Continua il nostro viaggio alla scoperta dei titoli presentati alla 78ma Mostra del Cinema di Venezia. In concorso, scende in campo il primo degli italiani: Paolo Sorrentino, nel suo film più personale, accompagna il pubblico in un viaggio ricco di contrasti tra tragedia e commedia, amore e desiderio, assurdità e bellezza, mentre il giovane protagonista trova l'unica via d'uscita dalla catastrofe totale attraverso la propria immaginazione. Parla in qualche modo italiano anche un altro dei film in concorso oggi, adattamento di un romanzo della nostra Elena Ferrante.
Le recensioni del giorno
Madres Paralelas di Alan Smithee // Madres Paralelas di Port Cros
Shen kong di Port Cros // Shen kong di Alan Smithee
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Concorso
EXCL.
INTRODUZIONE
“Ho fatto quello che ho potuto, non credo di essere andato così male”. - Diego Maradona
In È stata la mano di Dio, Paolo Sorrentino torna nella Napoli della sua gioventù per raccontare il turbolento racconto di formazione di un ragazzo, una storia resa ancora più intensa dal legame personale che presenta con il passato del suo stesso autore. È una storia più personale e decisamente più emozionale di tutte quelle che ha raccontato in precedenza. È un'immersione in una memoria viva, in un bellissimo mondo imperfetto che non sarebbe potuto durare. Ma è anche la struggente descrizione dell'impulso ad andare avanti, a creare, a cogliere qualunque sconcertante occasione si presenti, anche in mezzo a un immenso dolore.
Siamo negli anni '80. A Napoli tutti parlano in modo febbrile di Maradona, l'illustre leggenda del calcio che pare possa, quasi per miracolo, arrivare in città per giocare nella sfavorita squadra locale. L'aria è densa di promesse e l'adolescente Fabietto Schisa la respira a pieni polmoni. Se a scuola appare come impacciato ed emarginato, la vita comunque gli sorride. I suoi genitori sono volubili, hanno i loro difetti, ma si amano ancora. Le loro famiglie sono chiassose, a volte travagliate e tuttavia molto divertenti. I pranzi sono interminabili, i drammi famigliari vanno in scena ogni giorno, le risate sono incessanti e il futuro sembra ancora molto lontano.
Poi, un inspiegabile incidente capovolge ogni cosa. E, come fece un tempo Sorrentino negli anni della sua gioventù, Fabietto deve trovare un modo per sfuggire alle profondità della tragedia e venire a patti con lo strano gioco del destino che lo ha lasciato in vita. Con un passato andato distrutto e nonostante tutto un'intera esistenza davanti a sé, traccia la rotta del suo percorso attraverso la perdita e verso il nuovo. Questo insieme di devastazione e liberazione è qualcosa che Sorrentino ha sperimentato all'approssimarsi dell'età adulta. E nonostante la finzione e la realtà si intreccino liberamente in È stata la mano di Dio — talmente liberamente che persino gli elementi fantastici sembrano far parte del mondo perfettamente controllato di Fabietto — il film ricostruisce in modo meticoloso la città e l'atmosfera della famiglia in cui egli è cresciuto.
Nato nel 1970, Sorrentino cresce nel Quartiere Vomero di Napoli, sulla collina che si affaccia sulla distesa panoramica del porto della città. Quando ha 16 anni, entrambi i suoi genitori muoiono all'improvviso e in modo del tutto inaspettato per avvelenamento da monossido di carbonio a causa di una fuga di gas nella casa di villeggiatura della famiglia. Di norma, Sorrentino avrebbe dovuto essere insieme ai suoi genitori quel fine settimana. L'unica ragione per cui non rimane anch'egli vittima della tragedia è che ha ottenuto il permesso di restare a casa da solo, per la prima volta nella sua vita, per andare a vedere Maradona che gioca in trasferta con il Napoli.
Sorrentino arriva a percepire Maradona, un uomo già ammantato di divinità sul campo di calcio, come una forza che ha protetto la sua vita. Ma anche il cinema diventa una forza salvifica per lui, una distrazione dall'angoscia. Rifugiandosi nel fare film con grande passione, Sorrentino inizia a lavorare come aiuto regista. Esordisce nella sceneggiatura scrivendo Polvere di Napoli a quattro mani con lo sceneggiatore-regista Antonio Capuano, anch'egli personaggio chiave in È stata la mano di Dio. Di lì a poco Sorrentino passa dietro alla macchina da presa con la commedia L’uomo in più, interpretata da Toni Servillo, l'ultimo film che realizza a Napoli fino a quando non vi tornerà per girare È stata la mano di Dio.
