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Venezia. Torna il cinema italiano.
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Dopo molto tempo, torno a scrivere un post sul nostro rotocalco telematico. Il periodo buio non è completamente alle spalle ma almeno adesso ho più tempo per pensare al cinema, anche se riconosco che tre operazioni dal dicembre 2018 ad oggi non siano davvero uno scherzo. Da sempre, il mio interesse principale è il cinema italiano e Venezia – da cui ormai manco da diversi anni – offre l’occasione per parlarne, perché, a qualsiasi livello, questo cinema ha bisogno di sostegno.

 

Quest’anno Cannes ha messo in campo materiale più scintillante del solito: per molti, l’aver rinunciato a quei temi che ne fanno il terzo evento mondiale e che sono materia del cosiddetto “cinema civile”, ha impoverito la rassegna francese che alla fine, a conti fatti, è risultata deludente e piuttosto parca di contenuti.  Così, Alberto Barbera, analizzando il complesso momento storico - il mondo di celluloide è cambiato in questo decennio in cui il critico di Biella ha preso le redini della Mostra - con grande senso politico, ha lavorato per portare al Lido proprio quel cinema d’impegno e di valori universali che non è così frequente in Laguna.

 

Sia ben chiaro: nessuno dei film italiani in concorso sviluppa tali temi; tra storie di costume e drammi personali, l’impegno non è la materia principale dei lavori del Belpaese in concorso. Ma lo è indubbiamente di quasi tutte le altre pellicole partecipanti. Ciò che però non manca ai film italiani in concorso quest’anno è l’ambizione, parola quasi sempre assente nel nostro mercato cinematografico.

 

Il problema nasce sempre da un movimento troppo piccolo per essere davvero considerato un’industria.

 

Marco Bellocchio, Daniele Ciprì, Francesca Comencini, Gianni Amelio, Emma Dante, Gianfranco Rosi, Saverio Costanzo, Mario Martone, Francesco Munzi, Marco Bellocchio, Luca Guadagnino, Giuseppe M. Gaudino, Piero Messina, Roan Johnson, Giuseppe Piccioni, Manetti Bros, Andrea Pallaoro, Sebastiano Riso, Paolo Virzì, Luca Guadagnino, Mario Martone, Roberto Minervini, Franco Maresco, Pietro Marcello, Mario Martone, Susanna Nicchiarelli, Gianfranco Rosi, Claudio Noce, Emma Dante : scorrendo la lista dei partecipanti al concorso dall’edizione 69 (2012) all’edizione 77 (2020), ci accorgiamo che il cinema italiano è una grande famiglia. Molti registi hanno – in alcuni casi stancamente – riproposto le loro opere più volte senza successo, invitati a partecipare, molti altro sono legati così strettamente tra di loro che non si può evitare di notare quanto  che stiamo parlando davvero di un piccolo cantiere, nemmeno una fabbrica di modeste dimensioni. La creatività dei nostri autori è straordinaria e basta guardarci in giro ma non è sorretta da un’adeguata impalcatura produttiva: certo, Venezia avrebbe potuto anche scegliere negli anni scorsi un panorama più variegato (fa eccezione “Spira Mirabilis”, della coppia D’Anolfi-Parenti) ma salta agli occhi che tranne un maestro riconosciuto ma mai premiato e il vero principe della nuova ritrovata commedia drammatica, mancano tanti autori di punta, i cui nomi sono invece sempre sulla bocca dei cinefili e che più spesso si sono accomodati altrove. Da una parte, la sudditanza della rassegna alla Rai – che anche quest’anno, di fatto, fornisce la madrina del festival, dopo averla presentata in tv nel 2021 in tante salse diverse - , dall’altra la necessità di trattenere gli sponsor, hanno rallentato quel processo di crescita (di cui la Biennale College è solo un piccolo promontorio) che il direttore sembrava avere intenzione di inaugurare, dopo la gestione Muller, votata all’Oriente.

 

Ecco, quindi, che, per tanti motivi, questa manifestazione sembra diversa: lo confermano proprio gli italiani scelti in gara, che, fatta eccezione per “l’obbligo Martone” – un cineasta che negli ultimi anni ha faticato non poco a ritrovare una propria dimensione poetica, che oscilla tra una biografia e l’altra senza graffiare come prima – sono tutti alla “prima volta in concorso”. Prescindendo, comunque, dai valori in campo – a livello internazionale l’opera che sembra davvero più attraente sulla carta è il secondo lavoro di quel Gabriele Mainetti, tra i pochi a denunciare le difficoltà di produrre un film in Italia e che quindi ha sofferto più di altri per concludere la nuova pellicola - i nostri fuoriclasse (ma i fratelli D’Innocenzo dovranno comunque scegliere, una volta per tutte, stile e forma, altrimenti, pur essendo già premiatissimi, rischiano di rimanere incompiuti ) si preparano a difendere i colori italici. Certo, bisognerà quindi vedere quale impatto avrà sul pubblico Sorrentino senza Nicola Giuliano, suo più che ventennale angelo custode, e che determinò il premio Oscar a “La grande bellezza”.  Va qui rammentato che non è un caso, infatti, che con la scissione da “Teatri Uniti” e l’allontanamento da Curti quale suo primo produttore, Martone non abbia più prodotto quel cinema di qualità che ci si aspettava da lui, pur azzeccando qualche titolo, anche se solo in parte (“Il giovane favoloso”, più per un pubblico giovanile che non per critici ed estimatori) e come reagiranno le platee a Michelangelo Frammartino, sempre ostico nella rappresentazione dei propri temi. Ciononostante, i segnali di un nuovo buon inizio si vedono, eccome: il coraggio di Barbera, infatti, ha selezionato non solo lavori a marchio Rai.  

 

Non ci resta che accomodarci in sala.

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