrare e accattivanti al tempo stesso. Riesce a comunicare molto con il minimo sforzo. Insieme abbiamo costruito il personaggio di Anne partendo dal corpo e dalla postura. Le continuavo a ripetere che Anne è un soldato che, con i piedi per terra e lo sguardo fisso davanti a sé, è pronta a conquistare il mondo. Sa cosa vuol dire sfidare le regole sociali e avere gli occhi puntati addosso.
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FUORI CONCORSO
EZIO BOSSO. LE COSE CHE RESTANO
EXCL. LA PAROLA AL REGISTA GIORGIO VERDELLI
"La scelta di raccontare l’incredibile vicenda professionale di un artista così originale e appassionato a solo un anno dalla sua scomparsa è motivata dalla volontà artistica di ritrovare nelle parole degli intervistati una presenza, non un ricordo. I testimoni della storia di Ezio Bosso, infatti, parlano liberamente, in maniera emotiva e mai didattica. Le loro interviste sono monologhi ripresi con rigore compositivo e movimenti di camera puliti, per accentuare il senso di intimità.
Il film è policentrico, costruito su un accumulo di suggestioni sonore e sul continuo duetto voce/musica, fra i pensieri di Bosso e le sue composizioni. Momenti intimi e di grande amicizia dialogano con gli eventi più importanti della sua carriera, come per esempio l’esibizione al 66º Festival di Sanremo o l’intervento alla Conferenza sul patrimonio culturale europeo. L’eccezionalità dell’artista risalta sia in pubblico che nei momenti quotidiani.
Per contestualizzare il mondo di Bosso, abbiamo realizzato gran parte delle interviste in luoghi che avevano un legame con la sua vita. Per esempio, la Cantina Bentivoglio di Bologna, il Palazzo Barolo di Torino, L’Hotel Locarno di Roma, il pub e il ristorante che frequentava a Londra, il Teatro Comunale di Bologna, il Regio di Torino, piazza Statuto a Torino, l’Arena di Verona, l’Auditorium Santa Cecilia di Roma.
L’immaginario contamina il quotidiano con l’aulico, alla maniera tipica di Bosso: un ragazzo di famiglia operaia diventato polistrumentista, capace di passare dalla direzione dei Carmina Burana all’arrangiamento di un brano rap come Cappotto di Legno insieme a Lucariello. Parafrasando Bosso, noi la musica classica ce la immaginiamo in smoking, ma non era così. Ecco, il film si pone l’obiettivo di raccontare con la stessa leggerezza momenti forti, che illustrano l’autoironica ed estenuante lotta di Bosso con la malattia.
Come inesauribile ed estenuante è stata la sua lotta con la musica, con quegli strumenti che a ogni performance si prefiggeva di dominare grazie alla sua immensa tempra fisica e alla sua tecnica straordinaria.
Nel tentativo di realizzare un ritratto il più possibile completo dell’artista che trascende l’uomo, senza dimenticare le sue origini e, appunto, la sua umanità, abbiamo scavato tra i racconti di famiglia, tra le foto, gli hard disk e l’immenso catalogo delle edizioni musicali delle sue opere, svelando anche una composizione inedita realizzata ma mai pubblicata. Di tutto questo, molto ci sarà nel film e molto non ci sarà, ma speriamo che quello che arriverà al pubblico sia autentico, come autentico e unico è stato Ezio Bosso".
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ORIZZONTI
EXCL. LA PAROLA ALLA REGISTA MOUNIA AKL
"Crescendo in Libano, ero circondata da caos e poesia. Il paese era sempre sull’orlo dell’apocalisse spingendoci a vivere appieno ogni momento e a non dormire mai tranquillamente. Ciò riguardava sia i confini della mia casa e della mia famiglia sia quelli più ampi dell'intera nazione. Ero spesso circondata da persone con stati d'animo estremi e ho sviluppato una certa fascinazione nei confronti dei difetti umani e della verità che emerge nei momenti di tragedia personale. Ho iniziato a osservare gli strumenti di cui ci armiamo per combattere i traumi, spesso affrontati ricorrendo all'impulso o alla negazione.
Questa dicotomia è il Libano stesso ed è ciò che io sono diventata: ha portato la società a un livello di assurdità in cui tutti sterilizzano la propria casa per sentirsi protetti. Ma ci ha anche dotati di immaginazione sconfinata, di humor e di un’esperienza viscerale della vita. Oggi però, non è più possibile ricorrere nemmeno a questa fuga: la distopia ha fatto breccia nei nostri cuori. Guardo la struttura familiare sperando che in essa si rispecchi quella della nostra società. L'ideale della famiglia Badri di rimanere puri disdegnando la società è pura fantasia. Quando una famiglia è spaccata, può reinventare se stessa con meno bugie e con più amore".
LA PAROLA AL REGISTA
"La Paz è la capitale meno occidentale d’America. Situata a oltre 3600 metri d’altitudine, la città si distende come un mare di mattoni, pietre e calcestruzzo nei canyon che precedono l’altipiano. Volevo girare un film su La Paz con personaggi che potessero fornire un particolare punto di vista sulla città. Ho trovato questi personaggi in Elder, un giovane minatore, e in Max, un senzatetto, le cui insolite posizioni nella società mi hanno dato la possibilità di osservare la città nel suo insieme e di vederne i sistemi, le architetture e i cambiamenti. Ispirandomi liberamente alle loro vite, ho creato questa storia di malattia e cura che ci porta nel cuore del tessuto sociale della città, rivelando le vite degli invisibili" (Kiro Russo).