Da quel momento in poi, Sorrentino scrive e dirige i suoi film, tra i quali La grande bellezza, vincitore del premio Oscar per il Miglior film straniero, e Youth - La giovinezza, candidato agli Academy Awards, nonché l'acclamata serie televisiva HBO The Young Pope e la successiva The New Pope.
Conquista una fama a livello internazionale per lo stile vivace che caratterizza una cinematografia dinamica e sfrenata e una narrazione esuberante. Ma nel caso di È stata la mano di Dio, il tratto febbrile scompare e lascia spazio a qualcosa di più esposto e più accessibile di tutte le esperienze che ha creato.
RICORDARE PER POTER DIMENTICARE
È in un momento pervaso da un senso di frustrazione per una sceneggiatura di The New Pope che Sorrentino compie un'inversione a U. Per concedersi una meritata pausa dai rompicapi religiosi, decide di prendersi qualche giorno di vacanza e in quei giorni inizia a sperimentare scrivendo una storia che scaturisce semplicemente dalla propria esperienza interiore, dai ricordi che riaffiorano da un passato che forse ha influenzato il suo lavoro nell'ombra, ma che non ha mai affrontato in modo diretto. Per la prima volta, scrive degli eventi più formativi della sua esistenza, alcuni luminosi e divertenti, altri talmente cupi e strazianti che possono apparire inavvicinabili.
In un primo momento Sorrentino non ha in mente di ricavare un film da quello scritto; al contrario, pensa di poterlo offrire in regalo ai propri figli. “Ho pensato che avrebbe potuto offrire loro la possibilità di capire non tanto il mio carattere quanto i miei difetti”, spiega.
L'obiettivo di una franchezza senza difese e senza vincoli di controllo caratterizza la scrittura. La sceneggiatura emerge in modo organico, come un tutt'uno, nel giro di pochi giorni. Se il processo di scrittura è spesso una guerra tra quello che si nasconde e quello che si rivela, qui la nuda rivelazione possiede l'autore. Tuttavia, Sorrentino ancora non sa di preciso se questa sceneggiatura emotivamente trasparente resterà solo in famiglia o se prenderà vita nella forma di un film.
“Capita a volte di provare l'esigenza di registrare i ricordi, di fissarli da qualche parte”, afferma. “Ma con il passare del tempo, ho pensato che forse sarebbe stata una buona idea farne un film perché avrebbe potuto aiutarmi non tanto a risolvere i problemi che ho avuto nella vita, quanto ad osservarli da una posizione molto più vicina e a conoscerli meglio. Tutti i miei film sono nati da sentimenti che mi appassionavano, ma dopo averli realizzati quella passione è svanita; così ho pensato che se avessi fatto un film sui miei problemi, forse sarei anche riuscito a dimenticarli, almeno in parte”.
Forse, scrivendo per dimenticare, i ricordi diventano ancora più elettrizzanti e vividi e generano un'immersione totale nei vari momenti rievocati. Per Sorrentino potrebbe essere pericoloso avvicinarsi così tanto al cavo sotto tensione della sua sofferenza personale, ma addentrandosi in questo territorio si rende conto che il processo di realizzazione del film gli consente al contrario uno spazio per prendere un po' di fiato.
“Per me l'aspetto interessante di fare un film autobiografico è che a quel punto quei problemi non sono più i miei problemi, ma sono i problemi del film”, spiega. “E non appena diventano i problemi del film, diventano più affrontabili. Quando ho iniziato a montare il film, guardare e riguardare quei ricordi è diventata quasi un'abitudine ed è molto più facile affrontare un'abitudine che affrontare un ricordo”.
Se è vero che il cinema può congelare il tempo, Sorrentino percepisce anche il suo potere di aggiungere un'altra dimensione alla storia del film: una comunione con gli spettatori che portano in sala le proprie esperienze di perdita, il proprio vissuto di quei momenti nella vita in cui le cose meravigliose e le cose terribili entrano in collisione. Questa connessione di sicuro non contiene una risoluzione, ma forse può offrire una sorta di conforto. “Se altre persone potranno relazionarsi e identificarsi con le mie esperienze, se si vedranno specchiate nel film, significa che la mia sofferenza sarà divisa a metà”, commenta Sorrentino, che ancora cerca di comprendere la strana logica del dolore infinito.
