Quarto giorno di proiezioni per la 78ma Mostra del Cinema di Venezia. A tenere banco in concorso sarà ancora una volta Penelope Cruz, in compagnia del suo storico compagno di set: Antonio Banderas. Fuori concorso, invece, l’attesa è alta per la nuova fatica di Edgar Wright, con il suo omaggio a Soho in chiave thriller psicologico.
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CONCORSO
EXCL. LA PAROLA AI REGISTI
Mariano Cohn: "Da un po’ di tempo volevamo fare un film con Penélope Cruz e Antonio Banderas. A loro piacciano i nostri film ed entrambi gli attori erano interessati a lavorare insieme. Alla fine, ci siamo incontrati a Londra per scambiarci delle idee e abbiamo condiviso con loro il seme di ciò che sarebbe diventato l’asse portante di Official Competition. Ci serviva un terzo protagonista e abbiamo chiamato Oscar Martínez, che aveva già partecipato a un nostro film, Il cittadino illustre, e il cui lavoro piaceva molto a Penélope e Antonio. Mediapro Studio, che ha prodotto i nostri ultimi due film e con cui abbiamo grande affinità artistica e professionale, ha dimostrato da subito grande impegno nella realizzazione di Official Compeition. L'obiettivo era quello di mostrare, attraverso la finzione, come gli attori costruiscono le emozioni. Il pubblico vedrà i meccanismi, le tecniche, le tattiche e le procedure in gioco".
Gastón Duprat: "Ci sono molti esempi cinematografici che mostrano come si fa un film, i problemi di produzione e le difficoltà che comporta la realizzazione di un progetto. Ma la cosa più unica in un film è quello che gli attori riescono a suscitare: farci piangere, farci ridere, generare emozioni. Il film indaga questa relazione complessa e straordinaria, solitamente nascosta alla vista del grande pubblico. Antonio e Oscar sono stati sedotti dalla possibilità di fare un film in cui poter parlare del mestiere e riflettere seriamente sulle questioni che riguardano la professione da una prospettiva privilegiata. Official Competition ruota intorno alle prove che si tengono prima di cominciare le riprese di un film. Ogni prova ha una propria autonomia ed è autoconclusiva, rivelandosi come una sorta di affascinante masterclass su come questi tre talenti della recitazione suscitino emozione nel pubblico. L’opera rivela come questi tre talenti della recitazione riescano a emozionare gli spettatori, trattando allo stesso tempo temi quali il processo di creazione artistica, la competenza professionale, l’ego e il bisogno di prestigio e riconoscimento".
"Penélope Cruz è Lola. Premiata ai festival più prestigiosi del mondo e con un'impressionante carriera cinematografica alle spalle, Lola è un'artista radicale, capace di spingere al limite le sue ossessioni e i suoi desideri.
Antonio Banderas è invece Felix. Attore dall'enorme carisma e popolare a livello internazionale, ha recitato in oltre quaranta film. Con moltissima esperienza davanti alla telecamera, conosce i meccanismi e le scorciatoie per manipolare le emozioni del grande pubblico di tutto il mondo.
Oscar Martinez è infine Ivan. Prestigioso insegnante di recitazione e attore lui stesso, è anche uno scaltro intellettuale che detesta il concerto di arte come spettacolo. Chiuso nel suo nichilismo, accetta di tornare a lavorare al cinema agli ordini di Lola, che metterà alla prova le sue sue idee e i suoi pregiudizi sull'arte e sul cinema".
EXCL. INTERVISTA AL REGISTA MICHEL FRANCO
Quali sono le origini del film e cosa lo ha spinto a raccontare questa storia in particolare?