LA PAROLA AL REGISTA
"Il 2020 è stato un anno indimenticabile per tutto il mondo. La minaccia della pandemia di Covid-19 ci ha costretto a indossare mascherine, e per questo motivo molti hanno cambiato modo di vivere, addirittura perso i loro cari. Le misure di distanziamento sociale, inoltre, inducono a perdere la fiducia negli altri. Il film intende soffermarsi proprio sul senso di fiducia" (Mong-Hong Chung).
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SETTIMANA DELLA CRITICA
EXCL. LA PAROLA AL REGISTA MATTEO TORTONE
"In una miniera in Tanzania ho provato per la prima volta il fascino del potere metafisico dell’oro, non soltanto come icona ancestrale di desiderio e potere, ma come chiave per il mondo globale in cui viviamo. Durante le mie ricerche, l’estrazione informale dell’oro in Perù è diventata lo scenario perfetto. Nel 2015, per capire meglio il contesto, ma anche per riuscire a girare in quei luoghi estremi, ho iniziato a costruire una rete di abitanti del posto ed esperti. Con il personaggio principale, minatore occasionale dall’età di tredici anni, sono riuscito a entrare in questo mondo e insieme abbiamo sviluppato una favola moderna, al confine tra realtà e finzione. Un viaggio allo stesso tempo contemporaneo e antico, dove i sogni si fondono con il mondo fisico: lo stesso viaggio di uomini e donne che attraverso i secoli hanno contribuito alla nostra ricchezza, morendo nell’anonimato".
DAL CATALOGO DELLA SIC: "Mother Lode riesce a essere vero fingendo e lascia soprattutto trasparire il lavoro d’immersione di Tortone in un luogo “altro”, la fiducia creata col tempo, con la condivisione. In sostanza, il punto di partenza per un documentarista e il punto d’arrivo, non facile da raggiungere, per un regista e la sua opera. Spazio e tempo servono a Tortone per architettare la sua metafora, per scolpire tra le Ande peruviane quel tragitto
reiterato intriso di speranza e sacrificio. Lampante, in questo senso, la dilatazione e manipolazione temporale, col pedinamento della macchina da presa accompagnato spesso da una voce narrante carica di pathos e lo scarto immaginifico della processione finale. Altrettanto lampante la lenta e progressiva compressione dello spazio scenico e delle conseguenti prospettive narrative, fino all’ultima entrata nella miniera, alle immagini claustrofobiche che si contrappongono alle mille luci e al panorama cittadino dell’incipit" (Enrico Azzano, Cuento sobre nadie, pag. 45).
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GIORNATE DEGLI AUTORI
LA PAROLA ALLA REGISTA
"Per me Anatomia è soprattutto una meditazione sullo spazio ambiguo tra le cose e le persone, tra l'essere e il non essere. È una storia di possibili vite alternative, di spettri e di sentimenti invisibili che non sanno come rivelarsi e che, tuttavia, ti schiacciano. È il racconto di amori, perdite e incertezze. Riflettendo sul tempo, la memoria e le origini della nostra identità, il film segue un personaggio posto di fronte a una delle domande contemporanee più urgenti, politicamente ed esistenzialmente più forti: cosa fa di me, me stessa?" (Ola Jankowska).
SPIN TIME. CHE FATICA LA DEMOCRAZIA!
EXCL. LA PAROLA ALLA REGISTA SABINA GUZZANTI
"La decisione di fare questo film viene da un’ispirazione quasi comica per quanto è stata improvvisa e intensa, subito dopo aver conosciuto il lavoro teatrale di una regista greca, Christina Zoniuo, docente di teatro sociale all’Università del Peloponneso E subito dopo il clamoroso gesto di disobbedienza civile dell’Elemosiniere del Papa, il Cardinale Conrad che nel 2019 riattaccò la corrente a un palazzo occupato da 180 famiglie di indigenti.
Questo film non vuole suscitare il senso di colpa nello spettatore. Non vuole denunciare né svelare verità nascoste. Se c’è una verità che si può trovare, somiglia a quella sensazione di tiepidezza, che chiamiamo simpatia umana.
I bambini che aprono e chiudono il racconto non sono lì per impietosirci, ma per proteggerci dai giudizi meschini.
Uno slogan per pubblicizzare Spin Time potrebbe essere “i poveri come non li avete mai visti”. La voce narrante, molto personale, porta lo spettatore a fare un’esperienza simile a quella dell’autrice, che nel realizzarlo ha visto dissolversi molti dei suoi pregiudizi.
I 450 occupanti di Santa Croce, che all’inizio percepiamo come una massa infelice e aliena, diventano sempre più simili a noi. Una realtà parallela che ci ricorda il nostro condominio o il parlamento.
Il mondo degli invisibili, quelli colpiti dalla sventura che scansiamo come se potesse essere contagiosa, qui non si presentano come vittime, ma nel tentativo encomiabile per quanto spesso fallimentare, di vivere in modo dignitoso, riconoscendosi come soggetto politico e capace di esprimere una propria cultura.
E il tema principale del film riguarda proprio la funzione della cultura in una democrazia.
È stato il palazzo stesso a suggerire molte riflessioni, con la sua insolita struttura a doppia pianta trapezoidale, con le sue geometrie e prospettive suggestive.
Nato come sede dell’Ipdap, istituto previdenziale poi dismesso, privatizzato con le cartolarizzazioni, oggi ospita dei senzatetto come perseguisse una vocazione alla solidarietà.
In uno degli ingressi campeggia un enorme quanto opprimente bassorilievo in bronzo finanziato con la legge dei tempi del fascio, detta del 2%. Sono rimasta a lungo ad osservarlo perplessa, domandami cosa voleva rappresentare l’artista, finché il Bassorilievo non ha cominciato a parlare davanti alla telecamera. Allora ho preso il canovaccio della sceneggiatura che avevo preparato, e l’ho buttato nel secchio".
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5. Continua
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