DUE CLIP DAL FILM
EXCL. LA PAROLA A PAUL SCHRADER
"Negli anni ho sviluppato un mio genere di film, titoli che spesso hanno per protagonista un uomo solo in una stanza che indossa una maschera di cui sarà chiamato a liberarsi. Che si tratti di un taxista, di uno spacciatore, di un gigolò o di un reverendo, prendo il personaggio e lo metto al cospetto di un problema più ampio, personale o sociale, da affrontare. In Il collezionista di carte, William Tell è solo nella sua stanza con la sua maschera addosso, quella di un giocatore di poker professionista, che sembra essere un ex torturatore per conto del governo degli Stati Uniti. In pratica, è una sorta di ponte tra la World Series Poker e Abu Ghraib.
Il fulcro della storia ruota intorno al tema della colpa, della penitenza e della resa morale. Non una colpa generale, in senso cristiano, ma un tipo più specifico di senso di colpa. E se qualcuno avesse fatto qualcosa che non può perdonare a se stesso? Sebbene sia stato in prigione e la società possa averlo perdonato, lui non ha perdonato se stesso. Ha fatto qualcosa di terribile e vive in una specie di purgatorio. Come uscirne? Come per molti dei miei personaggi, William Tell sta aspettando il suo momento e che succeda qualcosa. Per lui, ho inventato una professione adatta a chi aspetta e vive in una sorta di non esistenza. Il gioco d'azzardo forniva lo sfondo perfetto. Guardando programmi di poker in tv e pensando alle motivazioni psicologiche che muovono le persone che giocano alle slot machine, ho cominciato a immaginare la vita dei giocatori, una non esistenza monotona in cui le ore passano senza che accada qualcosa. Con il poker, puoi giocare per giorni interi prima che arrivi la magia di una mano fortunata: si tratta di una continua attesa.
Per Tell mi sono inventato un passato oscuro e tumultuoso da soldato nella guerra in Iraq. Mi sono chiesto cosa avrebbe potuto fare nella sua vita di così eclatante da non riuscire ad andare avanti. Anche i serial killer riescono a perdonarsi. Ma se avesse fatto qualcosa che ha stigmatizzato anche il suo stesso Paese? Da questa domanda, ho cominciato a pensare alle torture commesse nella prigione di Abu Ghraib, alle vittime arabe e ai torturatori americani, alle responsabilità di un'intera nazione e di quella cultura militare che le hanno permesse. L'intera vicenda si svolge tra casinò americani, cocktail lounge e camere di motel: le regioni costiere americane e le animate interstatali sono il luogo ideale per qualcuno che vuole perdersi e rimanere perso. Ma anche un luogo in cui qualcuno può inaspettatamente ritrovarsi grazie anche alla varietà di persone e personalità che incontra".
"Quando ho letto il romanzo La figlia oscura di Elena Ferrante, mi sono sentita pervadere da una sensazione tanto strana e dolorosa quanto innegabilmente vera. Una parte nascosta della mia esperienza di madre, compagna e donna stava trovando voce per la prima volta. E ho pensato a come fosse entusiasmante e pericoloso dare vita a un’esperienza come quella non nella quiete e nella solitudine della lettura, ma in una stanza piena di esseri umani dotati di vita pulsante e sensazioni. Come ci si sente a essere seduti accanto alla propria madre, al proprio marito, alla propria moglie o figlia nel momento in cui sentimenti ed esperienze comuni a lungo taciuti, trovano invece voce? Ovviamente esiste una sorta di sgomento e pericolo nel relazionarsi a qualcuno alle prese con cose che ci sono state dipinte come vergognose o sgradevoli. Ma quando quelle esperienze vengono portate sullo schermo, esiste anche la possibilità di trovare conforto: se qualcun altro formula quegli stessi pensieri e prova quelle stesse sensazioni, forse non si è soli. Questa è una parte della nostra esperienza che di rado trova espressione e, quando ciò accade, è per lo più attraverso l’aberrazione, la dissociazione o il sogno" (Maggie Gyllenhaal).
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Fuori Concorso
"Non sono muta ma silenziosa. Non posso vedere, eppure non sono cieca. Cosa fanno i sopravvissuti? Rimangono zitti oppure raccontano tutta la storia. Come è possibile raccontare una storia per intero se la propria memoria è intessuta solo di frammenti e talvolta non è nemmeno documentata. Come può il mio silenzioso universo interiore riflettere quel mondo non detto o ricordare un’era di rivoluzione, guerra, immigrazione e politica internazionale? Come è possibile negoziare in un mondo incurante delle negoziazioni? Come regista, le parole, i suoni e le immagini sono elementi delicati che creo, intesso e con i quali interagisco. Ma come posso creare una storia lineare e semplice quando il lusso della semplicità non mi è concesso? Così, eccomi qui. Io sono la storia e allo stesso tempo la voce narrante. Questo è ciò che resta di me e della storia, del mio essere stata testimone e del mio coinvolgimento, di come il cinema ha salvato la nostra integrità mentale e probabilmente le nostre vite" (Diana El Jeiroudi).