È un mix di pochi elementi. Ho scritto il film nel bel mezzo di una profonda crisi personale. Mi stavo chiedendo a che punto sono nella mia vita e per la prima volta ho cominciato a pensare che la vita non è infinita e che tutto quanto ha una fine. Mi è successo dopo un viaggio che ho fatto ad Acapulco, con la mia fidanzata: mentre uscivamo dall'hotel alle 8 di sera per una cena, sono stato fermato a un posto di blocco da alcuni poliziotti federali con modi di fare fin troppo aggressivi. Si chiedevano se la mia ragazza fosse in pericolo, se fosse con me contro la sua volontà. Volevano che uscissi dal veicolo. Sapevo che era l'ultima cosa che avrei dovuto fare. La mia fidanzata non ha capito cosa stesse succedendo, mi diceva di fare come chiedevano. Sono uscito dalla situazione andando via ma ci hanno seguito e minacciato. Fortunatamente, siamo riusciti a tornare sani e salvi in albergo. Tutto ciò mi ha rattristato: Acapulco è uno dei miei posti preferiti.
Perché le piace Acapulco come posto?
È uno dei luoghi in Messico che conosco meglio per averci viaggiato da giovane. A volte mi ci fermerei anche per un mese durante i festeggiamenti per il Capodanno. Mi spezza il cuore vedere quanto è cambiato. Spesso, Acapulco è considerata una delle città più pericolose al mondo. A volte è vero, soprattutto per i turisti. Altre volte, no. Ma è oramai in caduta libera: non è più il paradiso che era e non parlo di certo dell'Acapulco di Sinatra e di Elvis Presley. Il decadimento simboleggia più di quello che in larga scala interessa l'intero Messico. C'è molta tensione ad Acapulco in questo momento, anche se la città si è dimostrata amichevole durante le riprese del film.
Torna a dirigere Tim Roth, con cui ha già lavorato in Chronic. Era perfetto per il personaggio di Neil o ha scritto il ruolo appositamente per lui?
L'ho scritto per lui. Sapevo di voler ambientare il film ad Acapulco e del resto non avrebbe potuto svolgersi da nessun'altra parte. E sapevo che sarebbe stato perfetto per Tim. Di conseguenza, ho scritto la sceneggiatura partendo da questi due presupposti. Sono passati nove anni da quando ci siamo incontrati per la prima volta e abbiamo affrontato insieme determinate cose, a cominciare dalle riprese di Chronic e 600 Miglia. Le nostre sensibilità sono molto simili e ho pensato a come avrebbe reagito di fronte alla storia che gli avrei proposto. Ho scritto la sceneggiatura in poche settimane: l'esatto contrario di quello che è accaduto con quella di Nuevo orden, che mi ha richiesto anni. Non appena finita, ancora non sicuro di quello che avevo scritto, l'ho mandata a Tim. Ha capito subito di cosa trattasse. Non ha voluto che si cambiasse nulla e abbiamo finito con il girarla così com'era.
Perché ha voluto lavorare con Charlotte Gainsbourg?
Volevo lavorare con lei da sempre. Ho adorato il lavoro che ha fatto per Antichrist, la sua intensità. Il suo ruolo in Sundown era in un primo momento molto più piccolo di quello che è: quando il mio responsabile del casting ha fatto il suo nome, ho mostrato i miei dubbi nel contattarla per un ruolo di non protagonista. L'abbiamo però cercata e ha detto subito di sì. Sul set, le ho dato tutta la libertà possibile, ha aggiunto molto al ruolo e ha portato molto di se stessa al personaggio.
Può descrivere la sola dinamica familiare presente nel film? Sembra affascinato da un certo tipo di famiglia: benestante, insulare, quasi oligarchica...
In definitiva, sono famiglie a cui tutti gli strumenti che hanno a disposizione - soldi, istruzione e privilegi - non portano nulla, anzi. Continuano a fare gli errori più elementari e non sono in grado di comunicare. Per me, è affascinante vedere quanto si possa danneggiare qualcuno che si ama. Queste sono persone che dovrebbero essere capaci di trasmettere idee e sentimenti ma continuano a incasinare tutto.
Sebbene parli di una sola famiglia, il film affronta questioni più ampie, come la disuguaglianza economica, l'interruzione delle comunicazioni e la violenza in varie forme.