"Fine del 2015. Regione del Donbass, Ucraina. Ai confini dell’Europa Orientale, migliaia di uomini si rifugiano nelle profondità del terreno, esausti dopo mesi di combattimenti. La guerra di movimento è finita; la potenza di fuoco dell’artiglieria l’ha trasformata in una guerra di posizione. I soldati capiscono che non finirà presto. E soprattutto capiscono che sarà molto diverso da quanto avevano immaginato. Quasi cento anni dopo la Grande Guerra, inizia un nuovo capitolo della guerra di trincea. In questo conflitto di un’era passata, l’uomo si trova a trasformare il territorio e sé stesso. Deve costruire e consolidare l’ambiente in cui vive, trovarvi riparo e adattarsi a esso. La trasformazione è vitale per affrontare la morte, ricreare una routine quotidiana e una qualche forma di normalità nel mondo aberrante del conflitto armato. Sette anni dopo l’inizio delle ostilità, praticamente nessuno è al corrente del fatto che ad alcune migliaia di chilometri di distanza, al confine dell’Ucraina orientale, giovani europei stanno morendo, e continuano a morire, in una guerra assurda. Questo film narra la storia di una battaglia e, per molti aspetti, una storia personale: il desiderio di raccontare la storia di qualcosa che nessuno cerca veramente di vedere o comprendere, se pensiamo che le inchieste sull’Ucraina non destano più interesse alcuno. Dopo avere documentato come giornalista il movimento EuroMaidan, l’inizio della guerra e l’impatto sulla società ucraina, ho avvertito l’urgenza di rivolgermi al cinema. Sono francese, amo l’Ucraina e non capisco perché le potenze occidentali non abbiano messo fine a questo devastante conflitto alle porte dell’Europa. Sono perplesso e voglio condividere il mio stato d’animo filmando i miei simili e in questo modo, con l’ausilio del cinema, documentare l’amore per la vita e la follia degli uomini in generale. Inclusa la nostra" (Loup Bureau).
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Proiezioni speciali
"Raccontare Joe D’Amato, significa raccontare la storia del cinema italiano di genere, dallo spaghetti western, all’horror e persino al porno, ma anche la straordinaria vita di un uomo che ha sacrificato tutto per la sua grande ossessione: il cinema! Questa incredibile avventura è stata realizzata grazie agli interventi di registi cult come Lamberto Bava, Ruggero Deodato, Alberto De Martino, Jess Franco, Eli Roth e soprattutto all’impegno e alla passione di un grande autore come Nicolas Winding Refn" (Manlio Gomarasca, Massimiliano Zanin).
"La nostra civiltà è stata colpita da una profonda crisi che ha investito ogni ambito dell’esistenza umana; un intervento tempestivo è necessario per sanare profonde diseguaglianze imperanti. La pandemia ci ha obbligati a riesaminare le nostre convinzioni ed è diventata l’occasione per ripensare al nostro stile di vita. Più delle edizioni passate, questa Biennale Architettura è l’occasione per concepire nuove geografie in cui pacifismo, equità, solidarietà, giustizia sociale e sostenibilità ambientale sono punti di partenza per una ricostruzione collettiva. Architetti provenienti da tutto il mondo tentano di rispondere alla difficile domanda: How will we live together?" (Graziano Conversano)
"Ho trascorso cinque anni nel bel mezzo di una trasformazione colossale: una centrale elettrica che forniva energia al Cremlino veniva rigenerata per portare energia culturale alla gente. Il film consiste di esperienze artistiche che si materializzano nei momenti più inaspettati. Si è assemblato da sé come un caleidoscopio, in cui episodi apparentemente scollegati confluiscono a creare un meraviglioso schema di persone mosse dalle più diverse ambizioni e aspirazioni, unite nello sforzo di realizzare una nuova istituzione culturale globale nel cuore di Mosca. Più grande l’evento, più importante mi sembrava mostrarlo attraverso contrattempi banali. Perché la vita non sarebbe possibile senza un tocco di assurdità" (Nastia Korkia).
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Orizzonti
"Land of Dreams, nato in collaborazione con Jean-Claude Carriére, è un viaggio cominciato a Parigi nel 2018 e terminato con la sua morte a gennaio scorso.
Il film si ispira alla nostra esperienza di immigrati iraniani in America dagli anni Settanta e alla percezione della cultura americana di un francese come Jean-Claude. Il discorso è perciò il prodotto delle nostre sensibilità e dei nostri punti di vista di stranieri nei confronti di una nazione che amiamo, ma che osiamo criticare.
Dal punto di vista stilistico, il film è il risultato di un incontro tra una lingua profondamente personale, visiva e concettuale e il tocco leggendario dello sceneggiatore Jean-Claude Carriére, con l’arguzia, lo spirito e l’umanità che lo caratterizzano". (Shoja Azari, Shirin Neshat)
EXCL. LA PAROLA AL REGISTA JOAQUIN DEL PASO
"Il film esplora le varie facce della realtà vissute da un gruppo di ragazzi e dal personale di un campeggio scolastico; allo stesso tempo, descrive le strategie ordinate di indottrinamento religioso collettivo delle menti più giovani, l'ascesa caotica dell'isteria di massa e il sublime momento (fragile) che segna la fine dell'infanzia e l'ingresso nel mondo reale. Il mio obiettivo era quello di fornire un quadro critico della struttura e del funzionamento del sistema educativo d'élite in Messico e il ruolo che gioca nell'estrema polarizzazione sociale.
Le scuole private religiose continuano a essere un simbolo di prestigio in molti paesi dell’America Latina. Riscuotono successo perché? promettono, grazie alla rigida disciplina e alla preghiera, di forgiare gli studenti, trasformandoli in futuri leader economici e politici. Io voglio gettare una luce critica su un simile sistema educativo che, a braccetto con la religione cattolica, mira a rafforzare già? radicate strutture di potere, ideate per creare barriere psicologiche tra le persone. Tali barriere invisibili contribuiscono al continuo abuso razziale, di genere e di classe sociale, e lasciano ferite profonde in chi ha sperimentato in prima persona l’indottrinamento da setta perpetrato in queste istituzioni. Voglio sottolineare come questo sistema serva a creare persone dure, pronte a schiacciare chiunque altro pur di avere successo e rafforzare lo status quo del potere.
I personaggi della storia sono soggetti a un incontro collettivo che, all'apparenza, sembra essere minacciato dal mondo esterno. Tuttavia, man mano che gli eventi si susseguono, appare chiaro come quella sembra essere un'esperienza programmata per plasmare le convinzioni ideologiche degli studenti. E sono i loro insegnanti coinvolti nella manipolazione teatrale degli eventi? Forse, la minaccia dall'esterno (gli abitanti impoveriti del villaggio) non è altro che una coreografia ad arte creata per provocare un cocktail di paura e fervore religioso, utili per consolidare il legame tra i ragazzi, la futura classe dirigente messicana, e l'organizzazione.
Il film narra una storia personale, basata sui ricordi d'infanzia legati a un luogo in cui certe narrazioni servono a manipolare la percezione della realtà?. Ho frequentalo una scuola simile gestita dall'Opus-Dei per un paio di anni, durante i quali ho vissuto momenti di punizione e manipolazione psicologica. Al tempo, mi sembrava di essere sottoposto a una sorta di allenamento alla resistenza, in cui ai bambini viene insegnato come essere spietati e non provare empatia. Ho vissuto anche un'esperienza simile a quella che racconto nel film: i miei compagni sono stati messi davanti a una paura incontrollabile, instillando in loro il dubbio che all'interno del campeggio vi fosse un intruso "satanico". Ciò ha permesso che si creasse un forte legame tra gli alunni e gli insegnanti, mossi da un falso sentimento di protezione".
MINI INTERVISTA A ERIC GRAVEL
Full Time inizia con un rumore, il respiro della protagonista Julie mentre dorme...
L'idea era di svelare il personaggio gradualmente, da una prospettiva intima, in maniera macroscopica e sensoriale, con questo respiro profondo che ci avvolge, facendoci sapere che saremo al suo fianco per tutto il film. Incredibilmente vicini al suo respiro, alla grana stessa della sua pelle. Inoltre, è un momento di calma prima della tempesta. In effetti, Full Time è come una lunga spinta in avanti e la prima scena precede il costante movimento che ne consegue. Siamo in pratica nell'unico momento in cui Julie è a riposo, quell'attimo unico e transitorio in cui può ricaricare le batterie. Dopo, non ci saranno più tregue per lei. Attraverso la storia di questa donna, sola con i suoi figli, sollevo la questione del ritmo della nostra vita e delle nostre lotte quotidiane. Proprio come Julie, vivo in campagna. Volevo parlare dei miei vicini, delle persone che vedo ogni giorno in treno che tentano di vivere lontano dalla capitale per avere una migliore qualità di vita. Si tratta di un equilibrio difficile da trovare e non tutti ci riescono.