La famiglia è molto particolare. Spero che le persone possano relazionarsi con essa e trovino dei temi universali. I protagonisti vivono in un universo proprio che è frutto del modo in cui si relazionano gli uni con gli altri.
C'è una sorta di linea di confine tra Nuevo orden, il suo film precedente, e Sundown, per quanto concerne la violenza e il modo in cui viene inflitta a certe persone.
Conviviamo con la violenza in Messico. Non possa far finta nelle mie storie che non esista. Penso che sia folle normalizzare la violenza e accettarla: il minimo che posso fare è discuterne attraverso il mio lavoro e cercare di capire come una società possa andare avanti accettandola. Ogni persona che conosco in Messico è stata tenuta sotto tiro e spesso dai poliziotti, circostanza che reputo più spaventosa di quando a violentarci sono i criminali: dei criminali, sappiamo cosa vogliono e glielo diamo. Il crimine e la violenza fanno parte della vita in Messico: o vai via o cerchi di capire. Da narratore, devo esplorare tale realtà.
Nuevo orden era un film con centinaia di comparse e scene di grandi folle. Sundown è più contenuto: è stato più facile dirigere una storia più intima come questa?
Più che facile, è stato intrigante perché riguarda il mondo interiore del personaggio di Tim e della sua famiglia che cerca di capirlo. Detto questo, in ogni inquadratura sulla spiaggia di Acapulco ci sono centinaia di persone, non potevo precluderla: avrei ucciso la spontaneità che ne deriva. Ho semmai posizionato le mie comparse vicino alla telecamera ma senza chiudere gli spazi. I venditori che si vedono sono veri, così come i turisti in vacanza. Ho spiegato alla troupe che dovevamo essere discreti e anche Tim e Charlotte si sono adattati.
Cercava uno scontro tra mondi diversi nella storia?
Volevo mostrare ogni lato di Acapulco. Il personaggio di Tim si sposta dall'hotel di lusso fino all'altro lato della città. Quando giro, non penso ai ricchi o ai poveri: Acapulco è piena di colori, musica e cibo. Voglio che gli spettatori si sentano come se fossero lì.
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FUORI CONCORSO
EXCL. LA PAROLA AL REGISTA EDGAR WRIGHT
“Amo Londra e amo gli anni Sessanta. Ma con la città ho un rapporto di amore e odio. Può essere brutale e bella in egual misura. Ed è anche in continua evoluzione, con i processi di gentrificazione e le nuove architetture che ne stanno cambiando letteralmente il paesaggio. Con tutto questo in mente, è facile idealizzare i decenni precedenti, soprattutto quelli che non si sono vissuti in prima persone. Forse, chiunque sarebbe perdonato se pensasse che sarebbe stupendo vivere nei scintillanti anni Sessanta. Un dubbio però è lecito: lo sarebbe realmente, soprattutto da un punto di vista femminile? Quando si parla con qualcuno che ha vissuto quel periodo, finisce spesso per raccontare storie di tempi selvaggi ma c'è sempre qualcosa che lascia trasparire aspetti che non rivelerà mai. A volte, ci si chiede se qualcuno dirà mai che è stato anche un periodo difficile. Lo scopo di Ultima notte a Soho è chiedersi cosa c'è dietro la bella facciata e quanto velocemente quel lato si rivela.
Tra uscite con gli amici e lavoro, negli ultimi anni ho passato più tempo a Soho che a casa. La zona, al centro di Londra, è di appena mezzo miglio quadrato ma è piena di bar, discoteche, teatri e cinema, e negli ultimi tempi è il fulcro dell'industria cinematografica inglese. Chi fa le ore piccole non può però non aver notato come a tarda notte il quartiere ospiti attività un po' più squallide. Da due secoli, Soho è il centro del peccato: spogliarelliste, prostitute e strani personaggi sono sempre in agguato negli angoli più bui. Il quartiere ha una doppia faccia che lascia convivere la sfavillante industria cinematografica e il vizio più estremo. Questa doppia identità ha ispirato il mio film, la storia di un'idealista che insegue i suoi sogni ma trova qualcosa di molto più pericoloso e oscuro ad attenderla. Ho voluto che questa fosse una giovane che arriva nella capitale per la prima volta e che, per differenziarmi da molte storie del passato spesso sensazionalistiche e moraliste, si relaziona con lo sfruttamento e il vizio dell'epoca.