Ha scritto la sceneggiatura avendo in mente Laure Calamy come protagonista?
No. Mentre scrivevo, non avevo in mente nessuna attrice. Ma, quando ho cominciato a pensare a chi avrebbe potuto interpretare la protagonista, Laure mi è sembrata perfetta. È un'attrice eccezionale, che sa spaziare da un genere all'altro eccellendo sia nella commedia sia nel dramma. La scintilla che Laure infonde sempre ai suoi personaggi ha portato un equilibrio a Julie, facendole mantenere una certa compostezza nonostante il difficile incantesimo che sta attraversando. Sappiamo molto poco di Julie se non che è costretta da un giorno all'altro a pensare incessantemente a come far funzionare le cose. Laure è un'attrice e una donna piena di vita e il che ha reso interessante metterla nei panni di una donna che sta attraversando un momento caotico, quello che gli americani riassumerebbero con l'espressione "la tempesta perfetta", a cui trovare soluzione.
L'ambiente lavorativo è importante nel suo film. Com'è che ha scelto il lavoro di governante in un hotel di lusso?
Volevo che la protagonista avesse un lavoro che fosse fisico, un lavoro per cui non ci si ferma mai anche quando c'è uno sciopero nazionale. E poi mi interessava che ripetesse ogni giorno gli stessi gesti, sia al lavoro sia a casa, come in una sorta di moto perpetuo. Il suo lavoro mi permette anche di mostrare fino a che punto Julie sia attaccata alle prestazioni e alla perfezione. La posizione di prima cameriera in un hotel di lusso non è semplice. Ci sono competenze e conoscenze specifiche in ballo, compiti precisi, gesti e codici da rispettare. Il risultato deve essere perfetto e il lavoro svolto impeccabile. Laure e le altre attrici, prima delle riprese, si sono unite a un turno di pulizie in un albergo per farsi spiegare dalle inservienti il loro lavoro passo dopo passo.
Il contesto sociale è altrettanto essenziale.
Sì, il film si svolge durante un massiccio sciopero nazionale che si estende a tutti i settori. Volevo che nella storia fossero presenti sia le lotte individuali sia quelle collettive che, pur seguendo percorsi paralleli, sono collegati e conseguenze le une delle altre. Julie è a un punto cieco della società, appartiene a una categoria di lavoratori vulnerabili per i quali scioperare o avere altre forme di rappresentanza è praticamente impossibile.
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Biennale Cinema
"Sono partito dall’idea di filmare in un luogo specifico, una strada lungo la quale ho viaggiato tutta la vita: la Aloag-Santo Domingo Road, fino a poco tempo fa l’unico collegamento in Ecuador tra le catene montuose e la costa. La quantità di contrasti in quel breve tratto di strada, a malapena cento chilometri, ha sempre rappresentato un’ossessione per me. Indubbiamente, per i nostri antenati questo deve avere rappresentato un autentico viaggio. Mi piace immaginare come doveva apparire il paesaggio in sella a un asino, che cosa significava intraprendere a piedi un viaggio lungo più di una settimana, affrontando le più svariate insidie, e quali pensieri devono avere attraversato la mente di coloro che hanno percorso a piedi queste terre sconosciute.
Al Oriente è un invito a fermarsi sul ciglio della strada; essere lì, mettendosi nei panni di Atahualpa, un uomo che lavora su una strada cercando di aprirsi un varco verso Oriente. Una complessa eredità storica lo investe e lo sfida. In un momento di disincanto e crisi economica per il paese, Atahualpa si interroga sulla propria identità e, in modo molto concreto, sul proprio nome" (José Maria Avilés)
LA LEGGENDA: Nel 1532, all'inizio dell'epoca coloniale, Atahualpa fu catturato da Francisco Pizarro a Cajamarca, in Perù. Gli Incas offrirono un riscatto in oro che non raggiunse mai le mani degli Spagnoli perché Atahualpa venne ucciso prima della sua consegna. La leggenda narra che, dopo aver appreso del tradimento, gli Incas nascosero l'oro. Ad oggi, il tesoro non è stato mai ritrovato, nonostante siano state portate avanti diverse ricerche nelle zone di ingresso dell'oriente ecuadoriano.
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SETTIMANA DELLA CRITICA
EXCL. NOTE DI REGIA: “Questa storia può essere più cose. Una provocazione, un racconto esistenziale, un “coming of age” incentrato sulla ricerca di un’identità familiare e individuale. Ma vuole soprattutto essere la storia di un’amicizia. E per raccontare la vicenda di questi due orfani, Mondocane e Pisciasotto, era necessario un contesto in qualche modo privo delle regole del mondo borghese. Questa distopia non nasce come un racconto di fantascienza, ma è ispirata dal vivo dibattito sulle sorti dell’acciaieria di Taranto e della sua gente. Abbiamo immaginato un fallimento sociale, la regressione a un Terzo Mondo dai grandi contrasti.
Dal punto di vista visivo ho scelto colori caldi, prendendo a riferimento il cinema latinoamericano. Ispirandomi alle sue atmosfere e alle sue assurde contraddizioni, ho cercato di raccontare il sogno dei nostri ragazzi nel momento in cui si realizza, dal loro punto di vista: sole, mare, una nuova famiglia, due soldi in tasca, una ragazza conosciuta in uno stabilimento. Sono sul tetto del mondo, cosa potrebbe andare storto?” (Alessandro Celli)
DAL CATALOGO DELLA SIC: “Mondocane si approccia direttamente al cinema di genere, un fantasy-thriller apocalittico in cui uno dei riferimenti più immediati è il cinema di John Carpenter. [...] ed è estremamente attuale: perché attraverso il genere parla di Taranto, dell’Ilva, delle polveri inquinanti. Il cielo è sporco e soprattutto si vede sullo sfondo il fumo delle ciminiere mostrate come una presenza minacciosa. Dall’altra parte c’è l’Eden incontaminato, la città ideale, nello stabilimento dove Pietro e Christian conoscono Sabrina, la ragazzina che vive in un orfanotrofio. È solo uno squarcio momentaneo, un desiderio istantaneo, quello in cui i due protagonisti possono ordinare ciò che vogliono e sognare un futuro diverso da quello che il destino gli ha riservato. [...]
Il titolo del film richiama il nome del negozio di animali che viene incendiato, ma è anche il soprannome di Pietro dopo che ha superato la prova di accettazione nella gang delle Formiche.
Alessandro Borghi nel ruolo di Testacalda disegna un boss spietato, che comanda il suo esercito prevalentemente composto da ragazzini che potrebbero essere la reincarnazione di quelli di Il signore delle mosche. Lo fa con il suo sguardo allucinato e un look alla Scorsese, con baffi che ricordano “Bill il macellaio” di Gangs of New York, capelli rasati alla Travis Bickle di Taxi Driver e cicatrice sulla testa in evidenza” (Simone Emiliani, Formiche d’Acciaio, p. 38).
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GIORNATE DEGLI AUTORI
“Un giorno, durante le riprese di Butterfly, una ragazzina di nove anni aveva "incrociato" le nostre videocamere, poi era sparita. Ci aveva donato degli sguardi intensi e una scena nella quale esprimeva, con forza e determinazione il suo desiderio di diventare una campionessa di pugilato. Durante il montaggio ci siamo soffermati spesso su quegli sguardi decisi, misteriosi: cosa stava osservando? Cosa pensava in quel momento? Dentro a quello sguardo c'era un mondo, una tensione, un mistero e, ne eravamo già convinti, una storia da raccontare [...]. Quando abbiamo capito che era in grado di sostenere il peso di un film, abbiamo iniziato a lavorare a una storia che le si confacesse, che intrecciasse temi del suo vissuto ma che non fosse esattamente la sua, lasciandoci così la libertà dell'invenzione drammaturgica”. (Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman).
EXCL. LA PAROLA AL REGISTA ALY MURITIBA
“Ho dedicato gli ultimi anni del mio lavoro a riflettere sull'affetto, al modo di essere, al comportamento e all'amore maschile nella società brasiliana contemporanea, essenzialmente conservatrice e patriarcale. La domanda che mi sono posto è: come amiamo noi uomini? Come possiamo esprimere ciò che proviamo senza ferirci a vicenda? Come possiamo farlo quando ci viene insegnato che dobbiamo essere forti, sicuri e freddi? Nei miei due precedenti lavori, la trasformazione dei protagonisti passava per il lutto e per il senso di colpa. In Deserto particular, invece, le forze trainanti della trasformazione cono il desiderio e l'amore.