Volevo realizzare una sorta di thriller anni Sessanta, un giallo pieno di elementi horror e con lo stile di quel tempo. Ma volevo anche che tutto fosse visto attraverso la prospettiva di oggi. Non volevo rendere glamour il passato o stendere un velo sulla realtà grottesca degli squallidi e sessisti anni Sessanta. Inserendo una protagonista di oggi nella storia degli anni Sessanta, mi ha permesso di evitare la trappola della nostalgia. In Eloise, convivono il fascino per un decennio culturale straordinario e la paura per ciò che accade dietro la superficie delle cose".
LA PAROLA AL REGISTA LEONARDO DI COSTANZO
"Il carcere di Mortana nella realtà non esiste: è un luogo immaginario, costruito dopo aver visitato molte carceri. Quasi ovunque abbiamo trovato grande disponibilità a parlare, a raccontarsi; è capitato che gli incontri coinvolgessero insieme agenti, direzione e qualche detenuto. Allora era facile che si creasse uno strano clima di convivialità, facevano quasi a gara nel raccontare storie. Si rideva anche. Poi, quando il convivio finiva, tutti rientravano nei loro ruoli e gli uomini in divisa, chiavi in mano, riaccompagnavano nelle celle gli altri, i detenuti. Di fronte a questo drastico ritorno alla realtà, noi esterni avvertivamo spaesamento. E proprio questo senso di spaesamento ha guidato la realizzazione del film: Ariaferma non racconta le condizioni delle carceri italiane. È forse un film sull’assurdità del carcere".
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ORIZZONTI
"Miracol si rivela attraverso due facce opposte ma complementari della stessa lente: una visione del mondo realistica, contrapposta a una visione basata sulla fede. La storia funziona bene sia se la si interpreta dal punto di vista pragmatico degli spettatori atei, sia se la si percepisce da una prospettiva religiosa, soprannaturale e immateriale. Il film non risponde a delle domande, ma offre semplicemente un punto di partenza verso un punto d’arrivo misterioso, valido, unico e irripetibile nell’anima di ciascuno spettatore. La pellicola mette in risalto il dualismo di questa equazione: l’approccio perfettamente realistico di una storia che, d’altro canto, si può interpretare integralmente in chiave spirituale – ma solo se lo si desidera". (Bogdan George Apetri).
LA PAROLA ALLA REGISTA LAURA BISPURI
"Ci sono film che insegui per anni e altri che all’improvviso entrano nella tua vita e ti sorprendono. Il paradiso del pavone è un piccolo viaggio nell’intimità e nell’autenticità degli esseri umani: un film su una famiglia allargata in cui tutti si parlano ma nessuno si ascolta davvero. Finché un evento inaspettato costringe i protagonisti a guardarsi negli occhi e a svelarsi per ciò che sono. Ed è come se la loro vita diventasse improvvisamente la nostra, in uno specchio di sentimenti che ci fa riflettere sulla complessità dei rapporti umani, sul mistero della perdita, sulle mille voci che ci parlano da dentro, sull’importanza del silenzio, sulla nostra costante ricerca dell’amore".
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BIENNALE CINEMA
"Quando ho pensato per la prima volta al film, ho visto l’immagine di una casa in campagna, un riparo sicuro in cui rifugiarsi. In quel luogo incantevole Giulio e Lia giocano con il loro corpo, esplorando i fragili confini che esistono tra amore, morte e violenza, cercando di orientarsi nell’ignoto. Ognuno dà all’altro ciò che può dare. Questo incontro li spinge ad affrontare le proprie paure e a farli crescere. Il dolore è la forza misteriosa che li unisce. La Tana non è un luogo concreto e reale, ma quello spazio dove andiamo a nasconderci quando non stiamo bene. E dove speriamo che qualcuno ci venga a cercare". (Beatrice Baldacci).
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SETTIMANA DELLA CRITICA
EXCL. LA PAROLA AL REGISTA GABOR FABRICIUS
"Racconto in prima persona. Ritratto. I frammenti della realtà di Frank sono costruiti sulle sue percezioni, senza filtri. Pensieri
visivi dalla sua cognizione: noi siamo lui. Il “gioco” di percezione è il motore visivo dell’esperienza cinematografica immersiva, per un impatto estremo. Un’enigmatica paranoia visiva, dove lo spettatore vive la vicenda anziché guardare la sua rappresentazione. Gli strumenti utilizzati sono nascosti nei campi lunghi: l’odore di un impero al collasso, l’inquietante architettura “brutalista”, un mondo kafkiano: il labirinto senza fine, gli angoli taglienti, l’estetica disumanizzata scatenano una misteriosa paura. In questo stato
mentale alterato anche le decisioni sono falsate, veniamo elevati alla “distopia”. Un tentativo di ridefinire il cinema diretto, il dramma sociale, un approccio documentaristico che crea una realtà orwelliana brutale e disumana".
DAL CATALOGO DELLA SIC: "In Erasing Frank si avverte l’influenza di László Nemes e Béla Tarr, che però Fabricius reinventa attraverso lo sguardo punk del suo protagonista, e anche quella anarchica di Miloš Forman. C’è una violenza reiterata colta con la coda dell’occhio, ai margini di un percorso ostinato e solitario, e c’è la lotta donchisciottesca di una mente libera contro il consenso passivo di chi convive con uno stato di oppressione.
Frank è a disagio tanto con i circoli intellettuali che fanno resistenza da salotto quanto con i militari che cercano di silenziarlo con la forza, ma il suo arcinemico è un vecchio militante che da piromane è diventato pompiere e che lo invita a “non sprecare il suo talento”, cercando di convogliarlo verso la musica accettata dallo Stato, ovvero quella che “non infiamma gli animi dei giovani” (Paola Casella, Geografie dell'oppressione, pag. 28).
GIORNATE DEGLI AUTORI
EXCL. LA PAROLA AL REGISTA JUANJO GIMENEZ
"Quando immaginavamo la disfunzione che il destino segna sul personaggio principale, non volevamo di certo replicare fatti reali. C'era il desiderio primario di giocare con gli strumenti di base del cinema e una certa intenzione di sperimentale formalmente con i parametri della narrazione classica.
Quasi per caso, però, abbiamo scoperto che la sindrome di cui soffriva la nostra sound designer esiste realmente. Durante le fasi di documentazione per il film, ci siamo imbattuti nella storia di "PH", un pilota commerciale sudcoreano che sente fuori sincrono. Abbiamo scoperto che i pazienti che soffrono di questo disturbo finiscono per abituarsi alla cosa e imparare a convincerci. Sappiamo molto del mondo dei sordi o dei daltonici, cercavamo quindi universi simili di cui volevamo parlare. Durante la fase di scrittura, abbiamo anche cercato di vivere gli stessi disturbi che avrebbe dovuto vivere durante la sua odissea la protagonista. Facendo uno sforzo immane, pensavamo di averla capita ma la sua personalità aveva degli assi nella manica che nemmeno noi conoscevamo ancora. Da un lato, erano dovuti alla asincronia stessa, che ha finito per decidere il tono stesso del film. Dall'altro lato, erano dovuti alla spinta che l'attrice Marta Nieto ha dato al personaggio, portandoci molto più lontano di quanto immaginasse la sceneggiatura.
Sin dall'inizio, volevamo realizzare un film di genere a suo modo unico. Abbiamo avuto come referenti titoli che ha segnato la mia infanzia, come Carrie o La zona morta, o i fumetti della Marvel, fino ad arrivare a film molto più recenti come Thelma o Border. A un certo punto, abbiamo fatto riferimento persino a Cantando sotto la pioggia. Da questo mix di stimoli, si è fatto strada Out of Sync.