Seguiamo da vicino Daniel, un agente di polizia lontano dal lavoro che sta cercando di prendersi cura del padre malato. Si vede subito che Daniel è un ragazzo introverso che sorride raramente, a meno che non parli con Sara, la donna di cui si è innamorato ma che non ha ancora incontrato di persona. Daniel vive a Curitiba, il capoluogo più freddo del Paese abitato principalmente dai discendenti degli immigrati polacchi e ucraini, mentre Sara vive a Sobradinho, un piccolo centro a 3 mila km di distanza. Un giorno, Sara smette di rispondere ai messaggi di Daniel e scompare. Angosciato, Daniel decide di attraversare il paese per cercarla.
Deserto particular è un film di contrasti. Accompagnando il viaggio del giovane poliziotto si percepiscono, con un punto di vista molto personale, le disparità di comportamento e geografiche brasiliane. Mentre a sud i corpi sono nascosti da strati e strati di indumenti, a nord est sono esposti al calore. Se al sud ci sono silenzio e dialoghi laconici, nel nordest si parla sempre. E le persone non solo parlano ma si toccano anche mentre lo fanno. Tanto il sud è grigio, quando il nordest esplode di colori vivaci. E questi contrasti finiscono a poco a poco con l'influire su Daniel.
Deserto particular è quindi un film di incontri. Dal 2016, con il golpe che ha destituito il presidente democraticamente eletto, la mia generazione vive il momento più drammatico della sua esistenza. Dopo il golpe, il Brasile è sprofondato in una spirale di odio che è culminata nell'elezione di un fascista alla presidenza. Con Bolsonaro, si è cominciato a perseguitare quasi sistematicamente tutte le minoranze (donne, indigeni, comunità LGBTQI+ e neri, soprattutto) e la nazione si è letteralmente spaccata in due, tra il sud conservatore e il nord/nordest progressista. Diverse volte si è arrivati sull'orlo di uno scontro armato. E questi tempi d'odio mi hanno dato una spinta in più quando si è trattato di capire quale sarebbe stato il mio prossimo film. Ho deciso che avrei fatto un film d'incontri. In questi tempi d'odio, ho deciso di fare un film sull'amore”.
"Da bambino, David Kurtz emigrò dalla Polonia negli Stati Uniti. Nel 1938 tornò in Europa per un viaggio turistico e visitò Nasielsk, la sua città natale. In quell'occasione, comprò una cinepresa 16mm, all'epoca una vera e propria rarità in una piccola città mai frequentata dai turisti. Ottant'anni dopo, quelle riprese ordinarie, la maggior parte delle quali a colori, sono diventate qualcosa di straordinario. Sono le uniche immagini in movimento che rimangono di Nasielsk prima della Seconda guerra mondiale. Quasi tutte le persone che vediamo sono state uccise nell'Olocausto. [...] Three Minutes - A Lengthening è un esperimento che trasforma la scarsità in qualità. In un'epoca segnata dall'abbondanza di immagini che non si guardano mai due volte, abbiamo fatto esattamente il contrario: in modo circolare, vediamo gli stessi momenti ancora e ancora, convinti che ogni volta possano produrre un significato diverso. Il film inizia e finisce con lo stesso inedito found footage, ma la seconda volta lo si guarderà in modo differente". (Bianca Stigter).
"Ricordo quando da bambina mio padre mi portava a nuoto alla grotta di Polifemo. E mi raccontava di Ulisse, che, tanti anni fa, aveva attraversato come noi questi mari. Con queste mie parole si apre la prima sequenza del mio documentario, sotto la superficie del mare, in un'isola magica non precisata, dove all’improvviso, come rievocati dai miei ricordi di bambina, mi appaiono davanti, dietro il canto delle sirene, le figure di Ulisse, Polifemo, Omero, Orlando, Angelica, Don Chisciotte e Sancho Panza.
Sono apparizioni della mia fantasia, distorte e ingrandite dalla focale corta del grandangolo, salgono lentamente dal basso, come personaggi in cerca di autore, tra i fasci di luce che li illuminano dall'alto, per rinascere in un nuovo viaggio, a bordo di un magico furgone rosso guidato dal primo e ultimo cuntista e puparo vivente, Mimmo Cuticchio.
Il furgone è la macchina del cinema, ma anche la macchina del tempo, con i pupi appesi sul retro scoperchiato e Don Chisciotte sul tettino, la lancia protesa in avanti, in cerca dei nuovi cuntisti che possano fargli, e farci, rivivere il sogno, in giro per la Sicilia del grande mito e della tragedia classica” (Giovanna Taviani).
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2. Continua
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