Come faccio di solito, abbiamo applicato alcune regole ancora prima di iniziare a scrivere. Insieme a Javi Arrontes, il nostro direttore della fotografia, abbiamo progettato due codici di base per la messa in scena, uno per le sequenze sincrone e un altro per quelle asincrone. [...] Avevamo anche delle regole per la narrazione. Lei vive in una sorta di podcast permanente. All'inizio è solo emotivo, poi è anche sensoriale. Non ci sono dialoghi in cui i personaggi parlano faccia a faccia di "ciò che conta", "ciò che è importante". Tutto l'essenziale è nascosto o rinviato. Ci sono anche delle regole che riguardano la post-produzione: niente musica, tranne quando proviene specificamente dall'azione stessa del film. Usare musica sincronica non diegetica, implicava tradire assolutamente lo spirito di questo progetto. E nessun effetto visivo evidente, il soprannaturale doveva provenire totalmente dall'universo sonoro.
La sceneggiatura descriveva un personaggio che soffre di asincronia sensoriale, cadendo in uno stato di squilibrio totale. E anche qualcuno che cerca il proprio posto nel mondo in maniera inaspettata. Abbiamo allora inventato le regole di una condizione originariamente soprannaturale: la latenza".
EXCL. LA PAROLA AL REGISTA DANIELE DE MICHELE
"Questo film ha una debolezza che è la sua forza. Non era possibile scriverlo in anticipo. Si scriveva mentre le cose accadevano al mondo e alla gente. Ho seguito i protagonisti per un anno e mezzo, per capire come sarebbe cambiato il mondo e come, di conseguenza, le loro vite.
Quando chiusero tutto la prima volta avevo la netta percezione che per gli artisti e i lavoratori dello spettacolo nulla sarebbe stato più lo stesso. Lo stavo vivendo sulla mia pelle, seduto sul divano, dopo venti anni passati a fare spettacoli in giro per il mondo. Lo sentivo sulla pelle delle centinaia di artisti con cui ho condiviso palchi e progetti. Avevo paura, per me e per loro…
All’inizio tutto era molto confuso, perché gli artisti non erano i soli a dover affrontare un periodo così duro. Cuochi, camerieri, guide turistiche, portieri d’albergo, precari, ambulanti: c’era tutto un mondo. C’era poi la consapevolezza che questa pandemia avesse delle cause legate profondamente al modo in cui vivevamo, e che non ci sarebbe stata se avessimo dato retta ai miei Villani, ai contadini resistenti che avevo studiato per anni andando in giro nelle zone più recondite d’Italia.
L’ambiente era fragilissimo e lo stavamo distruggendo.
Come tutti, ero chiuso in casa e avevo poco da fare, con una cinepresa appena comprata e lasciata nello scatolone e tante preoccupazioni. Avevo passato l’ultimo ventennio a friggere in ogni parte di mondo, fare pasta a mano, mangiare in casa delle nonnine, con la musica come sfondo. C’era un silenzio cui non ero abituato e la cosa mi turbava.
Fu così che iniziai a chiamare compulsivamente via zoom persone a me care, per sapere come stessero affrontando questo momento sconvolgente, e a fare decine di interviste via zoom: a sociologi, ambientalisti, medici, insegnanti, artisti. Mi ero concentrato su una lettera di una giornalista che raccontava Bergamo, il ventre della Bestia, in quei giorni. Si poneva lei questioni profonde sulle cause e le conseguenze di ciò che le stava succedendo, da malata chiusa in casa. Poi telefonai per giorni a una staffetta partigiana, per capire quale fosse il rapporto tra questa storia e la guerra, tra quel loro modo unico di difendere il paese dalla follia nazifascista e il modo che avremmo dovuto inventare noi, per rinascere. Ho decine di ore di un archivio che ho chiamato Anticorpi, in cui provavo a vedere delle luci in fondo al tunnel. Chiamai Gino Strada, Nadia Urbinati, Marco Revelli, Domenico De Masi per fargli prevedere il futuro. Ma niente, erano ovviamente presi alla sprovvista anche loro, con un misto di speranza e catastrofismo.
Chiamavo i miei amici contadini, come Modesto, protagonista di I Villani. A lui il mondo non era cambiato per niente. Faceva i suoi chilometri con le sue vacche, tra i suoi monti. Mi aveva avvertito anni prima. Guarda che andrete a sbattere. Così al telefono mi parlò dell’Arca di Noè che voleva costruire.
Soprattutto, chiamavo i miei compari artisti: musicisti, registi, maestranze, attori. Per molto tempo ho interrogato Daniele Sepe, musicista e compositore napoletano, per provare a trovare una sintesi. Vedevo nei suoi pensieri un baratro che altrove nessuno aveva il coraggio di guardare fino in fondo. La nostra inoccupazione era diversa dalle altre. Non era semplicemente un fatto economico. L’artista non rientra in nessuna categoria economica chiara, quindi niente cassa integrazione, niente ristori, niente disoccupazione. Nulla. Ma era il ruolo che la società ci dava che sembrava smarrito. Come se non esistessimo, come se non fossimo mai esistiti.
Avevo però a quel punto un gigantesco archivio di persone che avevano d’istinto pensato che non potevano soffermarsi sul loro semplice benessere personale, ma che avevano preso da spunto la loro personale condizione di fragilità, per porsi una questione più larga su come stesse andando il mondo, l’ambiente, il lavoro, la salute. Mi accorgevo che c’era qualcosa di forte da raccontare, da seguire, per capire in che direzione il mondo volesse andare.
Nel frattempo, filmavo da casa, come migliaia di altri registi. Non avevo granché da fare se non filmare la gente appollaiata sul terrazzo, filmavo le partite con mio figlio e la mia cucina. Ma avevo poche carte in mano: decine di chiamate su zoom e un po’ di immagini rubate qua e là. Servivano delle coperture che avessero un senso. Che fossero un controcampo ricco e coerente con ciò che gli intervistati dicevano. Come fare? Si parlava di tutto: di fabbriche, di sfruttati, di mascherine, di anziani, di morte. E io dal terrazzo vedevo ben poco.
Una delle persone che intervistai più spesso in quel periodo era Giulia Bonaldi, scenografa e pittrice. Era a Castiglione d’Adda, nella prima, originaria, zona rossa. Com’era successo a me, tutti i lavori che avrebbe dovuto fare le furono cancellati. Ci mettemmo a immaginare come raccontare per immagini questa storia. Nacque la storia a fumetti di Gina, mamma single, operaia, costretta a lavorare in piena pandemia. Pensavamo a cosa le sarebbe successo dopo, a che scelte avrebbe fatto. La seguivamo, come una protagonista, nel suo scoramento, nella sua necessità di lasciare il pupo a qualcuno mentre lei andava in fabbrica, nei suoi sogni d’amore, nella sua paura e frustrazione di lavoratrice senza protezioni sanitarie sufficienti. Decidemmo di farla partire, con il figlio, per sempre. Che avrebbe portato il figlio a vedere le cose belle dell’Italia. La vedemmo partire con il treno verso Sud, passeggiare tra i campi, andare al mare a giocare a palla, guardare il Vesuvio.
Sognare non costa nulla, ci dicemmo, ma in un certo senso il dubbio entrò in me. Cosa devo raccontare? L’impossibilità di un futuro grigio o la fantasia che ogni artista usa come grimaldello per uscire dal peggior pantano?
Poi ci aprirono. Lentamente la questione del mondo che cambiava si scontrava con la persistente immobilità della vita degli artisti. Quando nell’agosto del 2020 tutto riaprì, fummo gli unici a non riprendere normalmente il nostro lavoro.
Decisi così, con molta fatica, di serrare la ricerca e scegliere solo tre protagonisti: una scenografa disoccupata, un musicista senza spettacoli e un contadino poeta.
Li seguii per un anno e mezzo, secondo la tecnica classica del documentario. Vedendo come sopravvivevano a un conflitto esterno e interno. Con un solo piccolo ma non secondario dettaglio: all’inizio, per seguirli, erano ripresi con zoom. Ad apertura avvenuta, li andai a trovare, cominciando la seconda fase del nostro rapporto. Che cosa fai ora, una volta che tutto si è aperto? Nulla. Come sbarchi il lunario? Con enorme difficoltà.
Mancava qualcosa di importante. Non si capiva bene come dare un senso a questa cosa strana. Mancava un filo logico per un film che già era complicato di suo.
Fu così, che con molta reticenza, decisi di diventare il quarto protagonista. In fondo era vero, ero in difficoltà quanto loro, con i miei dubbi e le mie mille questioni. Ed è così che mi vidi obbligato a fare una scelta. Mostro la mia vita personale per quel che è, o ci gioco sopra? Devo davvero raccontare le mie noiose giornate tutte uguali a friggere e leggere?
Perché non mi mostro con la cinepresa? Me ne accorsi in ascensore. C’era uno specchio, così, io e la cinepresa, eravamo filmati assieme, mentre partivamo all’avventura a cercare di scoprire cosa ci fosse fuori. Mi rivennero in mente gli studi di clown che feci in Francia dopo che lasciai i miei studi di economia politica. In quel momento molto fragile della vita, l’immagine universale del clown che gioca, con delicatezza e ironia, con il fuoco del fallimento, mi aiutò a costruire il personaggio di Donpasta, cuoco maldestro e caciarone. Ed ora che clown sarei potuto essere? Malinconico sicuramente, altrettanto maldestro, preoccupato per la società, ma incapace di avere una connessione stabile su internet il giorno del suo primo corso di parmigiana online. Ecco trovato l’escamotage.
Gli esseri umani vanno in difficoltà nelle tragedie, figurarsi in una pandemia mondiale. Il clown nelle tragedie ci sguazza, tanto più in una pandemia.
Così avevo infine trovato la quadra. Era un film su degli artisti disperati, squattrinati, fragili e con un evidente senso di inutilità, che provavano a farcela. Non solo per loro, perché l’artista non farebbe questo mestiere, ma per tutti.
Così la terza e ultima parte del mondo vede un musicista, una scenografa, un contadino poeta, un regista clown davanti alla questione leninista: che fare?
Così venimmo a capo di ciò che ci toccava fare per salvarci la pelle e il mondo. Fare i Naviganti.
Fu lì che capii che serviva una metafora, un metatesto da dare alla Voce narrante, Fabrizio Gifuni. Il film inizia così: Fu consumato l’ambiente, il clima. Il mare si trasformò il cimitero, in trappola per balene, in una immobile distesa nero pece. Poi arrivò una particella infinitamente piccola, scoperchiò il vaso di Pandora e il deserto si rivelò. I Naviganti, scrutarono la città deserta, in attesa che la tempesta si placasse”.
"L'interesse che ho nei confronti di Pratt sin dalla mia adolescenza è dovuto alla fascinazione per una vita che credo sia stata gratificante nella realtà e intrigante da un punto di vista emotivo. Pratt ha viaggiato, creato, bevuto, fatto sesso, è stato in sella e ha danzato fino alla fine della sua vita. Pratt ha aperto porte misteriose dietro le quali ha trovato tesori che ha cercato di capire in ogni modo, mettendoli in forma di disegno. Queste scoperte esoteriche sono diventate importanti nel corso degli anni e hanno oscurato i piaceri fisici. È il viaggio misterioso di un uomo, un artista, verso un assoluto. Un viaggio per tappe, ognuna più profonda della precedente. Il mio impegno a sviluppare una trilogia sulla vita di Hugo Pratt corrisponde quindi a un bisogno profondo, un tentativo di sperimentare un'evoluzione umana" (Stefano Knuchel).
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4. Continua
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